I coloni sono un ostacolo insormontabile alla nascita di due Stati. La causa palestinese ha fatto passi indietro. E con Gaza ostaggio di Hamas, la pace non conviene a nessuno. Tel Aviv ha condannato le future generazioni a vivere nell'insicurezza

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Israele ha già vinto e nello stesso tempo perso la sua battaglia per la sopravvivenza. Vediamo perché. Ha vinto per un semplice e incontrovertibile dato di fatto che la diplomazia consapevolmente tace ma che è sotto gli occhi di tutti: basta guardare la mappa degli insediamenti di coloni nei territori occupati. Stiamo parlando di mezzo milione di persone, in costante aumento a partire dalla vittoria nella guerra dei sei giorni (1967, e allora il governo era laburista), che oggi occupano più di 120 diverse località in Cisgiordania, nella parte orientale di Gerusalemme e sulle alture del Golan, al confine con la Siria. Equivalgono a più di un decimo dell’intera popolazione israeliana e alcuni degli insediamenti maggiori superano la quota di alcune decine di migliaia di individui. La loro disseminazione sul terreno rende praticamente impossibile ogni futura realizzazione di un eventuale stato palestinese, che abbia una propria continuità territoriale e una minima estensione geografica ed economica. È stata questa, a ben vedere, la vera arma segreta di Israele. È vero. Nel 2005 Sharon ha smantellato di forza i suoi concittadini che erano andati ad abitare nella striscia di Gaza: ma erano appena 10 mila persone divise in 20 diverse località (che si sono tutte reinstallate in Cisgiordania). È irrealistico, per usare un eufemismo, pensare ad una guerra di Israele contro 700 mila coloni disarmati per farli tornare a casa. Lo stato palestinese non c’è e non ci sarà più.

Questo semplice dato di fatto è ovviamente ben conosciuto dalle autorità israeliane. Ma anche da quelle palestinesi. E qui veniamo alla seconda considerazione, che non è un dato di fatto e quindi è opinabile. A mio modo di vedere, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, la causa palestinese ha fatto giganteschi passi indietro. La dirigenza politica del movimento, da sempre frammentata, ha concluso accordi (Oslo 1993) che non è stata in grado di rispettare, è stata contestata dal suo stesso popolo per corruzione e ha infine lasciato il passo a una formazione integralista come Hamas, che si è impegnata (almeno finora) soltanto in trattative riguardanti le operazioni militari, rifiutando ogni discussione sul futuro e stabile assetto della regione.

Il sospetto è che Hamas abbia tutto da guadagnare dal protrarsi infinito di una situazione di occupazione e di guerra, mentre abbia tutto da perdere dalla pace e dall’esercizio del governo in un fazzoletto di terra privo di autonomia economica. Da questo punto di vista, il suo comportamento politico negli anni addietro è abbastanza coerente: guerra con Israele-tregua-accumulo di altre risorse militari per una nuova guerra. Il mito fondativo – non dissimile da quello di altri movimenti di liberazione anticoloniali del passato, dal Vietnam all’Algeria – è che ogni futuro dipende dalla partenza degli occupanti. Ma qui gli occupanti se ne sono andati nel 2005. E allora ogni futuro dipende dalla cancellazione (o dalla dura sconfitta) di Israele.

La popolazione civile di Gaza è tenuta sotto ostaggio, come base di reclutamento, «scudo umano» nelle fasi di conflitto, arma mediatica di propaganda per le sue sofferenze. Quando si è ritirato da Gaza, Sharon ha cinicamente calcolato tutto questo: lasciamo ai palestinesi un territorio dove governare, lo strangoliamo con l’embargo e lo teniamo come bersaglio per le nostre rappresaglie.
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Anche la destra israeliana ha tutto da guadagnare con la guerra e molto da perdere con la pace.
Ma allora perché Israele avrebbe perso? Gli stati arabi che lo circondano sono incomparabilmente più deboli che nel 1967, preda di guerre civili e drammatici rivolgimenti politici. Molto difficilmente qualcuno di loro (anche l’Iran) può oggi seriamente pensare a una nuova guerra contro Israele. Eppure Israele ha perso. Perché ha condannato le sue generazioni future a una guerra endemica sul tipo di quelle che oggi costellano il continente africano. Nel lessico asettico delle scienze militari vengono chiamati «conflitti a bassa intensità» perché il loro bagaglio di morte raramente supera il migliaio di vittime all’anno. Si differenziano dalle guerre del passato perché ci sono pochi eserciti in uniforme e molte bande paramilitari, ciascuna delle quali estrae la propria sopravvivenza quotidiana dal taglieggiamento delle popolazioni civili che incontra sul proprio cammino. Anche loro non sono per nulla interessate a una eventuale pace: nei Balcani degli anni novanta ne vedemmo un piccolo assaggio. Per questo i tecnici militari li chiamano anche «conflitti endemici»: è molto difficile che arrivino a una conclusione negoziata perché la dispersione dei gruppi armati rende quasi impossibile la loro riconduzione all’ordine. È ciò che sta avvenendo in Libia e Siria: non si spiega altrimenti l’incapacità dei cosiddetti ribelli (contro Gheddafi, contro Assad) a formare una coalizione e a condurre trattative di pace. È una sorta di riedizione moderna dei vecchi predoni del deserto, questa volta geograficamente e politicamente molto meno remota.

Ho paura che Israele si sia scelto questo destino. Già alle spalle di Hamas incombono altri gruppi ancora più radicali e incontrollabili (sembra siano loro, tra l’altro, i responsabili dell’uccisione dei tre ragazzi israeliani che è all’origine della guerra attuale), spesso in lotta tra loro e decisi a usare ogni violenza anche contro il proprio stesso popolo. Spero con tutto il cuore di sbagliarmi ma ho paura che una nuova stagione di attentati terroristici stia per insanguinare le città israeliane. Ecco perché Israele ha perso. Perché di nuovo torna il destino di un popolo condannato alla perenne insicurezza e instabilità dell’Esodo, che la sera del suo giorno più solenne – la Pasqua – mangia in piedi per ricordare simbolicamente il suo sentirsi sempre sul piede di partenza. E con il nemico alle porte. Anzi dietro un muro.