Dopo due sanguinose guerre combattute in Afghanistan e Iraq senza risultati tangibili a fronteggiarci è ancora lo stesso nemico "incivile" (secondo i nostri standard occidentali). Ma tra al Qaeda e Isis vi sono anche alcune profonde differenze

Tredici anni dopo l’undici settembre: a che punto siamo?
La prima sconfortante impressione è di essere ancora lì. Cambiano i nomi – al Qaeda, Isis – ma a fronteggiarci è ancora lo stesso nemico «incivile» (secondo i nostri standard occidentali) di matrice islamista, molto più pronto di noi a prendere le armi e a sfidare la morte. Con in più la stanchezza (e la conseguente discordia) che serpeggia in Occidente, dopo due sanguinose guerre combattute in Afghanistan e Iraq senza risultati tangibili.
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Obama ha parlato anche di questo. Nel 2001, subito dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle, la forza militare che partì per l’Afghanistan alla ricerca di Osama bin Laden era sostenuta dalle Nazioni Unite e dalla più larga coalizione mai vista nella storia: ne facevano parte attivamente anche Russia e Cina. Siamo poi venuti a sapere dai documenti riservati del Foreign Office britannico che l’allora premier inglese Tony Blair dovette sudare sette camice per convincere l’allora presidente statunitense Bush junior ad andare in Afghanistan invece che in Iraq, dove la Casa Bianca voleva andare subito a completare l’opera lasciata incompiuta da Bush senior e regolare una volta per tutte i conti con Saddam Hussein. Fu sempre questa ossessione a determinare poi il fiacco impegno americano nella gestione del dopoguerra in Afghanistan e di fatto a lasciare la porta aperta al ritorno delle fazioni islamiste che raduniamo sotto l’etichetta di talebani.

Bush voleva andare in Iraq e lo fece, due anni dopo, ma a caro prezzo. La grande coalizione si sfaldò e i motivi addotti per la guerra (le famose armi di distruzione di massa, i legami con al Qaeda, la natura tirannica del regime di Baghdad) si rivelarono, a parte l’ultima, delle clamorose bugie. La Russia, allora debole, di Eltsin si ritirò dalla cooperazione internazionale e così fece anche la Cina: fino ad oggi non hanno mostrato di voler cambiare direzione e anzi manifestano in più occasioni – la prima in Ucraina (ma anche nel Baltico) e la seconda nel sudest del Pacifico – atteggiamenti aggressivi.
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Oggi gli alleati di Obama contro l’Isis sono cambiati. Russia e Cina stanno a guardare ma senza alcuna simpatia per i tagliagole del deserto: hanno entrambe (la prima in misura assai maggiore della seconda) minoranze interne e stati vicini a religione musulmana che finora (finora) sono rimaste silenziose senza mostrare segni di contagio. Chi è cambiato, e molto, è l’Iran. Quello che Bush chiamava «stato canaglia» è diventato dopo le ultime elezioni un partner cooperativo e negoziante non solo nella gestione della propria tecnologia nucleare ma anche nella crisi siriana e contro l’esercito islamista che marcia in Mesopotamia. Se si seguisse la pista delle armi e dei soldi che vanno all’Isis, probabilmente scopriremmo stati islamici a confessione sunnita – Arabia saudita, emirati del Golfo Persico – impauriti sia dalle primavere arabe del 2011 che finora (finora) sono riusciti ad evitare, sia dalla possibilità di un asse tra Baghdad (dove governano gli sciti) e Teheran, capace di alterare radicalmente gli equilibri di tutto il Medio Oriente.

Qui sta la vera e profonda differenza tra oggi e l’undici settembre di tredici anni fa. Allora bin Laden fece appello alla «umma», la parola che in arabo indica la comunità dei credenti (senza distinzioni tra sciti e sunniti), per risolvere tre problemi: la fine del califfato (cioè quello che in Occidente chiamiamo Impero Ottomano e che è stata l’ultima istituzione politica unitaria del mondo mediorientale di lingua araba e religione musulmana), la questione palestinese, la questione saudita (cioè il controllo territoriale dei luoghi santi di Mecca e Medina da parte di uno stato filoccidentale e filostatunitense come appunto l’Arabia saudita). Quella unità religiosa islamista e antioccidentale non si è poi realizzata. Anzi la spinta dell’undici settembre ha, col tempo, accelerato la crisi dei regimi arabi laici e nazionalisti (più o meno militari): da Mubarak a Gheddafi, allo stesso Assad. Proprio l’Iraq è diventato il luogo (anziché della democrazia ingenuamente e incautamente sognata da Bush) del conflitto più aspro tra sciti e sunniti.

Invece di combattere l’Occidente, l’Islam si divide e si combatte al proprio interno. Oggi il nome arabo di quello che noi chiamiamo Isis è Dawla al Islamya al Asham. Al Asham è il vecchio nome di Damasco come porta dell’Oriente, dal suo ruolo storico di crocevia dell’antica via della seta e delle carovane che tornavano dalle terre dell’Asia. Ma ciò che è interessante è la prima parola. Dawla è il termine arabo che indica lo stato: qualcosa che nel Corano non c’è e che è molto diverso dalla umma perché è un prodotto storico di imitazione dell’Occidente e delle sue istituzioni. Se fosse ancora vivo, bin Laden si guarderebbe bene dall’usarlo. A noi sembra una minuzia. Ma in realtà racchiude un significato politico decisivo.

Scopo dell’Isis è instaurare uno stato (dawla appunto) in una regione precisa e farne il santuario di tutti i sunniti che non si sentono protetti (quindi con frontiere ben difese contro gli sciti). Tagliano la gola agli ostaggi non per fare la guerra agli Stati Uniti, come sognava bin Laden, ma per dissuadere Obama dal bombardare le loro truppe sul terreno di battaglia che loro si sono scelti. Non esiste più nessuna umma e i combattenti dell’Isis sono i primi a sapere che i loro diretti avversari sono i loro confinanti: curdi, sciti iraniani e iraqeni, siriani ancora leali al governo di Assad. Ecco i nuovi strani alleati di Obama.

Contrariamente a quanto pensano diversi opinionisti occidentali (molto digiuni di culture extraeuropee) non è rimettendoci l’elmo del crociato che si combattono le guerre di oggi. Questo almeno dall’undici settembre in poi dovremmo averlo compreso. È molto più difficile e complicato capire chi possono essere i nostri alleati nel mondo islamico: ma è ciò che dobbiamo fare. Usare la storica sconfitta di bin Laden (il non essere riuscito a costruire una nuova unità del mondo arabo e anzi l’aver precipitato le sue divisioni interne) per volgerla a nostro vantaggio, appoggiando le forze più cooperanti e pacifiche che nel mondo arabo esistono.