Lo Stato islamico un anno fa li aveva massacrati e aveva rapito le donne per farne schiave. Ora, con l’aiuto dei peshmerga curdi, si sono ripresi un pezzo di terra e hanno formato un esercito. Ecco come organizzano la loro difesa

yazidi
Era un ricco villaggio yazida, piazzato in una distesa di grano e pascoli. Lo Stato Islamico l’ha attaccato alle 10 del 3 agosto 2014, stringendolo da Rabia e da Mosul. Ora a Gohbal giovani e padri di famiglia sono soldati che ispezionano dai pick up le strade trafficate solo dai cani randagi. E le stanze sventrate abbandonate in fretta, i tetti bruciati e le porte sprangate perché oltre c’è un ordigno. «Io abitavo qui. Sul tetto mesi fa c’era la postazione per sparare a Daesh (Stato Islamico), adesso ci dormiamo, è la casa più alta», spiega Hamal, mentre maneggia un AK47 col calcio di legno scheggiato.

Qui fa base una delle più grandi bande di combattenti yazidi: una vecchia sala per le feste come caserma, 200 soldati “regolari”, un migliaio di persone al servizio della famiglia del capo tribù, guida e finanziatrice del gruppo, 200 peshmerga curdi che coordinano le operazioni, come avviene in tutta l’area, arrivati con un’indispensabile dote di armi. Ogni “sceicco” una banda. Qui regna la famiglia dei Morad Barakat. Il nonno comprò con l’oro queste terre da re Faysal II, e suo figlio divenne un famoso generale, morto nella guerra di Saddam contro l’Iran.

Oggi i loro eredi hanno perso tutto e sparano all’Is da due postazioni sulle colline sopra Sinjar, con 50 uomini di ogni età operativi a turni di 10 giorni. Regolari vuol dire essere registrati, ricevere da 200 a 500 dollari al mese (800-1.000 per i soldati peshmerga) e fare la “scuola di guerra”. Ci sono anche figli, nipoti e amici: è la risposta alla rassegnazione dei campi profughi di Sharya, Khanke e Duhok, alla mancanza di lavoro e al tedio. Ma soprattutto è il dovere verso il proprio popolo, perché quasi tutti non hanno più notizia di qualcuno della propria famiglia. È riprendere Sinjar ancora occupata.

Storie
"Noi, donne yazide, così resistiamo all'Is"
21/9/2015
La capitale yazida, nel Kurdistan del nord, porta lo stesso nome della regione e della montagna sacra, Shingal in curdo, un colosso alto 1.000 metri e lungo 25 chilometri che veleggia tra Iraq e Siria. Un colpo d’occhio formidabile sull’autostrada di al-Ayyadiya, i pozzi di petrolio, la piana di Ninive e la Siria. Ingolosiva il sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi, che l’ha circondata e isolata. In più era una “riserva” di donne, peraltro “pagane”, la migliore esca per reclutare jihadisti.

Duecentotrentamila le persone messe in fuga, di cui 50 mila salite sulle alture (ce ne sono ancora 2.300), migliaia di uomini e bambini torturati e uccisi, 5.000 donne rapite per diventare schiave sessuali. Un anno dopo Shingal-Sinjar è l’area morta dei 50 gradi spazzati dal vento. Se in città resistono le bandiere nere del califfo, attorno è il regno dell’intelligence curda, dei soldati di Massoud Barzani. E della resistenza degli yazidi popolo che conta 74 genocidi nella storia, e una popolazione ridotta da 80 a un milione nel mondo.

I simpatizzanti del califfato sono fuggiti in Siria o a Mosul, il restante non è più gradito, e tra smentite e reticenze, cacciati i terroristi, qualche banda ha tentato la pulizia etnica nei villaggi ora sotto controllo curdo: spari e saccheggi, un migliaio di persone costrette a lasciare le case. «Al Maliki e gli americani ci hanno stretto in un affare più grande di noi, che non ci riguardava. Solo il Papa ha sofferto per noi. Ora ci siamo svegliati», si giustifica qualcuno.

Un esercito gli yazidi non l’hanno mai avuto. Ora almeno 2.000 uomini (ma dicono di essere 5.000), subito dopo aver messo in salvo le famiglie, sono tornati sulle alture arrivando anche dalle comunità in Germania e nei Paesi scandinavi, si sono armati al mercato nero e hanno inaugurato una guerriglia tenace e disperata, con l’obiettivo di fermare l’avanzata dei terroristi e proteggere gli sfollati sulla montagna. Lungo le strade ci sono i fiori di plastica, gli striscioni e le foto ingrandite di chi è rimasto ucciso. «Gli americani ci dicevano di chiamare al bisogno. Telefonavamo, arrivava un elicottero, ci sorvolava per un po’ e ripartiva. Molto l’abbiamo fatto prima da soli e poi insieme ai peshmerga. Ma Daesh ha le armi forti rubate ai soldati di Saddam. Avevano anche le macchine, le nostre le hanno bruciate e ci spostavamo a piedi», spiegano.

La guida suprema della Resistenza è un generale e custode del tempio di Sharaffaddin, Qasim Shesho, un ex combattente avversario del partito Ba’ath e dall’89 cittadino tedesco. «Sono nato qui. Quando sono tornato, lasciando la famiglia, ho visto cose inaudite. All’inizio sono rimasto un mese. Poi sono rientrato a casa per dieci giorni e adesso sono qui da quasi un anno. Non lascio finché ci sono loro. Devo difendere il tempio, un santuario che risale al 1274. L’hanno assaltato 16 volte, ma li abbiamo sempre respinti». Anche i curdi siriani dell’YPG e quelli del PKK affiancano le operazioni dei peshmerga e hanno fatto la loro parte, aprendo il primo varco di fuga ad agosto verso la Siria, sostenendo e addestrando gli yazidi del YBS, le “Unità di Resistenza di Shingal”. Ma nelle città sotto il tempio, Gohbal, Snuny, Hatin e Kurdava, versante iracheno, non si parla volentieri di loro: «Fuori chi fa politica», dicono.

Dopo la fine dell’assedio, il 16 dicembre, tutti convergono sul fronte della capitale Sinjar e sulle colline sopra l’autostrada che da Mosul porta in Siria. Ottobre è stato il mese più duro: la coalizione si concentrava su Kobane, i miliziani avevano di nuovo isolato il monte, gli aiuti lanciati dal cielo per le diecimila persone ancora sulle alture cadevano sul fronte siriano o finivano nelle mani sbagliate. Decine di bambini senza scarpe e vestiti cominciavano a morire di stenti. I combattenti facevano cinque ore a piedi per salire a vedere.

«Io sono tra quelli che non se ne sono mai andati. Sono il capo della polizia di Shingal, sono salito lassù guidando le famiglie da salvare. Più scappavamo, più ci inseguivano”, dice commosso Qasim Summo, dietro una scrivania nella caserma di Snuny, ancora senza ospedale, acqua e corrente elettrica, come tutta l’area. «Noi uomini combattevamo. Digiunavamo per far mangiare i bambini. Dall’8 agosto abbiamo visto i primi voli iracheni. Poi è andata meglio e sono arrivati più aiuti, ma non bastavano. Ci hanno lasciato soli». Fuori distese bruciate dal colpo di qualche RPG, decine di check-point con le bandiere del Kurdistan.

Al presidio peshmerga sul confine siriano, trenta chilometri ad ovest di Snuny, la bandiera l’hanno dipinta sul muro esterno dell’ufficio del generale dell’“Area Forza 2 Shingal”, Xaz Afickrum. L’Is luccica a meno di un chilometro oltre i sacchi. Tra le brande e le coperte sotto il sole c’è un mortaio. «Avanzano tagliando le strade. Noi ne costruiamo di nuove, abbiamo decine di escavatori con cui alziamo trincee e apriamo vie sui campi», spiega. «I militari italiani che a Erbil ci addestrano volevano venire qui. Ma poi hanno detto di no». Sul fronte opposto di Sinjar, l’Is ha il volto di ventenni ceceni, albanesi, siriani, tunisini che sparano colpi codardi dalle case, bruciano per rappresaglia e si ritirano dal quartiere o dal villaggio, se non hanno subito la meglio. Con i russi in Siria invece le cose sono cambiate, sono diventati più tenaci, attaccano di più: cercano di riconquistare terreno sulle colline.

Scrivono con lo spray il nome del califfo e distruggono subito i negozi di liquori. Ma quando vengono catturati o i loro cadaveri vengono ispezionati, hanno addosso droghe e alcool. Gli yazidi ne fotografano i corpi bruciati, fanno video mentre ne calpestano le spoglie prima che la polizia in borghese li porti via, prigionieri o cadaveri.

Di notte a piccoli gruppi gli yazidi escono dalle postazioni tra le rocce ed entrano nei quartieri liberati o in quelli meno controllati per rubare un mezzo, un’arma, a volte anche cibo. Si spara verso le tre di mattina e l’attacco prosegue fino all’alba. L’importante è mostrare che la montagna è sempre presidiata. «Potremmo prendere la città in poche ore, ma gli americani non vogliono che attacchiamo o uccidiamo. Quello della preghiera sarebbe il momento migliore, non hanno armi, non si muovono».

Intanto sulla piana liberata è rinata una piccola economia: qualche market vende ai soldati snack, ghiaccio, verdure e pane, più buono di quello che si preparavano da soli sulle alture. E rifornisce 300 famiglie, che non hanno mai lasciato le case più in alto, per aiutare i combattenti. Molti yazidi hanno deciso di entrare nell’esercito e prendere le “stellette”: si addestrano, restando per due mesi di fila nei presidi che costellano la piana. Ora si attende la grande offensiva su Mosul, l’ordine di Barzani di attaccare dal Kurdistan. «È stato un anno difficile, ma con tante vittorie importanti», dice il generale Guhdar A. Juqy del Ministero dei Peshmerga. «Abbiamo perso 1.500 soldati ma ripreso l’80 per cento della terra. Quando abbiamo avuto i mezzi adatti, abbiamo attaccato anche noi. Ci siamo difesi. L’Europa ci aiuti ancora, ci aiuti di più».

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