
Invece è la realtà documentata dai primi mesi di indagini sullo spaventoso attacco terroristico del 18 marzo 2015 al Museo del Bardo di Tunisi. Ventiquattro morti, tra cui quattro turisti italiani e altri undici nostri connazionali rimasti feriti dalle raffiche di mitra.
Per quella strage le autorità tunisine avevano chiesto l’arresto di un immigrato marocchino di 22 anni, Abdelmajid Touil, arrivato in Sicilia a metà febbraio su un barcone partito dalla Libia. Le indagini italiane però dimostrano che è assolutamente innocente: non è mai stato un terrorista e non c’entra niente con l’attentato. Ma c’è molto di più. La stessa inchiesta, nella parte finora inedita che qui “l’Espresso” rivela, svela come e da chi sono stati fabbricati gli elementi di prova che hanno provocato il suo arresto.
Touil è rimasto vittima, infatti, di una manovra congegnata da menti raffinate, che ha avuto l’effetto di depistare le indagini straniere e nascondere l’effettivo complice dei terroristi: un «trafficante di uomini e armi», come lo definiscono oggi gli inquirenti italiani, che ha la sua base criminale in Libia. Uno scafista arricchito dai soldi estorti a tanti disperati che, come il povero Touil, sono partiti dalla spiaggia di Zuwara, vicino al confine con la Tunisia, con il sogno di vivere in Europa. Ora non è più quel marocchino senza permesso, ma il suo schiavista a essere ricercato per la strage al museo di Tunisi. In un nuovo quadro investigativo che collega l’intero commando di terroristi con un’organizzazione jihadista che ha molti pericolosi legami con l’Italia.
Questa svolta nelle indagini internazionali è la diretta conseguenza della scoperta italiana di quell’errore (o meglio: sostituzione) di persona. Il 20 maggio, quando viene arrestato vicino a Milano su richiesta delle autorità tunisine che lo accusano di strage, Touil sembra non avere scampo. Gli inquirenti di Tunisi, aiutati da uno squadrone anti-terrorismo della polizia inglese, hanno accertato che è stato quel ragazzo marocchino a comprare, il 3 febbraio 2015, una scheda telefonica che scotta.
È un numero di cellulare che ha avuto contatti diretti con il commando terroristico il 16, 17 e 18 marzo, cioè poco prima, durante e subito dopo la strage. Touil ha acquistato quella scheda all’aeroporto di Tunisi mostrando il suo passaporto, fotocopiato dal negoziante. Con quel numero ha chiamato il padre e la sorella, che vivono in Marocco: dunque era proprio lui a usarlo. Tre giorni dopo l’eccidio, uno dei primi arrestati lo riconosce addirittura in fotografia. Per l’esattezza, dice di aver accompagnato sul luogo della strage, «con un’auto nera» procurata dall’organizzazione, «quattro uomini armati»: i due tunisini poi uccisi dalle forze di sicurezza e altri due misteriosi terroristi marocchini, tra cui identifica Touil.
Come riscontro, le autorità di Tunisi aggiungono che proprio il suo telefonino avrebbe contattato, oltre a uno dei presunti organizzatori della strage, anche un sicuro esecutore: Yassine Labidi, uno dei due tunisini che morirono nell’assalto. Nel primo interrogatorio in Italia, lo stesso Touil complica la sua difesa raccontando una bugia: impaurito dall’accusa di strage, sostiene di non essere mai stato in Tunisia, mentre è provato che ci è arrivato con un volo a basso costo da Casablanca, il 3 febbraio, insieme a un altro giovane marocchino, che da allora è sparito.
Il ventenne sbarcato a Porto Empedocle si ritrova così etichettato da giornali e tv con il marchio di stragista, anche se a Milano i magistrati e le forze di polizia avvertono di essersi limitati ad eseguire un mandato di cattura tunisino. Il leader della Lega, Matteo Salvini, è il primo politico a tuonare contro «l’arresto di un terrorista a pochi chilometri dall’Expo», arrivando a chiedere le «dimissioni del ministro dell’Interno» e la «chiusura delle frontiere».
In procura i pm Maurizio Romanelli ed Enrico Pavone sono più riflessivi e decidono di approfondire: aprono un’indagine autonoma per terrorismo, per verificare se Touil possa avere qualche complice a casa nostra. Ed è proprio questa inchiesta dei carabinieri del Ros e dei poliziotti della Digos a provare l’innocenza dell’arrestato. E la scaltrezza dei terroristi nel precostituirsi un capro espiatorio.
La prima evidenza è che Touil, nel giorno della strage, era sicuramente a Milano. Lo prova il suo telefonino, con il nuovo numero da lui attivato nel centro profughi di Mineo. E lo confermano le sue presenze nella scuola in cui studiava l’italiano a Gaggiano, il paese dove già dal 19 febbraio aveva raggiunto la madre Fatima, che da anni lavora onestamente in Lombardia come badante. Escluso così che il ragazzo marocchino possa essere uno dei killer, carabinieri e polizia riesaminano tutti i dati dei telefonini attribuiti al commando terroristico. E scoprono che la scheda incriminata è rimasta collegata all’apparecchio di Touil solo per tre giorni, fino al 5 febbraio. Poi quel numero si spegne. Dopo un mese di silenzio, viene riacceso l’8 marzo 2015, ma su un cellulare diverso, che è attivo in Tunisia, nella zona di confine con la Libia. Touil però è certamente in Italia già da un mese. Dunque non poteva essere lui a riattivare quel numero tunisino. Ma allora chi ha usato la sua scheda? La risposta fornita dalle indagini sui telefonini è inquietante: tutti gli indizi portano a uno scafista tunisino, ormai inserito nella lista dei ricercati per la strage del Bardo. Già segnalato come «trafficante di uomini e armi», è originario della provincia di Medenina, a trenta chilometri dal confine con la Libia, ed è diventato ricco sfruttando i disperati che partono sui barconi dalla costa di Zuwara. La stessa spiaggia libica da cui è salpato Touil.
L’inchiesta di carabinieri e polizia conferma totalmente le nuove dichiarazioni che nel frattempo Touil, difeso dall’avvocata Silvia Fiorentino, si è finalmente deciso ad affidare ai nostri magistrati: «Sono arrivato a Tunisi in aereo con un altro marocchino, Salah, di cui non ho più notizie, però siamo stati fotosegnalati insieme in Sicilia. Era lui ad avere i contatti con lo scafista. Abbiamo dormito due notti a Djerba, poi è arrivato quello scafista, probabilmente tunisino, con i capelli neri, circa 25 anni, che si è fatto consegnare le nostre schede telefoniche e ci ha portato via in macchina, caricando altri sei come noi. Siamo rimasti in Libia altri 7-8 giorni, in una casa con molte altre persone. Poi sempre lo stesso scafista ha tolto a me e a tutti i marocchini anche il passaporto e il portafoglio, oltre ai 500 euro dovuti per il viaggio, e ci ha accompagnato alla barca con cui siamo partiti. Quindi ho usato quel numero telefonico solo per tre giorni. Sono sicuro che la mia scheda e il mio cellulare sono stati ritirati proprio da quello scafista: potrei riconoscerlo in fotografia».
Con la scheda rubata a Touil, lo scafista ha chiamato più volte, dal 16 al 18 marzo, almeno due presunti terroristi, entrambi tunisini. Il primo ha 30 anni ed è ricercato come organizzatore della strage nel museo: è accusato di aver partecipato anche alla riunione finale dell’intero commando omicida, il 17 marzo. Lo scafista e il presunto regista della strage si sono sentiti, sempre con la scheda sottratta a Touil, anche il 18 marzo, alle 15.15, poco dopo l’eccidio dei turisti. Nelle stesse ore, la scheda di cui si era impossessato lo scafista ha contattato anche un altro jihadista tunisino, che ha 35 anni ed è già in carcere come presunto complice dei terroristi.
A questo punto le indagini internazionali stanno confermando la chiara matrice jihadista della strage. E gli strettissimi legami tra quei terroristi, che vogliono minare la fragile democrazia tunisina, e le milizie sanguinarie che combattono in Libia sotto la bandiera nera del Califfato. Uno degli arrestati per l’attacco al museo di Tunisi è un jihadista straniero: un 19enne nato in Arabia Saudita. È lui che ha confessato, tra l’altro, di aver fatto da autista a Yassine Labidi e Jaber Khachnaoui, i due attentatori tunisini uccisi dai soldati. Con loro, su una Symbol nera parcheggiata in piazza Pasteur a Tunisi, il 18 marzo sono saliti anche «due marocchini con una bomba e cinture esplosive», uno dei quali aveva una certa somiglianza con Touil, che spiega l’errore nel riconoscimento fotografico. Al vertice finale, il giorno prima della strage, avrebbero partecipato almeno otto terroristi, tra cui i due tunisini immolatisi nell’agguato e il presunto organizzatore, lo stesso che era in contatto con lo scafista.
Il ruolo di questo «trafficante di uomini e armi» viene specificato dalle prime confessioni di un altro arrestato: un combattente tunisino che ha ammesso di essersi addestrato in Libia fino al gennaio 2015, in un campo militare controllato dai jihadisti di Ansar Al Sharia. Dopo l’arresto, il guerrigliero ha rivelato di aver ricevuto seimila dinari tunisini dal capo di quella milizia islamista, che ha giurato obbedienza al cosiddetto Stato islamico. Per ordine del suo emiro, chiamato Abu Abdallah El-Libi, il tunisino dice di aver consegnato metà di quella somma proprio allo scafista del barcone di Touil: il compenso per «trasportare in modo nascosto dalla Libia alla Tunisia» i due terroristi rimasti uccisi nella strage. L’ex combattente in Libia ha poi versato duemila dinari a un basista, alla stazione di Monastir, e i restanti mille a uno degli esecutori, Jaber Khachnaoui, che li ha intascati a Tunisi il 17 marzo, il giorno prima di trucidare i pacifici turisti. A conti fatti, la strage è costata meno di tremila euro.
Ansar Al Sharia è una fazione jihadista creata in Tunisia dal predicatore ultra-integralista Seifallah Ben Hassine, detto Abu Iyad, ucciso il 14 giugno da un drone americano che mirava a colpire un suo collega, considerato il capo dei terroristi algerini, che sarebbe rimasto ferito. L’organizzazione fondata da Abu Iyad, come aveva documentato già l’anno scorso un’inchiesta de “l’Espresso”, ha legami radicati con l’Italia. Tra i suoi dirigenti, al fianco dell’emiro, sono infatti ricomparsi due jihadisti tunisini che erano stati arrestati e condannati a Milano: Sami Essid Ben Khemais, che viveva a Gallarate, e il suo braccio destro Mehdi Kammoun. Entrambi sono tornati in carcere in Tunisia l’estate scorsa.
Mentre Ansar Al Sharia è finita al centro delle indagini sul reclutamento di jihadisti per la guerra in Siria e Iraq, sull’attacco terroristico contro il consolato americano di Bengasi e sugli omicidi di politici tunisini di sinistra, assassinati con tecniche da strategia della tensione. Un’ala militare del gruppo tunisino, di cui fa parte un ex prigioniero di Guantanamo che viveva in Italia (dove è stato assolto in appello), ora combatte in Libia per il Califfato. Le autorità tunisine e la polizia inglese sono concordi nell’accusare proprio questa milizia jihadista di aver addestrato, nel campo di Sabratha in Libia, sia il killer dei turisti sulla spiaggia di Soussa (39 morti) sia i due esecutori della strage al museo di Tunisi. E ora l’indagine che ha scagionato il clandestino Touil rivela una nuova minaccia: lo scafista del terrore.