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Oggi le “exhibiciones de riqueza personal” a Cuba non sono più un peccato sociale e l’ostentazione è di moda tra i ricchi. In un paese dove lo stipendio mensile di un insegnante non supera i venti dollari, si esibisce di tutto: Rolex, Audi A8, iPhone 6, borse Hermès, collegi privati per i figli a diecimila dollari l’anno. Le mamme passano a prenderli all’ora di pranzo, con le loro auto di lusso, fin davanti al portone di scuola.
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Ma chi sono, questi ricchi cubani? Membri della nomenclatura castrista, militari di alto grado, lavoratori di ambasciate e una ristretta élite di privilegiati, soprattutto sportivi e musicisti. Ma negli ultimi anni il campo si è allargato, assorbendo coloro che hanno a che fare con gli stranieri (e la loro valuta): ristoratori, imprenditori turistici, artisti ben quotati (come René Francisco o Alexis Machado detto “Kcho”) e cubani-statunitensi che qui investono i loro soldi.
«Ogni anno portiamo a Cuba quattro miliardi di dollari», dice ad esempio l’imprenditore Hugo Cancio. «Un tempo ci chiamavano la “mafia di Miami”. Oggi l’atteggiamento è cambiato: hanno capito che molti dei nuovi business a L’Avana li abbiamo aperti noi, e ora ci accolgono senza problemi».
Lo Stretto della Florida, per mezzo secolo una sorta di Muro di Berlino ai Tropici, tornerà a essere luogo di scambi. Riprenderanno i voli diretti da New York, i traghetti Miami-L’Avana, le navi da crociera Usa nella baia della capitale (i lavori per accoglierle sono già iniziati). Qualcuno prevede che L’Avana sarà di nuovo una Montecarlo caraibica.
A Cuba negli anni Novanta circolava una barzelletta. «Cosa vuoi fare da grande?» domanda il papà, e il figlio risponde secco: «il turista!”. Nel 1975 gli statunitensi che visitavano l’isola erano tremila, quarant’anni dopo sfiorano il milione ma il Fondo monetario internazionale stima che possano salire fino a dieci milioni all’anno.
«Dicono che Cuba si stia aprendo? Ma noi siamo sempre stati aperti», dice il musicista Manolito Simonet, re incontrastato della timba. Manolito ha 54 anni e siede nel salotto di casa, una villetta di tre piani con studio di registrazione e ristorante. «Con l’embargo, gli Stati Uniti multavano i musicisti che venivano a suonare con noi. È successo anche al mio amico Dominic Miller, chitarrista argentino. Ora vediamo che succede: loro hanno bisogno della nostra musica e noi del loro enorme mercato».
Nei quartieri eleganti di L’Avana - Miramar, Playa e Vedado - bar e club privati stanno nascendo come funghi: è qui che si ritrovano “i ricos” della città: una birra costa come a Manhattan. C’è l’Espacio, base dei giovani hipster in una villa con terrazza e giardino. C’è il Sarao’s, luci rosa stravaganti, buttafuori in camicia nera e fila all’ingresso in stile Miami. C’è l’enorme F.A.C. (Fábrica de Arte Cubano), ritrovo di artisti e intellettuali in una ex fabbrica di olio. E c’è il nuovissimo Valdés Jazz, dove la sera dell’inaugurazione si danno appuntamento i musicisti della capitale.
«Certo, rispetto a un decennio fa Cuba è un altro mondo», dice Lazarito Valdés mentre da buon padrone di casa si fa fotografare con gli amici. «Non ci si vergogna più del successo. L’embargo ci ha strangolati, abbiamo un disperato bisogno di vivere il presente. Ci vorranno quattro o cinque anni per vedere cambiamenti reali ma per la prima volta stanno nascendo piccole imprese private».
La blogger Miriam Celaya li chiama proto-imprenditori. Altri semplicemente “cuentapropistas”, lavoratori autonomi. I fratelli Damian e Dorian Carbane al 1616 di Calle 25, nel Vedado, hanno aperto il salone di parrucchieri più in voga dell’isola: «Non tagliamo solo i capelli», spiega uno dei titolari, «ma curiamo l’estetica dei nostri clienti, spesso attori e cantanti famosi». Un altro imprenditore, Leo Canosa, nella sua abitazione al centro della città vecchia ha inaugurato La Marca, primo negozio di tatuaggi della capitale. L’ingegnere del suono Carlos De La Vega, dopo avere lavorato otto anni in uno dei migliori studi di registrazione dell’America Latina, oggi guida il suo studio al primo piano di una villetta con giardino: «Garantisco prezzi inferiori e molti musicisti vengono a produrre qui i loro dischi. Il mio sogno? Ingrandirmi ancora di più. Mi basterebbero trentamila dollari ma la banca mi ha fatto un mutuo solo per riparare casa. Prestare denaro per fare impresa è ancora tabù».
Intanto Carlos si fa promozione da solo acquistando spazi pubblicitari su “Vistar,” un magazine indipendente cubano cartaceo e on line. Il fotografo Luis Mario Gell è uno dei fondatori della rivista e, seduto nel suo studio al Vedado, spiega che «per ora abbiamo tenuto la sede ufficiale a Santo Domingo, la legislazione qui è ancora troppo restrittiva». Luis ha 37 anni, ne ha vissuti otto in Italia lavorando in pubblicità ed è tornato a Cuba nel 2012. Ma in un paese dove le uniche scritte sui muri inneggiano alla “revolución” c’è spazio per pubblicità? «Tre anni fa ti avrei risposto di no, ma ora sta cambiando tutto. Noi ci puntiamo», risponde.
Intanto sull’isola è sbarcato anche Airbnb: chiunque può diventare microimprenditore turistico, affittando ai turisti stanze del proprio appartamento. E anche la compravendita di case passa dal Web (su siti come Porlalivre.com o Cubisima.com). Anche se Internet arriva al 5 per cento della popolazione e un’ora di navigazione costa 4,5 euro.
Più in generale, la doppia moneta alimenta due economie agli antipodi. Quella misera di chi va avanti a fagioli neri e riso in bianco; e quella che cena all’esclusivo ristorante El Cocinero, finendo poi la serata a bere daiquiri al Flauto Magico, attico con piscina affacciato sul Malecón. «La nostra clientela è la classe medio-alta», spiega Richard Egüero, il proprietario: «Per l’ottanta per cento cubani che non hanno paura di mostrare i loro soldi. Questa è un’isola dove manca tutto ma se hai il denaro trovi sempre quello che vuoi».
Già: e per favorire i business in arrivo dalla Florida è nata una nuova figura professionale, quella dell’intermediario in grado di aprire le porte giuste, di allacciare rapporti con il governo e all’occorrenza di fare da prestanome. Sorride amaro il flautista José Luis Cortés: «Stanno tutti aspettando che muoia Fidel, affacciati alla ringhiera, con l’acquolina in bocca».