Domenica il Paese va alle prime elezioni libere con l’accordo tra i generali e l’ex oppositrice Aung San Suu Kyi. Che potrebbe diventare vicepresidente
La prima cosa da fare quando si arriva in Birmania - o Myanmar come ora si chiama - è quella di spostare le lancette dell’orologio. Di mezz’ora. Perché la Birmania, così come ce l’hanno raccontata scrittori come Kipling e Somerset Maugham, ma soprattutto, in uno dei suoi più belli e sconosciuti romanzi (“Burmese Days”, Diario Birmano) George Orwell, è un Paese che ama sottolineare la sua diversità. E lo ha fatto sempre con grande dignità, senza minacciare nessuno fuori dai suoi peraltro molto indefiniti confini, ma finendo per far pagare prezzi altissimi ai suoi cittadini orgogliosi, educati e tuttavia capaci di mostruose violenze.
Basti pensare a quando, dopo essere riusciti a strappare l’indipendenza dagli inglesi nel 1947, i birmani videro prima saltare in aria mezzo governo provvisorio (alla guida del quale c’era Aung San, padre dell’attuale leader dell’opposizione e premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi). Poi subire, dagli anni ’60 in poi, una serie di colpi di Stato sanguinosi da parte dei militari appoggiati dalla potente sangha buddhista (una sorta di “sinodo”, tutt’ora coinvolto nella “Ma Ba Tha”, sorta di guerra santa molto poco buddhista che impone ai propri fedeli di non intrattenere relazioni, né umane né commerciali, con le minoranze islamiche e hindu.
E infine vedersi cancellare nel 1990 i risultati delle prime elezioni politiche democratiche dopo 30 anni di dittatura del Tatmataw, il potente esercito fondato proprio dai nazionalisti di Aung San, durante la resistenza contro i giapponesi e gli inglesi e oggi rifornito da sofisticati armamenti cinesi e israeliani. I militari, che avevano fatto male i loro conti e avevano organizzato le elezioni pensando di vincerle, appena visti i risultati ci ripensarono: arrestarono la maggior parte dei leader dell’opposizione, compresa Aung San Suu Kyi, dichiararono la legge marziale e rimasero al potere. Restandoci fino al 2012, quando una ventina di generali, tra i quali l’attuale presidente Thein Sein, decisero di abbandonare la divisa e venire a patti con l’opposizione interna, la comunità internazionale e il buon senso.
Ora, alla vigilia delle nuove, storiche, elezioni politiche libere e democratiche (si vota l’8 novembre), sono in molti ad agitare il fantasma di questo lontano, ma vicinissimo, passato. Soprattutto tra commentatori, media stranieri ed esperti non si esclude che i militari, dopo essersi tolti la divisa e deciso di gestire il Paese in abiti civili abbiano un piano B. Un piano che preveda ancora una volta l’annullamento delle elezioni, nel caso di una vittoria troppo schiacciante dell’opposizione. Ma non succederà. E questo perché le cose, in Birmania, uno dei Paesi più poveri del pianeta nonostante le ricchezze naturali, strategicamente importante sia per gli Usa sia per la Cina, sono davvero cambiate.
L’economia negli ultimi due anni è cresciuta attorno al 10 per cento e dovrebbe continuare a questo ritmo per i prossimi anni, se il nuovo Parlamento riuscirà a riformare le obsolete leggi bancarie e commerciali, alcune delle quali risalgono addirittura all’epoca coloniale, che bloccano investimenti e transazioni commerciali. Sinora il Parlamento ha trovato solo il tempo di approvare, sull’onda di un crescente integralismo buddhista guidato dal monaco razzista Ashin Wirathu (detto il “Bin Laden birmano”) una serie di assurde leggi liberticide e misogine (tipo il divieto di matrimoni interreligiosi e quello per le donne, ma non per gli uomini, di cambiare religione).
Una cosa sembra tuttavia certa. Al di là del risultato delle elezioni, lo scenario politico dei prossimi anni sembra essere già scritto e – si sa ma non si deve dire - minuziosamente concordato tra Aung San Suu Kyi (la cui immagine si è un po’ appannata per via del suo mancato sostegno nei confronti dei Rohingya, minoranza etnica di religione musulmana pesantemente discriminata) e gli ex generali.
Con l’attuale presidente Thein Sein, innanzitutto, con il quale si è fatta spesso vedere assieme apprezzandone pubblicamente gli sforzi per portare fuori dall’isolamento internazionale il Paese e riavviare il processo di democratizzazione. E, soprattutto, con Shwe Mann, speaker della Camera e, fino a due mesi fa quando è stato improvvisamente deposto, capo del partito di maggioranza, l’Usdp (Union Solidarity and Development Party), braccio “politico” dei militari, i quali si sono comunque riservati per legge il 25 per cento dei seggi. Nella Costituzione c’è anche l’articolo che impedisce a chi abbia un coniuge o dei figli di nazionalità straniera di diventare presidente. Una norma “ad personam” scritta per impedire ad Aung San Suu Kyi, che ha avuto dall’ormai scomparso marito inglese Michel Aris due figli con cittadinanza britannica, di accedere alla massima carica dello Stato.
Dopo aver cercato in ogni modo di tessere alleanze e cercare appoggio per modificare la Costituzione Aung San Suu Ky se ne è fatta una ragione ed è scesa a patti con gli ex militari, compresi quelli, come Shwe Mann, che avevano ordinato massacri e attentato alla sua vita. L’“inciucio” della Signora coi generali è stato criticato da alcuni esponenti del Ndl, il suo partito, che sono stati espulsi e non verranno candidati alle elezioni. Un malumore che si è esteso anche alla base e che ha portato il popolare leader della rivolta studentesca dell’88, Ko Ko Gyi, a dimettersi e candidarsi come indipendente.
In cambio della sua rinuncia a sfidare formalmente il nuovo regime, premere per la riforma costituzionale e insistere per diventare presidente, Aung San Suu Kyi avrebbe ottenuto dagli ex generali di concordare il nome del nuovo capo dello Stato, di essere nominata vicepresidente e di avere un ruolo molto attivo in politica estera, ruolo che di fatto si è già conquistato, negli ultimi mesi. Provocando qualche preoccupazione in Occidente. perché invece di rafforzare i rapporti con Stati Uniti, Europa e Giappone si è preoccupata di rassicurare Pechino, primo partner commerciale della Birmania.
Dopo la visita ufficiale compiuta lo scorso agosto, durante la quale è stata ricevuta dal presidente Xi Jinpin, la Signora si è recata almeno altre due volte in forma privata in Cina, guidando delegazioni di politici e imprenditori. Il segnale è chiaro: la Birmania non ha nessuna intenzione di ridurre la sua “dipendenza” economica (e militare, visto che Pechino fornisce armi per oltre due miliardi di dollari a Yangon) e in cambio dei nuovi investimenti cinesi aumenterà le già ingenti forniture di gas e petrolio.
Senza escludere la possibilità che venga resuscitato l’ambizioso progetto da 30 miliardi di dollari di una ferrovia da Kunming, capitale dello Yunan (Cina) allo stato martoriato del Rakhine, “patria”, si fa per dire visto che il governo ha tolto loro il diritto di cittadinanza rendendoli di fatto apolidi, di un milione di Rohingya, la minoranza islamica contro la quale si accaniscono i buddisti integralisti. E dove la stessa Aung San Suu Kyi si è recata, per la prima volta, negli ultimi giorni della campagna elettorale, ma solo nelle città “sicure” del sud, come Taungup, Thandwe e Gwa, senza mettere piede nell’inferno del nord, dove scontri etnici e religiosi sono all’ordine del giorno.
Ma è sull’enorme mercato delle pietre preziose che la “collaborazione” tra i due governi continuerà e si rafforzerà, con buona pace delle grandi società occidentali e sudafricane che da tempo cercano di assicurarsi una fetta del mercato più importante del mondo.
La nuova, “democratica” Birmania sarà certamente più libera e ricca, ma non necessariamente filo-occidentale, o filo Usa, per essere più precisi. I quali sembrano essere stati colti di sorpresa da questo inaspettato e progressivo inciucio istituzionale e mettono in guardia contro possibili brogli alle prossime elezioni. Il che è più che possibile, visto che le liste elettorali sembrano essere state manipolate e che milioni di cittadini appartenenti ad alcune minoranze non saranno in grado, per motivi di sicurezza, di votare.
È proprio dalle minoranze - ce ne sono ufficialmente 135, molte delle quali dispongono di eserciti che ingaggiano furibondi scontri con le odiatissime forze armate governative - che potrebbero nascere seri problemi per il nuovo governo centrale, chiunque sarà a guidarlo. Con il 40 per cento della popolazione (52 milioni) appartenenti a etnie diverse da quella dominante dei Bamar, promesse e accordi regolarmente disattesi il rischio di “balcanizzazione” della Birmania è molto forte.
Ed è un altro degli elementi – anche questo poco pubblicizzato ma ben radicato nell’aristocrazia politica del Paese – che favorisce la collaborazione, anziché lo scontro frontale, tra gli ex generali assassini e corrotti e Aung San Suu Kyi, sempre più scaltra, e pragmatica, attenta a non compiere anche minimi errori che potrebbero rivelarsi fatali. A 70 anni appena compiuti e splendidamente portati è anche comprensibile che la Signora non abbia alcuna voglia di tornare in prigione. O ancor peggio: finire come suo padre, rimasto vittima di un attentato appena assaporato il gusto della vittoria.