Ogni anno spariscono 12 milioni di ettari di foreste, il vero polmone del pianeta. Al forum sul clima di Parigi 17 stati hanno firmato una dichiarazione contro la deforestazione. E alcune grandi multinazionali promettono di dare una mano. Basterà a fermarla?
Per curare la febbre del mondo, sarebbe bene cominciare dai polmoni. Le foreste tropicali – dal Guatemala all’Indonesia, passando dall’Africa subsahariana – sono i polmoni del pianeta perché, attraverso la magìa della fotosintesi, si nutrono di anidride carbonica e, date le loro enormi dimensioni, gestiscono una parte rilevante del cosiddetto “ciclo del carbonio” planetario. Peccato che spariscano al ritmo di 12 milioni di ettari all’anno. Una deforestazione che produce l’11% delle emissioni globali di CO2: una volta abbattuti, gli alberi rispediscono nell’atmosfera l’anidride carbonica che avevano catturato in precedenza.
Alla conferenza climatica delle Nazioni Unite in corso a Parigi, si è levato un autentico coro di solenni dichiarazioni e di promesse pecuniarie al fine di salvarle. E quindi salvare il mondo. «Riconosciamo il ruolo che le foreste svolgono per la salute del nostro pianeta – recita una dichiarazione firmata ieri dai capi di Stato e primi ministri di 17 Paesi, dove l’Italia non c’è – e per il nostro obiettivo comune di evitare pericolosi cambiamenti climatici. Siamo pronti a intensificare gli sforzi per proteggerle, per riparare quelle danneggiate e promuovere uno sviluppo rurale a bassa intensità di carbonio».
A voler esser prosaici, è ancora una volta una questione di soldi. Le regole del gioco della diplomazia climatica prevedono che i paesi industrializzati, ovvero quelli che bruciano enormi quantità di combustibili fossili da un secolo e più, debbano accollarsi le maggiori responsabilità. Così, ieri la Norvegia ha rinnovato i suoi impegni con il Brasile (che possiede il polmone più importante del mondo, l’Amazzonia). Germania e Regno Unito hanno annunciato un’alleanza con la Colombia. E tutte e tre le nazioni europee hanno promesso un miliardo di dollari all’anno, da qui al 2020, per i Paesi che aderiscono ai programmi Redd+ delle Nazioni Unite (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation), ovvero un flusso finanziario per chi dimostra di aver protetto concretamente la propria quota di polmoni del mondo.
Secondo gli impegni multilaterali sin qui sottoscritti in ambito Onu, il mondo punta a dimezzare la deforestazione entro il 2020 e a cancellarla del tutto entro il 2030. «Ma se lo volessimo veramente – dice Marc Bolland, vicepresidente del Consumer Goods Forum – potremmo riuscire a debellare per sempre il problema, già nel 2020». Il fatto curioso è che Bolland, più che un ambientalista, è l’amministratore delegato di Marks & Spencer, il colosso inglese della grande distribuzione. Il Forum dei beni di consumo riunisce, dice lui stesso, imprese come «Nestlé e Unilever, Coca Cola e Pepsi, Tesco e Carrefour, che insieme generano 3mila miliardi di fatturato all’anno e che vogliono essere parte della soluzione». Ad esempio, comprando solo olio di palma certificato, stringendo accordi con i Paesi tropicali e «condividendo le nostre soluzioni con le piccole e medie imprese, in modo che possano applicarle anche loro».
«Questo è un nodo cruciale», dice a L’Espresso Marco Lambertini, l’italiano che dall’anno scorso è direttore generale del WWF International. «L’impegno delle grandi multinazionali nel cambiare lo stato delle cose è genuino: sarà per la pressione dei consumatori, per le regole del gioco che impongono i governi dei Paesi in via di sviluppo, fatto sta che sono seriamente attive e, grazie alle loro dimensioni, hanno la forza di imporre dei cambiamenti. La vera questione però, è come coinvolgere piccole e medie aziende, incluse quelle agricole, che a livello locale rappresentano comunque la maggior parte della produzione e dell’uso del suolo».
I successi raggiunti da Redd+, sono oggettivamente parziali. Sin qui sono stati promessi, per gli anni a venire, 9,8 miliardi di dollari, assai meno delle stime iniziali. Una coalizione di comunità indigene ha tenuto ieri una conferenza alla Cop21 di Parigi, per protestare contro l’approccio «colonialista» che finisce per interferire con le tradizioni e la vita nei villaggi. Il Brasile sostiene di aver ridotto la deforestazione del 70% negli ultimi dieci anni, ma recenti rilevazioni satellitari rivelano che la distruzione ha ripreso forza negli ultimi tempi. Infine, resta da vedere se l’accordo internazionale che potrebbe arrivare fra dieci giorni, alla fine del processo negoziale parigino, includerà o no il Redd+ nel testo finale. Visto il ruolo a dir poco vitale delle foreste, è probabile di sì.
C’è poco da fare: gli alberi servono al ciclo del carbonio, ma anche a quelli dell’ossigeno e dell’acqua. Quindi servono alla vita. Nel rivolgersi ai delegati di Parigi, il presidente cinese Xi Jinping ha ricordato che nei programmi di mitigazione climatica della Repubblica Popolare, c’è un aumento dello stock forestale di 4,5 miliardi di metri cubi, da qui al 2030.
Tuttavia, gli alberi sono fatalmente diventati anche merce di scambio, non soltanto per le nazioni tropicali dell’America Latina, dell’Africa centrale o dell’Indonesia (il Paese che, con incendi e deforestazione suscita le maggiori preoccupazioni). Durante il suo intervento, Vladimir Putin ha implicitamente ricordato che, se la Russia è uno dei primi produttori al mondo di petrolio e di gas, permette al mondo, con la sua immensa dotazione forestale, di respirare. Chiedete a qualsiasi medico. Con la salute dei polmoni, è bene non scherzare.