L'incontro Cop21, che riunisce i rappresentanti di oltre 150 Paesi, deve porre le basi per un accordo sulla riduzione delle emissioni da gas serra. E dopo anni di flop potrebbero esserci reali passi avanti. Ma non è detto saranno sufficienti
Ottantadue presidenti, sei vicepresidenti, quarantasette primi ministri, due cancellieri, cinque re, tre principi, un emiro e un segretario di Stato che parlano al microfono, uno dopo l’altro. I massimi rappresentanti di oltre 150 Paesi del mondo, da Barack Obama a Xi Jingpin, da Vladimir Putin a Recep Erdogan, da Matteo Renzi al cardinale Pietro Parolin, aprono oggi a Parigi la conferenza sul clima delle Nazioni Unite,
battezzata Cop21. Un fiume di parole che dovrebbe preludere all’accordo internazionale su una monumentale ricoversione energetica, necessaria a ridurre la collettiva dipendenza dai combustibili fossili che riscaldano l’atmosfera.
Ecco le trattative che vanno a cominciare, in cinque punti.
1. La posta in gioco. La scienza assicura che non bisogna permettere alla temperatura media terrestre di salire oltre i due gradi centigradi (è già cresciuta di un grado da metà Ottocento a oggi), pena drammatiche conseguenze climatiche: dal livello dei mari che sale inesorabilmente, agli oceani che si acidificano; dal Medioriente che diventa invivibile, al permafrost siberiano che si scioglie.
Sono almeno dieci anni che questo consesso cerca di raggiungere un accordo capace di superare il Protocollo di Kyoto, che aveva il difetto di coinvolgere solo i Paesi industrializzati (peraltro senza gli Stati Uniti, che non l’hanno mai ratificato). Finora però, a cominciare dal celebre flop del vertice di Copenhagen, nel 2009, la diplomazia climatica internazionale ha inanellato un fallimento dopo l’altro. Stavolta ci sono le premesse per un cambio di passo.
[[ge:rep-locali:espresso:285621686]]2. Ognuno per sé. Per cominciare, la vecchia idea di un impegno uguale per tutti, è stata abbandonata. Siamo entrati nell’era degli Indc (acronimo che sta per
Intended nationally determined contributions) dove ogni nazione è libera di stabilire i suoi obiettivi di tagli alle emissioni di gas-serra. La Cina ad esempio, promette di ridurre del 65 per cento l’intensità delle sue emissioni di anidride carbonica (ovvero a parità di Pil), entro il 2030. Gli Stati Uniti invece, puntano a un taglio
tout-court del 28 per cento entro il 2025. L’Europa, che è da sempre la prima della classe, ha già deliberato da anni – e per legge – un taglio del 20 per cento entro il ben più vicino 2020, con l’opzione di arrivare al 30 per cento se altri faranno altrettanto.
All’Unfccc, la convenzione delle Nazioni Unite che organizza questi negoziati, partecipano 194 Paesi del Mondo. Di questi, solo 181 hanno consegnato le loro lettere di impegno, talvolta piuttosto vaghe, come nel caso dell’Arabia Saudita che non è ovviamente troppo incline all’idea di veder scendere i consumi globali di petrolio, di gran lunga la sua prima risorsa economica. Tuttavia, siccome in questo ambito multilaterale si vota non a maggioranza, ma all’unanimità, questi obiettivi più flessibili, fissati a livello nazionale, paiono davvero propedeutici alla firma del trattato.
3. Guai a chiamarlo "trattato". Quella parola però, non va proprio pronunciata. Se, come sembra, si arriverà a un’intesa finale, verrà chiamata Accordo di Parigi o qualcosa del genere. Ma Trattato di Parigi proprio no: basterebbe quello a richiedere la ratifica del Congresso americano che, per via dell’intransigente posizione repubblicana, non passerebbe mai. Piaccia o no, un solo partito politico di una sola nazione, è in grado di compromettere l’intero, faticoso processo internazionale.
L’amministrazione Bush, notoriamente legata alle lobby petrolifere, lo aveva sempre ostacolato. L’amministrazione Obama, che descrive i cambiamenti climatici come un rischio di portata epocale per il mondo del futuro, è più che favorevole: ma a patto di non richiedere un’approvazione parlamentare, che sarebbe impossibile. Non a caso, due settimane fa il segretario di Stato John Kerry ha dichiarato che «l’accordo di Parigi non sarà legalmente vincolante». A caldo, l’Unione Europea ha risposto picche. Ma poi il ministro francese Laurent Fabius (che stamani sarà eletto presidente della Cop21) ha cambiato idea: «non si chiamerà trattato e non conterrà impegni vincolanti».
[[ge:rep-locali:espresso:285621687]]4. Venti favorevoli e contrari. In compenso, il momento è magico. Non soltanto c’è un democratico alla Casa Bianca. Il caso vuole che, in due Paesi industrializzati come il Canada e l’Australia, due primi ministri pro-ambiente abbiano appena preso il posto di due conservatori apertamente schierati contro i negoziati climatici.
Poi, tutt’altro che irrilevante, c’è il mondo delle imprese multinazionali. Le quali, oggi più che mai, non chiedono di inquinare impunemente, ma di conoscere le regole del gioco il prima possibile, in modo da poter investire di conseguenza, in un’ottica di lungo periodo. Nella maggior parte dei casi, si tratta di un impegno sincero: un po’ perché è quel che chiedono i consumatori, un po’ perché molte di loro hanno già visto che l’efficienza enegetica fa bene al mondo, ma anche al bilancio di fine esercizio.
Ma allora, chi è rimasto a remare contro? Beh, l’ambigua posizione dell’Arabia Saudita è ovviamente ricalcata da altri Paesi petroliferi, come il Venezuela. Ma le grandi corporation del petrolio, soprattutto quelle americane, sono forse le più irriducibili. Spicca il ruolo dei petrolieri Charles e David Koch che, secondo il Washington Post, alle ultime elezioni americane hanno coordinato una rete di fondi e associazioni conservatrici, contribuendo al Partito Repubblicano
con 407 milioni di dollari. Non è difficile capire perché i senatori di quello stesso partito sono così avversi alla questione climatica.
[[ge:rep-locali:espresso:285719323]]5. L’ultima spiaggia? Sono almeno quattro anni, che l’appuntamento di Parigi viene descritto come l’ultima ancora di salvezza. Le organizzazioni non governative, presenti in forze alla Cop21, ricordano che, facendo i calcoli sulla base degli impegni annunciati dai singoli Paesi, negli anni a venire la temperatura aumenterà comunque di 2,7 gradi centigradi, ovvero ben sopra la soglia del pericolo. Greenpeace, Wwf, Oxfam e gli altri, chiedono di non superare gli 1,5.
Tuttavia, come ha detto due giorni fa Cristiana Figueres, segretario dell’Unfccc, «l’importante è costruire una fiducia reciproca, applaudire ogni passo avanti e poi aggiungere un’altra pietra miliare». In altre parole, l’importante è cominciare.
A parte le poche teste coronate per diritto ereditario, i primi ministri e i capi di Stato che parlano oggi a Parigi, andranno e verranno nella parentesi di un mandato elettorale o due. Gli incerti destini della nostra comune atmosfera invece, hanno bisogno di cure e attenzioni molto, molto più lungimiranti.