
In questo colloquio con “l’Espresso” Kaplan analizza i problemi dell’amministrazione Obama non solo in Libia e guarda alla difficoltà di gestire le varie aree di crisi, a cominciare da quella in Ucraina, anche perché è al punto più basso il rapporto tra Stati Uniti e Russia. Ed ogni decisione all’interno delle Nazioni Unite ha bisogno che Washington e Mosca parlino una lingua comune.
Signor Kaplan, l’amministrazione del presidente Barack Obama è da molto tempo alle prese con una lunga serie di crisi: Iraq, Siria, Iran, Yemen, Afghanistan. Adesso ce ne sono altre due, Ucraina e Libia, che stanno destabilizzando il confine orientale dell’Europa e il Mediterraneo centrale. Che cosa dovrebbe fare Obama sulla questione libica visto il suo sostegno all’intervento della Nato per defenestrare Gheddafi?
«Non sono per nulla sicuro che a questo punto si possa fare qualcosa per rimettere in piedi la Libia come uno Stato con istituzioni che funzionano. Credo che vada oltre la capacità degli Stati Uniti impegnarsi in un’impresa del genere. Possiamo fare solo un’azione di contenimento dell’intera area radicale jihadista, comprese le formazioni che si richiamano allo Stato Islamico. Ma anche questa è un’impresa estremamente complicata».
Pensa che le Nazioni Unite e il Consiglio di sicurezza possano fare qualcosa, per esempio costruendo una forza nazionale di peace enforcing che costringa con la forza la diverse fazioni, tribù, organizzazioni jihadiste a disarmare?
«Non penso sia possibile perché bisogna avere la volontà di combattere per raggiungere l’obiettivo. Il contingente deve avere il monopolio dell’uso della forza in un determinato spazio geografico e deve essere il solo attore autorizzato all’uso della forza. All’orizzonte non vedo nessuna possibilità di schierare una forza multinazionale con la volontà politica e militare di usare le armi e di rimettere insieme i pezzi sparsi della Libia».
Ha una spiegazione del madornale errore fatto dai Paesi occidentali che lasciarono il Paese in fretta e furia subito dopo l’uccisione del dittatore libico?
«Non saremmo mai dovuti intervenire in Libia e avremmo dovuto lasciare Muammar Gheddafi dov’era. Ci sono stati più morti ammazzati dopo l’uscita di scena di Gheddafi che prima. La Libia era un Paese guidato con la forza bruta della repressione, ma almeno aveva un governo. Adesso non c’è più nulla, solo il caos. Alla fine, è meglio un tiranno che l’anarchia».
Con l’arrivo in Libia dei miliziani dello Stato Islamico si è accorciata la distanza tra l’Europa e i terroristi. Esiste a suo parere un reale pericolo di sbarchi sulle coste europee, a cominciare da quelle più vicine dell’Italia?
«Sinceramente, non mi sembra un’impresa facile attraversare il Canale di Sicilia. Penso però che il pericolo non è tanto che i jihadisti dello Stato Islamico pianifichino un’azione del genere, ma quello di attacchi degli emulatori. Il rischio reale è quello che lo Stato Islamico venga replicato in franchising da islamisti che odiano i Paesi europei dove vivono, o dove sono addirittura nati e hanno studiato, e che decidono di appropriarsi della bandiera dell’Is».
Dunque, c’è poco da fare per evitare questo tipo di azioni?
«Davvero poco. Abbiamo avuto esperienza di questo prima negli Stati Uniti e poi in Europa. Due anni fa a Boston con le bombe fatte esplodere alla maratona da un gruppo di islamici che si erano addestrati da soli negli Stati Uniti; più recentemente ci sono state le azioni in Francia e in Olanda. È difficile che queste persone possano essere tenute costantemente sotto sorveglianza dall’intelligence dei singoli Paesi».
Che cosa pensa della scelta del presidente egiziano di ordinare alla sua aviazione di bombardare in Libia le postazioni dello Stato Islamico come risposta alla decapitazione di un gruppo di egiziani di religione copta?
«È più un atto simbolico che una effettiva azione contro l’organizzazione terroristica. Quali sono stati i risultati dei bombardamenti? Non c’erano strutture di comando, caserme, depositi dello Stato Islamico da distruggere. Inoltre, alle incursioni dei caccia bombardieri non è seguita un’azione sul terreno».
L’amministrazione Obama ha bisogno del voto oppure del consenso silenzioso o anche dell’aiuto indiretto della Russia per ognuna delle crisi. Il presidente Vladimir Putin ha un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza, dispone del diritto di veto e sino ad ora ha impedito qualsiasi atto concreto per risolvere la crisi in Siria. Che prospettive ci sono visto che a causa delle vicende in Ucraina i rapporti tra Stati Uniti e Russia hanno toccato il punto più basso dai tempi della Guerra Fredda? E che cosa dovrebbe fare Obama?
«Nonostante quello che sta accadendo in Ucraina, in questa prima parte di Ventunesimo Secolo, l’imperialismo russo si manifesta più con attività di sovversione di varia natura fuori dai confini che con aggressioni militari. La risposta deve essere creare una zona cuscinetto e fortificare i paesi dell’Europa centrale che vanno dal Baltico ai Balcani e poi giù fino al Caucaso: dobbiamo usare l’intelligence per anticipare e prevenire le loro mosse, operare con le forze di polizia e la legge contro i gruppi criminali russi, fornire armi in modo intelligente agli alleati, rafforzare i governi di tutti questi Paesi».
Che cosa pensa della fragile tregua nella parte orientale dell’Ucraina, è un primo passo incerto verso una pace o è solo una pausa prima di nuovi e più duri atti di guerra?
«Questo cessate il fuoco è privo di ogni significato logico perché Putin ordinerà di violarlo ogni volta che sarà nei suoi interessi e l’Occidente non potrà fare nulla».
Putin si è ripreso la Crimea senza altra reazione che qualche protesta verbale. Poi ha dato il via libera alle attività dei separatisti nell’est dell’Ucraina. Qual è il suo disegno strategico?
«Ha due obiettivi. Il primo è creare un corridoio tra le aree separatiste dell’Ucraina orientale che gli permetta di controllare le zone di Lugansk, Donetsk, Mariupol, e di conseguenza lo sbocco sul Mar Nero. Il secondo è destabilizzare l’intera Ucraina che è già uno Stato debole, molto corrotto e con istituzioni che non funzionano. Vuole ridurlo in condizioni di fallimento totale dal punto di vista delle strutture istituzionali».
Perché il presidente della Russia ha enfatizzato il nazionalismo contro Stati Uniti ed Unione Europea a partire dal discorso che ha fatto a Sochi lo scorso ottobre nel quale ha lamentato che gli Usa “non hanno mai voluto riscrivere le regole del patto internazionale dopo aver dichiarato da soli di essere i vincitori della Guerra Fredda”?
«Putin vuole usare il nazionalismo con l’obiettivo di ricreare un’area di consenso a Mosca nella parte orientale dell’Europa centrale e nel Caucaso. Lui sa bene che il collasso dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia è stato un disastro politico e strategico per Mosca. Ma sa anche che non è in grado di rimettere in piedi una struttura come il Patto di Varsavia ed allora l’obiettivo che si è posto è ricreare una zona di influenza russa a cominciare dall’Ucraina».
Ha senso consegnare nuove armi agli Ucraini del presidente Poroshenko?
«La domanda cui rispondere non è dare o no armi agli ucraini. Bisogna valutare che cosa dare loro, in che modo, che uso devono farne, che cosa possono fare con strumenti tecnologici sofisticati che un soldato dilettante non può imparare a usare con un corso di qualche settimana. Una volta trovata la risposta a questi interrogativi, bisogna rispondere al quesito chiave: queste armi che differenza possono fare sul campo di battaglia?»
Lei ha sostenuto che bisogna rafforzare le sanzioni. Che però non sembrano essere equilibrate nel rapporto Usa-Ue, visto che l’export europeo verso la Russia è diminuito del 7,34 per cento, mentre quello americano è aumentato del 23,98 per cento. Che fare?
«Questi dati di evidente squilibrio rafforzano la mia convinzione di dover rafforzare le sanzioni contro Mosca. Bisogna impedire in modo totale alle entità economiche russe di avere rapporti con il sistema bancario americano».