A sette decenni dall'atomica, Tokio continua a celebrare insieme vittime innocenti e criminali di guerra. Senza risolvere i molti contenziosi aperti con gli stati vicini

«Personalmente non ci troverei nulla di male, anzi, risolverebbe davvero il problema: ma non è possibile. L’abbiamo studiato e ristudiato, analizzato sotto tutti i punti di vista. E la conclusione è sempre la stessa: non puoi raccogliere del liquido e rimetterlo in una tazza, dopo averlo sparso per terra. Le loro anime ormai si sono fuse con tutte le altre. E debbono restare qui, assieme a tutte le altre, 2.466.721 (le vittime giapponesi della seconda guerra mondiale, n.d.r.), per la precisione. Le ultime sono arrivate lo scorso ottobre.» Yoshihisa è un giovane shintoista. Non ha intenzione di diventare sacerdote, è uno studente di scienze politiche ed è qui «per studiare» e soprattutto, per «capire».

A 70 dalla fine della guerra e dalle prime bombe atomiche (6 agosto su Hiroshima, 9 agosto su Nagasaki, circa 200 mila morti diretti, 150 mila sopravvissuti conducono ancora oggi una vita d’inferno a causa delle conseguenze delle radiazioni) è curioso che il dibattito nazionale non affronti una volta per tutte il tema della sconfitta, della liberazione/occupazione, delle responsabilità e della verità storica, e continui invece a concentrarsi sui temi esoterici come quello della sorte che debbano avere le anime di alcuni criminali di guerra. E' come se in Italia i giornali aprissero, ogni giorno, con una foto di chi va a visitare la tomba di Mussolini. Il giovane diacono innaffia i fiori del giardino con gesti lenti, come stesse officiando una delle tante liturgie del luogo. Uno dei più sacri, e sicuramente il più controverso, del Giappone. Lo Yasukuni Jinja, il tempio della Pace. Ma anche della Discordia.

È qui, più che a Nagatacho - il quartiere della politica - che il vecchio ed il nuovo Giappone non riescono ancora a riconciliarsi, ed è qui che politici idioti, più che patrioti, attori e personalità varie in cerca di pubblicità, vengono ogni anno, in questo periodo, per onorare i caduti per la patria.

Criminali di guerra compresi: nell’autunno del 1978, un po’ alla chetichella (pare che l’Imperatore, che non era stato informato, la prese molto male, e da allora né lui né la sua famiglia hanno più visitato il tempio) l’allora Gran Sacerdote Matsudaira Nagayoshi radunò alcune (non tutte, qualcuna si rifiutò) famiglie degli ex criminali di guerra e le invitò, nottetempo, al tempio. Nel giro di pochi minuti, dopo una cerimonia di apoteosi, le anime in pena di 14 dei 25 criminali di guerra giustiziati dal Tribunale di Tokyo o morti in carcere, ormai trasformate in kami (divinità) trovavano finalmente pace e sollievo nel boschetto che circonda lo Yasukuni.

Adesso però questa “presenza” è diventata imbarazzante, e qualcuno, anche nell’attuale governo, le vorrebbe spostare dal Tempio della Discordia. «Impossibile», spiega Yoshihisa, «individualmente, non esistono più. Parliamo di anime, di spiriti. Che tutti insieme, in un aldilà che è molto più aldiqua di quanto possiate immaginare voi occidentali, proteggono il Giappone». E guarda verso il boschetto, con gli alberi gravidi di foglietti bianchi, gli ex voto shintoisti.

La festa delle anime
Questo è il Giappone, dunque, 70 anni dopo. Alla vigilia del Mitama Matsuri, la “festa delle anime” lo Yasukuni Jinja, è tutto un viavai di banchetti, lanterne, yatai (venditori ambulanti) turisti (soprattutto cinesi) e gruppuscoli vari che si apprestano a protestare nell’assoluto rispetto delle ferree regole imposte dalla polizia. Alcuni, in tenuta militare, dicono e minacciano cose orrende, preoccupando un po’ i turisti americani, ma è folclore. Alcuni, i più rumorosi, sono pagati, altri sono poveri disperati, altri ancora epigoni di una sinistra che da tempo ha perso la bussola e vaga a vuoto.

C’è di tutto: dagli anarchici ai cristiani fondamentalisti, ai sendakaa-zoku, i fascistelli a ore pagati per far casino, rumorosi quanto innocui, ma anche gente seria come i reduci appartenenti alla Eirei ni kotaeru kai” (“associazione per il rispetto delle anime”) o quelli della Tokko Zaidan, l’associazione degli ex kamikaze, in rotta col governo perchè a differenza dei reduci dal fronte (che appratengono ad un’altra e più potente associazione, la Izokukai) non ricevono alcuna pensione. «Un vero scandalo», spiega Hisashi Tezuka, 93 anni, che il 15 agosto 1945, era pronto a schiantarsi col suo aereo ma venne fermato dal discorso di “resa” dell’Imperratore (si fa per dire: nel suo lungo e contorto discorso Hirohito non pronunciò mai questa parola), «pensi che invece i criminali di guerra, e le loro famiglie, ricevono lauti vitalizi».

Cosa ne pensa, il kamikaze mancato, della questione delle anime nere? È giusto o meno che vengano custodite assieme ai veri eroi, e ai milioni di vittime provocate da una guerra folle? Si infervora: «No che che non dovrebbero starci. È una vergogna. Questa è gente che mandava a morire i poveracci senza pensarci un attimo. Carne da macello eravamo. Poi, dopo la guerra, un bel voltafaccia ed eccoli di nuovo al potere. E pensare che ero pronto a dare la vita, per la patria». Volontario come tutti i kamikaze? «Fino ad un certo punto. Facevano passare un foglio, avevi tre opzioni, aderisco con entusiamo, aderisco o non aderisco. I pochi che sceglievano l’ultima opzione venivano acchiappati e sottoposti ad una lunga predica. Alla fine diventavano entusiasti. Io non sbarrai alcuna casella, ne aggiunsi una: doverosa adesione. Ero un soldato ma non morivo certo dalla voglia di morire».

La finta Norimberga
Non è ancora chiaro se a convincere Hirohito – che il 26 luglio aveva sdegnosamente rifiutato la dichiarazione di Potsdam in cui gli si imponevano le stesse condizioni da lui poi accettate il 15 agosto 1945 – siano state le due bombe atomiche (di cui all’epoca non si era ancora ben capito l’enorme impatto sulle successive generazioni, e che avevano provocato meno morti degli incessanti raid aerei su Tokyo) o i carri armati di Stalin che stavano per invadere il nord del Paese. Ma è certo che sia lui che tutti i suoi collaboratori più stretti preferivano mettersi nelle mani degli americani che vedere il Paese diviso in nord e sud, come successe pochi anni dopo alla Corea.

E gli Usa non persero tempo. Risparmiando,contro il parere di tutti gli alleati Stalin e Churchill soprattutto, l’Imperatore e organizzando un processo sul modello di Norimberga viziato proprio dalla mancata incriminazione di Hirohito e dalle testimonianze “concordate” preventivamente, in modo che in aula a nessuno saltasse in mente di cambiare il copione e coinvolgere l’Imperatore, gli Stati Uniti trasformarono in pochi anni il nemico più feroce in alleato fedele, riesumando e foraggiando la classe politica (oggi tra le più mediocri e corrotte del mondo industrializzato) che aveva provocato la guerra.

Più di metà dell’attuale parlamento è formato da zokusejika: superstiti, discendenti, diretti o indiretti di un “parterre” politico che non ha mai avuto la la capacità di rinnovarsi (lo stesso premier Abe è nipote di Nobosuke Kishi, un criminale di guerra graziato, riabilitato dagli Usa e divenuto addirittura premier negli anni ‘60). E questo a differenza, e scapito, di artisti, scrittori, registi, intellettuali e imprenditori che assieme alla stragrande maggioranza della popolazione, viaggiano su binari decisamente separati e vorrebbero un Giappone meglio governato.

Il prezzo che questo Paese e suoi cittadini, tra i più colti, onesti e laboriosi del mondo, continua a pagare per colpa dei suoi politici incapaci, arroganti e corrotti è enorme. E anche se la situazione non dovesse precipitare – come molti temono e qualcuno addirittura auspica – in un nuovo, più o meno limitato conflitto, sta allontanando i cittadini dalla politica: alle ultime elezioni ha votato meno del 50 per cento. Se si votasse oggi, il tasso sarebbe ancor più basso.

«Questa vicenda ci rende ostaggio della Cina e della Corea, che la tirano fuori ogni volta che fa loro comodo», spiega Taro Yamamoto, giovane senatore indipendente che l’anno scorso sollevò un polverone per avere avuto il coraggio di consegnare all’Imperatore una lettera personale nella quale lo sollecitava a far qualcosa per i “rifugiati nucleari” di Fukushima, di cui tutti si sono dimenticati, «ma imbarazza anche la stragrande maggioranza dei giapponesi. Che nulla vuole avere a che fare con vecchi e nuovi nazionalismi, revanscismi e fanatismi vari». Persino Abe ha confessato ai suoi fedelissimi che sarebbe d’accordo nello spostare in un luogo diverso le anime dei defunti imbarazzanti. Un posto si sarebbe anche già individuato, da tempo: a Chidorigafuji, poco distante dal Tempio Yasukuni, sulle rive del fossato che circonda il Palazzo Imperiale, proprio difronte al nostro Istituto di Cultura. Ma vecchi e nuovi emissari del Palazzo continuano a scontrarsi contro l’intransigenza dei custodi del tempio.

L'onore ai carnefici
Strano paese il Giappone. Dove premier, ministri e attori in cerca di pubblicità (ma non l’Imperatore né i membri della sua famiglia) vanno ancora, regolarmente, ad omaggiare - tirandosi dietro gli anatemi dei Paesi vicini - gente che ha mandato a morire milioni di loro cittadini e seminato orrore e distruzione in Asia, mentre i cittadini, compresi i poveri reduci, non hanno un luogo tranquillo dove ricordare i loro morti. In tutto il Giappone non esiste infatti l’equivalente di Arlington, dove gli americani onorano i loro caduti, o del Milite Ignoto, monumento che molti Paesi, compresa l’Italia, hanno dedicato alla memoria dei veri eroi, i poveracci caduti al fronte. È come se il 25 aprile, giorno della liberazione, o il 2 giugno, festa della Repubblica, la nostre autorità andassero a depositare le corone di alloro davanti al Milite Ignoto, sapendo che contiene anche le spoglie di Mussolini e dei maggiori gerarchi fascisti.

«È una situazione insostenibile», afferma Ukeru Magosaki, ex ambasciatore del Giappone in Iran e altri Paesi “caldi”, dimessosi di recente e autore di un saggio esplosivo,“Il suicidio politico del Giappone”. «Stiamo pagando il prezzo di una totale sudditanza, nel dopoguerra, agli Stati Uniti che, se ci ha consentito per molti anni di risparmiare sulla difesa puntando solo sull’economia, oggi ci impedisce di rivendicare un ruolo politico non solo in Asia, ma nel mondo intero. Non è certo con le leggi e i decreti che si conquista credibilità e rispetto. Ma con i comportamenti. Quando la Germania ha mandato le sue truppe in Kosovo, per la prima volta dal dopoguerra, nessuno si è opposto perchè nessuno poteva imputare, a Shroeder o alla Merkel, simpatie per il regime nazista. Fino a quando il nostro governo non riuscirà a convincere i Paesi vicini che il passato è passato, il Giappone continuerà ad essere visto con sospetto, se non aperta ostilità».