I Nasa, popolo indigeno non violento, da decenni si battono contro le pistole e i fucili ?della polizia dello Stato e dei guerriglieri delle Farc. Per difendere la loro terra. E per reclamare diritti 

Foto di Fabio Cuttica
In Colombia c'è una guerra strisciante che dura da decenni. No, non è quella dei rivoluzionari marxisti delle Farc, che da tre anni sono ormai impegnati in negoziati di pace con il governo. È la lotta silenziosa dei Nasa. I Nasa, anche detti Paéz, sono uno dei più grandi gruppi indigeni del Paese. Vivono sulle Ande, nel sud-ovest, in un’area strategica della lunga guerra che insanguina dagli anni Sessanta la Colombia. È per questo che, stretti tra i guerriglieri delle Farc e le forze armate, hanno dovuto subire per decenni gli attacchi di entrambi le parti.

Un destino paradossale per una comunità di 186mila persone che rifiuta la guerra e che infatti, per la propria difesa, si affida da sempre a un corpo di sicurezza composto da 700 uomini, donne e bambini, armati solo del loro “bastón”, un bastone di legno. Sono la Guardia Indigena, che prova a fare del dialogo e del rispetto dei valori dei Nasa le armi con cui difendersi in un Paese violento.
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L’ultima ingiustizia che li ha colpiti è arrivata pochi mesi fa. Il loro leader Feliciano Valencia è stato condannato a 16 anni di prigione, in un processo che il rappresentante dell’Unhcr Todd Howland ha definito “kafkiano”. Lamentano che il governo abbia rifiutato il dialogo e ritengono che il caso Valencia dimostri come vengano calpestati i loro diritti di giurisdizione, che sono iscritti nella Costituzione e che peraltro si teme verranno ulteriormente annacquati se la Carta verrà modificata al termine dei negoziati di pace tra governo e Farc.

Della guerra tra marxisti e governo, i Nasa sembrano insomma destinati ad essere sempre una vittima collaterale, come ha raccontato di recente “Le Monde Diplomatique”. Quel conflitto è stato infatti sempre sanguinoso nel dipartimento di Cauca, quello in cui vivono gli indigeni. È un’area caratterizzata da pianure con piantagioni di zucchero, fiancheggiate da entrambi i lati dalle cordigliere. E se le montagne sono in gran parte controllate dalle Farc, le pianure rappresentano un corridoio strategico per il traffico di droga che dalle montagne arriva fino al Pacifico, attirando così la presenza dei guerriglieri e dei paramilitari.

I Nasa sono riusciti a organizzarsi nel 1971, quando hanno fondato il Consiglio regionale indigeno del Cauca (Cric), un’associazione a cui appartiene oggi il 90 per cento delle loro comunità dell’area, compresi i molti che vivono a Calì, terza città del Paese, dove è ancora più difficile mantenere viva la propria identità. Il Cric nacque con un programma di sette punti, tra cui il più importante è il recupero delle terre ancestrali, per le quali in fondo si battono dai tempi dei conquistadores. La lotta è costata la vita a diversi loro leader, ma alla fine ha portato al riconoscimento ufficiale di 544mila ettari di territorio e, nel 1991, all’autonomia iscritta nella Costituzione.

In questa battaglia, che dura ancora oggi, hanno occupato piantagioni e bloccato autostrade. Ma i loro oppositori, che indossassero o meno la divisa dell’esercito, non imbracciavano solo bastoni. Sia le forze di sicurezza governative sia i guerriglieri dell’Eln e delle Farc si sono resi protagonisti di omicidi e massacri nei loro confronti. Assassinii che non sono finiti, visto che una mano ignota, lo scorso 19 ottobre, ha ucciso con un colpo alla testa il contadino 70enne Alfredo Bolaños, ex governatore di una comunità dei Nasa.

Gli indigeni lamentano che il governo non abbia trasferito loro tutta la terra promessa, mentre i loro oppositori, tra cui i proprietari delle piantagioni, li accusano di bloccare lo sviluppo economico della regione. Tra i loro nemici c’è per esempio la senatrice conservatrice del dipartimento di Cauca, Paloma Valencia, che di recente ha polemicamente proposto la divisione della zona in due: «Una in cui gli indigeni possano fare tutti gli scioperi, le manifestazioni e le invasioni che vogliono, e l’altra in cui si possano promuovere investimenti e lavoro».

Lo scontro con le istituzioni colombiane ha vissuto il momento più grave a metà settembre, quando è stato appunto condannato il leader dei Nasa, il 50enne Feliciano Valencia, voce instancabile della campagna che mira a recuperare le terre di cui si sarebbe impossessata l’industria dello zucchero. Valencia, arrestato nel 2010, è stato condannato a 16 anni di prigione per aver rapito un soldato colombiano nel 2008, ed è stato prima rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di San Isidro. Per la sua liberazione i Nasa sono scesi in piazza a Bogotà insieme ad altri gruppi “marginalizzati”, come gli afro-colombiani, i campesinos e la comunità Lgbt. Alla fine Valencia è stato trasferito in un centro di Gualanday, in territorio indigeno, dove può vivere con la sua famiglia e ricevere visite, ma intorno a cui in una notte di novembre la Guardia della comunità ha intercettato un gruppo di uomini armati e incappucciati, evidentemente non contenti che a Valencia fosse stato consentito di abbandonare il carcere di San Isidro.

L’indignazione dei Nasa è doppia. Da un lato ricordano che, secondo la Costituzione del 1991, i crimini commessi nelle terre indigene vanno giudicati non secondo la legge dello Stato, ma secondo quella indigena, che a loro parere viene sempre più ignorata per favorire i potenti interessi contro cui si battono, quella che definiscono «l’oligarchia di Cauca». Dall’altro denunciano che il soldato, Chaparral Santiago, era in abiti civili quando è stato fatto prigioniero dalla Guardia Indigena, e che si è infiltrato per conto dell’esercito in una manifestazione dei Nasa, sostenendo di essere un indigeno. Santiago è stato processato dall’assemblea della comunità ed è stato punito con 20 frustate alle gambe.

I “potenti interessi” contro cui si battono non sono solo l’industria locale dello zucchero, ma anche le multinazionali dell’energia. Come la canadese Gran Tierra, che ha messo gli occhi sulle riserve petrolifere del dipartimento di Putumayo, dove vivono 1.300 Nasa. Anche in questo caso, davanti alle proteste locali, a maggio sono entrati in azione dei misteriosi uomini armati e incappucciati, bruciando auto e lanciando persino una granata.

Nel frattempo la vita va avanti, nella valle del fiume Cauca.
L’economia dei Nasa si basa soprattutto sull’agricoltura, con le produzioni di mais, fagioli, patate e caffè. La terra è proprietà della collettività e non può essere venduta. Ogni famiglia coltiva un appezzamento assegnatole, ma dedica parte del suo tempo al lavoro comunitario, chiamato “minga”, che può significare impegnare tempo per i lavori pubblici o aiutare altre famiglie a costruire una casa o a mietere, operazioni che si concludono sempre con una grande festa.

Nonostante siano un popolo molto legato alle tradizioni, hanno lanciato in questi anni 8 stazioni radio e un periodico e sono attivi sul Web, tra il sito, una newsletter e i social network, dove provano a tenere informata la comunità sull’andamento delle loro battaglie.

Una di queste ha come protagonista la loro lingua, detta Nasa Yuwe. La parlano ormai solo in 80mila, visto che i Nasa più urbanizzati hanno smesso di usarla, ed è infatti finita nell’atlante dell’Unesco degli idiomi a rischio estinzione.

Così ecco che ragazzi come José Yukwe, 29 anni, da quattro anni viaggiano nel territorio, a piedi o a cavallo, per salvarla. Con una ventina di compagni gira di casa in casa per rivitalizzarla o farla conoscere ai più piccoli. «È stata indebolita e screditata dallo Stato, che ci dice che non vale niente, che è selvaggia», racconta José, che intanto con il suo gruppo negli ultimi due anni è riuscito a creare tre scuole, con tetto di paglia, dove si insegna il Nasa Yuwe a 100 bambini. Ma per conservare la lingua, dice José, devono liberare la loro “madre tierra”, occupata nei secoli da conquistadores, latifondisti, industrie, narcotrafficanti e Farc. Terra e lingua: i due cardini della resistenza disarmata dei Nasa.