Hillary lo attacca, Trump lo ammira. Il leader del Cremlino ha dominato ?la campagna elettorale americana. E sarà un problema, chiunque vinca

clinton-jpg
Il sesso, l’Islam e poi Putin. Nella campagna elettorale per la Casa Bianca più politicamente scorretta di sempre, il presidente russo si è guadagnato un bel posto sul podio: Hillary Clinton lo attacca, Donald Trump lo ammira, nei social network il suo nome è tra i più gettonati in tweet e post di ogni genere e il vecchio spettro di una nuova guerra fredda in formato 2.0 (grazie agli hacker al soldo del Cremlino) sta diventando realtà.

L’uomo forte di Mosca, l’ex agente del Kgb accusato di far fuori i nemici con le buone o con le cattive, l’autocrate a cui dovrebbe essere data la tessera d’onore di un virtuale «club dei despoti globali» (per dirla con un comico tv), mette paura agli americani e allo stesso tempo (in modo un po’ perverso) li affascina. E anche il presidente che, ancora per soli tre mesi, guida la superpotenza Usa dallo Studio Ovale, dopo diversi tentativi per evitare drammatiche rotture con l’ex nemico di mezzo secolo Ventesimo, ha dovuto gettare la spugna.
Russia
Perché Putin gioca con la retorica della guerra
14/10/2016

Chi critica Obama per la sua politica estera ondeggiante (e poco efficace) lo ha sempre definito un “frenemy” - friend+enemy, amico-nemico, parola coniata in piena guerra fredda (1953) da un popolare conduttore radio. Nelle ultime settimane il “Commander in Chief” ha fatto di tutto per scrollarsi di dosso quell’immagine. Scottato dalle indagini dell’Fbi che ha certificato quello che tutti già sapevano (erano stati gli hacker russi a violare il server del partito democratico), sconvolto dalle immagini di Aleppo e dalle barbarie compiute su migliaia di innocenti dalle truppe di Assad e dai caccia del Cremlino, Barack Obama (almeno a parole) ha messo da parte l’abituale prudenza usata finora nei confronti del suo omologo russo. E in un durissimo comunicato (affidato all’intelligence) ha accusato il governo russo di «hackeraggio delle email di cittadini e di istituzioni degli Stati Uniti per interferire nel processo elettorale», promettendo «gravissime conseguenze».

Dopo il sesso (le molestie di The Donald e i tradimenti di Bill) e prima dell’Islam, zar Vladimir è stato protagonista anche del secondo dibattito in diretta tv, l’evento più twittato di sempre. Hillary ha evocato - tra le ragioni per cui Trump non pubblica le sue dichiarazioni dei redditi - i possibili conflitti d’interessi per i suoi legami “d’affari” con la Russia e ha ricordato il ruolo degli hacker russi (con la buona compagnia di WikiLeaks) nella violazione dei sistemi informatici del partito democratico e della campagna della stessa ex First Lady. Trump ha negato di «essere amico» del presidente russo (e del dittatore siriano), ma - spiegando (a modo suo) il fallimento della politica della Casa Bianca in Medio Oriente - ha ripetuto più volte che Putin, Assad e anche l’Iran «sono gli unici che combattono seriamente lo Stato Islamico». E invece che dissociarsi dal capo del Cremlino, The Donald si è dissociato dal suo vice Mike Pence, che chiede (come tutti i repubblicani doc) una maggiore presenza (e azione) militare Usa in Siria.

Del resto non è un mistero che fra Putin e Trump corra una reciproca ammirazione. Il presidente russo e il miliardario “celebrity” si sono pubblicamente scambiati entusiasti complimenti l’uno per l’altro, con il primo che invidia «l’uomo brillante» e il secondo affascinato «dalla grande forte leadership» del nuovo zar del Cremlino (soprattutto quando da lui paragonata a quella «debole» di Obama). Troppa ammirazione, dicono politici e columnist (in prima fila quelli repubblicani), con il rischio di minare la già fiacca politica estera della Casa Bianca. Proprio nel momento in cui i negoziati con Mosca sulla Siria sono a un punto morto (con l’annullamento dell’incontro con Hollande) e i rischi di un “incidente armato” - tra l’unica superpotenza sopravvissuta alla guerra fredda e il suo storico nemico in cerca di un’eclatante rivincita – non sono più fantapolitica.

L’atteggiamento di Putin su questioni come la repressione degli oppositori e il disprezzo dei diritti umani (temi che fanno parte del dna politico-ideologico della migliore destra americana) e il fatto che il leader russo sia una ex-spia non possono che allarmare ancora di più il Grand Old Party. Se a “dormire con il nemico” è poi il candidato ufficiale del partito, uomo che non ha alcuna esperienza di politica internazionale e diplomazia, si capisce meglio come all’elettorato repubblicano non piaccia l’atteggiamento di Trump nei confronti di Putin: secondo un sondaggio di Bloomberg (fatto alla vigilia degli ultimi scandali e del dibattito televisivo) il 69 per cento degli elettori del Gop danno una pessima valutazione del presidente russo (a giugno era il 59 per cento). E forse non è un caso che uno dei serial televisivi di maggiore successo negli ultimi anni sia quel “The Americans” che racconta le vicende di insospettabili spie sovietiche (che si celano dietro la vita quotidiana di una tipica famiglia della middle class di Washington) negli anni ruggenti di Ronald Reagan e della sua battaglia contro l’Impero del Male.

Con la sua “interferenza” nella campagna elettorale americana, Putin si sta giocando la carta più audace (e pericolosa) sul grande tavolo della geopolitica internazionale, una novità assoluta nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Russia (o Unione Sovietica). Lui, ovviamente, nega tutto. Intervistato da Fareed Zakaria sulla “Cnn” ha risposto seccato alle accuse di voler favorire il tycoon di New York nella corsa alla Casa Bianca: «Noi non favoriamo nessuno, le elezioni negli Stati Uniti non sono affare nostro. Continueremo a lavorare con chiunque venga eletto dall’elettorato americano, la nostra speranza è che questo individuo migliori le relazioni con la Russia e ci aiuti a costruire un mondo più sicuro».

Poi ha ribaltato le accuse sugli Stati Uniti e la politica di interferenza della Casa Bianca di Obama (con Hillary Clinton Segretario di Stato) nei paesi dell’ex blocco comunista (a cominciare dall’Ucraina) e la longa manus della Cia nelle cosiddette “rivoluzioni colorate”. «L’America pretende di dare lezioni di democrazia al mondo intero, ma siamo sicuri che le elezioni negli Stati Uniti siano veramente democratiche? Per due volte è stato eletto un presidente che aveva meno voti del suo avversario (in realtà sono quattro, ma oltre a quella famosa e contestata di George W. Bush contro Al Gore, le altre tre risalgono all’Ottocento, ndr): è questa la vostra democrazia?».

Era lo scorso giugno. Oggi, con le “prove” portate dall’Fbi, chi lo intervistava avrebbe potuto fare un paio di domande più incalzanti e lui avrebbe forse avuto più difficoltà a rispondere. Difficile che da qui all’8 novembre, giorno in cui gli elettori Usa sceglieranno il successore del primo presidente afro-americano, Putin conceda un’altra intervista ai media degli Stati Uniti. Più facile che tenti (via hackeraggi vari) un nuovo affondo contro Hillary, nel tentativo (che ormai appare disperato) di dare una possibilità di successo a The Donald. Poi, dal prossimo gennaio, dovrà fare i conti con il nuovo inquilino della Casa Bianca. Che salvo clamorose sorprese sarà un’inquilina con un passato da Segretario di Stato e una visione della missione americana nel mondo meno accomodante di quella di Obama.