Dal commercio alla spesa pubblica, fino alle tasse: le ricette del nuovo presidente Usa sono un mix di contraddizioni. Che potrebbero scatenare effetti opposti alle sue promesse

donald trump
La Trumpologia è una delle scienze meno esatte dell’età contemporanea. Già predire le mille variabili dell’azione umana, avvolta da ignoranza, eterogenesi dei fini, avversità o colpi di fortuna, è complicatissimo: figuriamoci quando si tratta di capire le mosse del personaggio più incoerente che abbia calcato la scena politica occidentale nel dopoguerra.

Tuttavia, farsi un’idea di come l’amministrazione Usa si muoverà nel futuro in campo economico non equivale a un innocuo divertissement tipo indovinare il nome della prossima fidanzata di Brad Pitt o dell’allenatore dell’Inter nel 2017. Imprese, individui, governi devono scegliere come investire e quali mercati approcciare: cercare di prevedere che direzione prenderanno gli Stati Uniti è essenziale e sbagliare costa soldi. Per evitare di cadere nell’astrologia assumiamo allora che il Presidente Trump non si discosterà sostanzialmente da quanto promesso dal candidato Donald nel corso della campagna elettorale e vediamo l’effetto che fa.

Il commercio internazionale
La posizione protezionista di Trump ha probabilmente determinato la sua vittoria più delle sparate anti-immigrazione. In campagna elettorale il magnate ha più volte minacciato di rinegoziare o abolire il Nafta, il trattato di libero scambio tra Usa, Canada e Messico, definito come il “peggiore al mondo”.

Non migliore trattamento ha ricevuto il Tpp, accordo già firmato tra 12 paesi che si affacciano sul Pacifico (dall’Australia al Giappone, dal Cile a Singapore, escludendo però la Cina), ma non ancora ratificato dai Parlamenti, tra cui il Congresso americano che ne ha rinviato l’esame sine die. The Donald lo ha paragonato a uno “stupro”. Il Ttip, sul quale da noi tanto si discute, è stato relativamente ignorato durante la campagna elettorale Usa, forse per la percezione che essendo l’Europa vecchia e debole, non è una vera minaccia.

Comunque sia, la Commissaria Ue al commercio, Cecilia Malmström, ha realisticamente sospeso i negoziati. Infine, la Cina è un vero capro espiatorio nella narrativa trumpiana: l’invasione dei suoi prodotti distruggerebbe i posti di lavoro americani nel manifatturiero e quindi sono stati minacciati dazi addirittura fino al 45 per cento sul valore delle merci. Uno dei consiglieri economici del presidente eletto, il professor Peter Navarro dell’Università della California, ha scritto articoli di fuoco proprio dedicati alla concorrenza sleale dell’Impero Celeste.

Il mantenimento delle promesse avrebbe conseguenze ovvie: innalzamento di barriere e tariffe doganali sulle merci importate negli Stati Uniti, incentivi o sanzioni per il rimpatrio dei profitti delle società americane generati all’estero, stallo dei negoziati su nuovi patti, rinegoziazione dei vecchi. L’effetto sul commercio internazionale sarebbe deleterio soprattutto se le mosse Usa scatenassero ritorsioni a catena. La magra consolazione per noi europei è che la nostra situazione non dovrebbe peggiorare di tanto se non per mancate opportunità e minor presenza di società americane nelle giurisdizioni a bassa tassazione come Irlanda o Lussemburgo. Forse, con un po’ di fortuna, si assisterebbe a un’intensificazione della cooperazione tra Asia, Europa e Sudamerica. Ma…

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24/11/2016
Spese, tasse e tassi
La seconda parte del programma economico trumpiano potrebbe non rendere facile la vita alla prima. The Donald ha promesso forti riduzioni alle imposte sul reddito, societarie, di successione. Preso alla lettera si tratterebbe di un taglio persino più grande di quello della rivoluzione reaganiana: l’equivalente del 4 per cento del Pil contro il 3. E, come Reagan fece schizzare il deficit all’insù perché quasi non toccò i programmi sociali e aumentò le spese militari, così dovrebbe succedere con Trump che si oppone alla riforma della Social Security e del Medicare, vuole un grande piano di infrastrutture nell’ordine di 550 miliardi di dollari per costruire autostrade, porti ed aeroporti e rinforzare la difesa.

Con Reagan la cosa funzionò: lungo periodo di crescita dell’economia, riduzione progressiva del deficit dopo l’esplosione iniziale, dollaro forte, vittoria nella Guerra Fredda. Il danno collaterale fu la crisi dei paesi latinoamericani indebitati in dollari che non potevano più ripagare. Ora, però, la situazione è molto più seria: tanto per cominciare il debito pubblico Usa nel 1981 era al 32,5 per cento del PIL, oggi al 100 per cento; tutto questo spazio per espanderlo ulteriormente non c’è ed infatti i Repubblicani tradizionali sono sì a favore della decurtazione delle tasse, ma anche della spesa pubblica. Inoltre, il debito è esploso in tutto il mondo: se inflazione e tassi di interesse sono destinati ad aumentare questa volta saranno i paesi come, ahimè, l’Italia a farne le spese. Peraltro, con un dollaro molto forte e il progetto di asfaltare l’America (o costruire muri al confine col Messico), per quanti dazi possa mettere la nuova amministrazione, le importazioni di materie prime, di vino italiano e di magliette cinesi sono destinate a crescere, non a diminuire.

E l’economia reale?
E l’economia reale? Qui Trump ha un programma degno del Barone di Münch- hausen. Nel suo viaggio a cavallo di una palla di cannone si inasprisce il controllo antitrust (si è dichiarato contrario alla fusione ATT-Time Warner), si ritorna all’antico separando banche d’affari e commerciali, si abolisce la riforma sanitaria di Obama e quella finanziaria della legge Dodd-Frank, si incoraggia la produzione di carbone e petrolio e si rimane indifferenti verso le energie rinnovabili. Da un siffatto cilindro tiriamo fuori l’abolizione della Dodd-Frank, approvata nel 2010 per rimediare ai disastri della crisi finanziaria del 2007-2008 dovuti, secondo l’analisi dell’epoca, esclusivamente alla scarsa regolamentazione dei mercati. Purtroppo la legge ha creato una ragnatela mostruosa di grida manzoniane e ukase zaristi: solo la norma sui mutui ipotecari è di oltre 1000 pagine! Paradossalmente ciò ha favorito proprio le famose banche “too big to fail” che possono affrontare i costi di compliance e si indebitano a condizioni migliori.

La riforma quindi si impone e per gli europei presenta una curiosa scelta tra due mali: infatti, se si butta via tutto e l’industria finanziaria piomba nel caos (per quanto creativo), si rischia un’altra crisi letale. Se la deregolamentazione è intelligente, l’industria finanziaria americana e il governo tramite i Treasury bonds attireranno una parte preponderante dei capitali disponibili al mondo, proprio nel momento in cui l’altra grande piazza finanziaria del pianeta, Londra, è in uscita dall’Unione Europea. Brutto affare.