Cosa ci racconta, oltre alla tragedia dei morti e dei feriti, l’attacco a Bruxelles? Quale è la realtà degli islamici europei con cui il Belgio, ma anche l’Italia, si deve confrontare, e cosa si può fare per contrastare la radicalizzazione? Di integrazione, rischi e stato dell’arte abbiamo parlato con Pasquale Annicchino, giurista esperto di comparazione giuridica ed Islam in Occidente e Medio Oriente, che è fra l’altro ricercatore presso il Robert Schuman Centre for Advanced Studies, il più grande centro europeo delle scienze sociali, e consulente del Viminale, come membro del Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano.
L’attacco a Bruxelles è venuto dal cuore di Bruxelles. E’ stato costruito nei suoi quartieri, assemblato nei suoi appartamenti. Cosa ci racconta, questo?
“Anzitutto che le politiche sull’integrazione messe in piedi dal Belgio, per problemi strutturali, non hanno funzionato bene: perché è evidente che le seconde generazioni non sono integrate nei contesti in cui vivevano. L’approccio multiculturalista, quello secondo il quale noi rispettiamo le comunità e non chiediamo l’integrazione dei singoli, è degradato nella creazione di ghetti. C’è poi che il Belgio soffre di un apparato burocratico pesante, e dell’assenza di un approccio veramente nazionale, L’identità nazionale debole non facilita l’integrazione: perché cosa vuol dire dirsi belgi? E’ una identità che non esiste. Per contro, l’identità religiosa è spesso forte”.
Il Belgio ha il più alto tasso di foreign fighters d’Europa: siamo nell’ordine delle centinaia. In Italia c’è un tasso bassissimo: siamo nell’ordine delle decine. Vuol dire che è tutto diverso?
“Da noi questa peculiarità non è vissuta, perché a livello di immigrazione siamo indietro rispetto al Belgio, all’Olanda, e in genere rispetto al nord Europa. Ma non perché siamo stati più bravi a evitare la radicalizzazione”.
Quindi non dipende, come sostengono alcuni, dal fatto che abbiamo una intelligence più brava?
“E’ maggiormente in grado di intervenire, per alcuni aspetti è migliore. Ma, rispetto alla radicalizzazione, c’è un dato strutturale che dipende dalle caratteristiche del fenomeno migratorio, non da quali tipo di politiche siano attuate. Le persone sono immigrate da noi più tardi”.
Quindi si tratta anche di una questione di tempo?
“La nostra ondata migratoria è più recente. Le seconde generazioni, da noi, sono molto più giovani. Spesso sono nati qui e non hanno cittadinanza, ma sono ancora piccoli, in maggior parte ancora minorenni: non hanno ancora vissuto pienamente il clash identitario. Salah Abdeslam ha 26 anni, è dell’89”.
Come si fa a evitare che vengano su altri Salah?
“Non c’è purtroppo una ricetta semplice C’è da tenere particolarmente sotto controllo il fenomeno dell’autoradicalizzazione, che è complesso da affrontare. Non risulta che Salah frequentasse le moschee, non era radicato in una comunità di fede territoriale. Probabilmente si è rivolto a internet. E se si guarda al profilo dei terroristi, sono persone tutte così”.
Quindi, se l’islamizzazione è virtuale, il controllo del territorio non serve?
“Certo che serve: si deve comunque intervenire, c’è una grande quantità di islamici che, anche in Italia, vivono in condizioni di marginalizzazione, che è un terreno fertile per la radicalizzazione. Ma, su questo piano, c’è anche da fare un intervento sulle moschee”.
La regione Lombardia aveva fatto una legge per bloccarne la costruzione, la Consulta l’ha dichiarata incostituzionale.
“Ed è un bene. Perché mettere tutto nell’illegalità è la premessa per le moschee fatte nei sottoscala, è la premessa per non poter controllare più nulla. Il che peraltro in parte accade già”.
Quindi è meglio avere più moschee?
“Una moschea è un luogo di culto, e quindi per edificarla bisogna affrontare tutta una procedura di autorizzazione, e quando c’è, hai una serie di garanzie. Contrastarne la costruzione, come fa la Lega, ha come risultato – soprattutto al nord - che invece delle moschee si creano associazioni culturali, che poi vengono utilizzate anche per pregare. Questo fa sì che ci siano tanti luoghi utilizzati anche come moschee ma che spesso non sono censiti. Chi deve controllare a volte non sa nemmeno che ci sono”.
Sull’ondata degli assalti kamikaze, si dice che per battere il terrorismo ci vuole più integrazione. Ma quanto è possibile realizzarla? C’è chi si chiede: io, da italiano, su cosa mi devo integrare?
“Quello dell’integrazione è un problema che in Europa riguarda milioni di persone, ed è ancora più esplosivo, rispetto per esempio all’America. Negli Stati Uniti ci sono solo sei milioni di musulmani su cinquecento milioni di persone: sono spesso di classe sociale diversa, mediamente più ricchi; in Europa sono meno integrati, e meno abbienti. E c’è un problema di effettiva comprensione dei valori morali di queste persone”.
In che senso?
“In Inghilterra, ad esempio, un sondaggio sull’integrazione delle comunità musulmane di qualche anno fa ha evidenziato che, per quel che riguarda le unioni omosessuali – non i matrimoni –, la percentuale che le ritiene moralmente accettabili è zero. E’ molto diverso dall’opinione media dell’europeo, che è più secolarizzata. Ma non significa che chi sia contrario alle unioni omosessuali è un terrorista: piuttosto, c’è da affrontare un problema di tutela della tolleranza e di standard minimi. Ed è necessario distinguere, perché se leggiamo tutto nell’ottica anti-terrorismo rischiamo di fare danni. Serve un confronto serio con le comunità: per esempio sui diritti delle donne, dove tra i musulmani esistono alcuni limiti il cui superamento va portato a maturazione. Anche se qualche segnale c’è: qualche giorno fa, le donne musulmane hanno sfilato in bicicletta a Segrate, per protestare contro l’Imam che aveva detto che farlo è immorale. Queste iniziative vanno sostenute, le istituzioni devono far sentire la loro vicinanza”.
E ci si riesce a farla sentire, questa vicinanza?
“Le prefetture ora sono più presenti, ma certamente non è sufficiente. Ormai parliamo di due milioni di persone in Italia, agglomerati urbani soprattutto al nord dove la presenza musulmana è marcata. Lo Stato deve recuperare risorse per queste politiche: Renzi dice un euro per sicurezza e uno per cultura. Ma, se è vero che c’è una correlazione – inversa – tra tasso di estremismo e tasso di cultura, soprattutto religiosa, mi auguro che politiche in tal senso vengano effettivamente poste in essere” .
C’è anche un problema di connivenza? Salah è rimasto nascosto per mesi a Bruxelles, a casa sua, nel suo quartiere. Viene in mente che non sia solo un problema di intelligence belga.
“E’ un processo paragonabile a quello che si instaura sul territorio dominato dalle famiglie ‘ndranghetiste, camorriste, mafiose. C’è una solidarietà che si cementifica sia nei rapporti familiari, sia nell’ideologia: perché se sei emarginato trovi una istanza di riscatto maggiore nel camorrista che nella polizia. A chi è andato ad arrestare Salah hanno tirato pomodori, nei quartieri di camorra hanno tirato rotoli di carta igienica. Sono realtà che si riconoscono più in altre istituzioni, che nello Stato. Nel caso di Bruxelles, è una islamizzazione della radicalità”.
Vale a dire?
“Ci sono delle fasce di persone che utilizzano l’Islam come ideologia della radicalizzazione. In altri tempi e luoghi poteva essere la radicalità dell’ultra sinistra: qua c’è un'altra ideologia a fare da cemento. E’ evidente che creare dei ghetti aiuta queste realtà: gli attentati vengono da lì perché lì trovano solidarietà”.
E come si scongiura, o si scardina, un meccanismo del genere?
“Non c’è, anche qui, una ricetta semplice che possa avere effetti dall’oggi al domani. Parliamo di milioni di persone, non dei gruppi delle Br, che al confronto erano esigui, o di piccoli gruppi che possono essere infiltrati. Questo fenomeno è molto diverso. Servono ricette a medio e lungo termine: impegno dello Stato rispetto all’integrazione, lavoro nelle periferie, potenziamento del lavoro di intelligence”.
Nei rapporti con l’Islam in Italia a che punto siamo?
“Abbiamo un quadro giuridici abbastanza datato. Regoliamo l’Islam con una legge del 1929, risalente al periodo fascista. L’Islam non ha una intesa con lo Stato italiano quindi non c’è una rappresentanza definita ed è spesso difficile stabilire chi sia l’interlocutore”.
Questo che effetti ha?
“Le faccio l’esempio delle carceri, uno dei luoghi principe della radicalizzazione. Tra i detenuti musulmani, sono oltre diecimila quelli che si dichiarano praticanti. Ma, non avendo l’Islam una intesa con lo Stato italiano, gli imam non sono compresi nel corpo dei cappellani del carcere. Fino a pochi mesi fa, erano autorizzati a entrare nelle carceri in tutto nove. Significa che chi si converte non ha un imam che lo possa assistere, e magari prevenire la radicalizzazione: vuol dire che quel detenuto interpreta la legge islamica come vuole. Ora il ministro Orlando ha fatto un protocollo di intesa, e il numero dei ministri di culto musulmani è un poco aumentato. Ma senza un inquadramento generale del problema e l’aggiornamento della legislazione a volte non si hanno nemmeno gli strumenti per intervenire”.
Non un panorama roseo, comunque.
“La politica tende a dare risposte emergenziali, non a fare strategie. E io spero che in Italia non accadrà mai nulla. Altrimenti probabilmente avremo, il giorno dopo, il decreto per emendare la legge del 1929 che regolamenta il rapporto tra Stato e religioni o decidere che ci vogliono altri strumenti. Così come magari avremo, solo dopo, anche un avvio serio della legge generale sulla libertà religiosa. Sono cose che vengono persino prima rispetto all’iniziativa politica. Perché oggi i politici spesso non hanno nemmeno gli strumenti per avere un impatto efficiente sulla realtà. E il tema finisce unicamente nel prestarsi a strumento di propaganda. E chi lo agita, come per esempio la Lega, ha tutti gli incentivi per non risolverlo: perché lo capitalizza come strumento di consenso”.