Bloccata dagli scioperi contro la legge sul lavoro. Col rischio violenza nelle piazze. E l’incubo attentati per l’Euro di calcio. Una tempesta perfetta che cambierà il Paese. Ecco perché

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Mancavano solo le piogge torrenziali che hanno messo in ginocchio una fetta consistente di Francia. E poi i migranti bloccati alle porte dell’ex terra d’asilo. La minaccia incombente di attentati durante gli Europei di calcio che cominciano il 10 giugno dove è vivo il ricordo di Charlie Hebdo e del 13 novembre. Le raffinerie bloccate e la penuria di benzina. I treni fermi, gli aerei a terra. I rifiuti per le strade perché nessuno li raccoglie. Una tempesta perfetta sul governo del capo dello Stato François Hollande e del premier Manuel Valls che ha tutta l’aria di una resa dei conti nel Paese che, da ultimo, affronta la stagione faticosa delle riforme e ha sullo sfondo la campagna elettorale per l’Eliseo, tra meno di un anno, cioè l’unico appuntamento che conta davvero nella Quinta Repubblica fondata sulla grandeur del presidente-re.

A dispetto della meteorologia, Parigi brucia nell’epico scontro tra ciò che è stata e ciò che fatica a diventare. L’epicentro dell’incendio è la “Loi Travail” del ministro Myriam El Khomri, il “Jobs Act” alla Marsigliese, che soprattutto vorrebbe declassare i contratti nazionali e stabilire il primato degli accordi aziendali (vedi box a pagina 22) cioè l’opposto stesso dell’identità francese, il suo sentirsi anzitutto Stato centrale.

Un cambio di paradigma che ha scatenato la rivolta contro la “socialdemocrazia liberale” dell’ex socialista Hollande da parte della sinistra radicale della Cgt, il sindacato post-comunista dell’ex sconosciuto Philippe Martinez ora assurto a Masaniello delle barricate, e dei giovani delle “Nuits debout” (Notti in piedi) che si vedono depredati di un’altra fetta di tutele, dunque di futuro, prima ancora di essere entrati in un mercato del lavoro sempre più ristretto e precario. Chiedono, i ribelli, alla Francia di essere ancora madre come lo è stata spesso in passato, come non potrà più essere, esattamente come l’Italia e l’Occidente naufragati nel mare della globalizzazione delle troppe offerte di braccia e della bassa domanda di occupazione. Con loro stanno sette francesi su dieci (stando agli ultimi sondaggi) favorevoli al ritiro della legge, pur se la maggioranza è tuttavia a favore della fine delle proteste. Contraddizioni di un Paese che non vorrebbe rinunciare ai diritti, siamo nella terra dei “droits” a qualunque titolo, ma che reclama la pace sociale perché i disagi non piacciono a nessuno e il caos favorisce i nemici rappresentati dall’incubo del terrorismo.
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Ci fu un tempo in cui la Francia, la dolce Francia, teneva per cari i propri giovani e ora sembra sacrificarli sull’altare di istituzioni che sono state troppo forti per abdicare senza combattere perché sono la nervatura stessa del sistema che non ha conosciuto riforme. Un sostanziale bipolarismo solo minato da un terzo incomodo, il Front National, che ripulito nel blu Marine, accetta comunque il gioco elettorale e fa l’esattore del malcontento delle classi operaie e degli svantaggiati per canalizzarli in un orgoglio etnico che fa riferimento a fasti desueti. Una pletorica burocrazia statale di stampo weberiano che fa pesare il suo prestigio e la presenza nei gangli cruciali degli apparati che fanno marciare il Paese.

Una devozione alla République che si declina nel rispetto verso i suoi “civil servant”, dagli alti vertici sino alla base. Una dialettica degli scontri in cui comunque si riconosce sempre l’avversario nel nome dei principi volterriani del diritto di parola. Il tutto a formare un insieme a lungo indicato come modello del buon funzionamento democratico e che ha impedito, sinora, il sorgere di forze moderne e di superamento del sistema. Sinora. C’è da capire cosa succederà ora che la scena è dominata dai “jusqueboutiste”, cioè da attori protagonisti che promettono di andare “fino in fondo” senza compromessi. Lasciando intendere che la contrapposizione in atto non potrà finire in pareggio, ma si concluderà con dei vincitori totali e degli sconfitti assoluti. Lo è il governo che, salvo ritocchi marginali, non è disposto a ritirare la legge. Lo sono i ragazzi della piazza e il sindacato che ne esigono la soppressione. Lo è il leader degli industriali Pierre Gattaz che taccia la Cgt di “stalinismo”. Prigionieri di parole andate troppo oltre per essere ritirate senza pagare dazio al consenso.

In una maledetta congiura del tempo, François Hollande si gioca i calci di rigore di una partita decisiva. Nel quinquennio che arriva alle ultime curve ha tenuto una postura presidenziale solo davanti agli attentati. Per il resto è stato un re tentenna stretto tra un’antica ideologia di appartenenza, l’esigenza di mostrarsi moderno, la paura della montante deriva a destra della Francia identitaria. Per risalire negli indici di gradimento e sperare almeno di arrivare al ballottaggio tra un anno, deve tenere il punto su una legge che ha sì il nome della sua ministro, ma per la quale ha speso il suo prestigio. Pena l’accusa di eterna debolezza che è già condanna per un inquilino dell’Eliseo. Se non indietreggia, affronta il periglioso oceano delle piazze laddove avranno sì l’eredità volterriana ma sanno anche tagliare la testa ai sovrani. E il pollice verso politico potrebbe segnare la definitiva rovina per chi non ha saputo garantire armonia nel momento in cui il Paese è esposto con l’Euro del calcio e potrebbe trarne benefici, se l’incertezza non alimentasse i dubbi di tifosi e turisti.

Fioccano disdette negli alberghi parigini, si annullano prenotazioni di voli in attesa di sviluppi, nella sensazione generale di una possibile festa mancata.

Nel perverso calcolo utilitaristico, la destra Républicains dei Juppé (candidato favorito per l’anno prossimo) e dei Sarkozy, che si era ben guardata dal toccare il lavoro quando muoveva le leve del potere, gioisce dell’altrui rovina: e ideologicamente dovrebbe essere favorevole alla tanto contestata legge se non addirittura a una ancora più liberista. Mentre con la solita spregiudicatezza di chi non deve fare i conti con la realtà Marine Le Pen cavalca l’onda del dissenso, ne ricava i dividendi, e si schiera in difesa protezionistica dei diritti, in una sostituzione ormai consolidata della sinistra che le attira le simpatie della classe operaia.

Altro non propone, almeno per ora, un’offerta politica sclerotizzata e ancorata a una tradizione novecentesca che ormai quasi solo qui resiste fuori tempo massimo. Che il braccio di ferro in atto porti a una liquidazione del Novecento è una possibilità concreta. Con le bocce in frenetico movimento è difficile pronosticare, semmai, cosa viene dopo. Un riflesso pigro e condizionato rimanda sempre al maggio ’68 ogni volta che i cortei in Francia diventano protagonisti. Il paragone è ingombrante e deviante. Non regge nei numeri, nemmeno negli slogan. E non basta l’assonanza tra il mitico “Ce n’est qu’un début” e le “Nuits debout”.

Allora la Francia era l’avanguardia, il motore di un vento che avrebbe valicato i confini dell’Esagono per spirare anche altrove. Ora si muove nella scia già tracciata da altri e non a caso si sprecano i paragoni con la riforma di Matteo Renzi, nell’idea che sia l’Italia il laboratorio politico più prossimo a cui fare riferimento. Così il governo di sinistra promuove leggi che, se si adotta uno schematismo forse superato, sono di destra. Le dichiara senz’altro obbligatorie, sfida quella che un tempo era la sua base di riferimento, promette che favoriranno l’occupazione. Pur se gli esperimenti altrove non sono così confortanti. Come se non bastasse mai niente nella rincorsa a una formula magica capace di restituire, almeno in parte, un equilibrio tra capitale e lavoro.

Tutto questo hanno capito i ragazzi della notte e gli operai della mattina presto. Cercano di vendere cara la pelle. Che possano vincere è un’illusione di prospettiva. Che ci interroghino su dove stiamo andando nel progressivo cedimento alla logica del mercato è un dato culturale, oltre che economico, che meriterebbe una risposta. Comunque vada, siamo all’alba di una nuova Francia.

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