Sono i tre padroni del pianeta e vogliono estendere ancora la propria influenza. Ma dietro l'ostentazione di forza si nascondo tre giganti in realtà fragili

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Il dramma sta tutto nella loro fragilità: nessuna delle tre potenze che dominano oggi la scena internazionale - non la Cina, né l’America, né la Russia - ha quello che rendeva solide le superpotenze del dopoguerra. Esse non dispongono proprio o non dispongono più di alleanze militari degne di questo nome, di reti di solidarietà politica, della certezza - più di ogni altra cosa - di incarnare il bene e il futuro del genere umano, di quell’insieme di prerogative, in breve, sul quale si era poggiato l’ordine della Guerra fredda, deprecabile ma certo, la cui perennità sembrava assicurata.

Il cambiamento avvenne così all’improvviso che, alla caduta del Muro, si credette nell’avvento di un’armonia universale, garantita dalla superpotenza americana e fondata sulla democrazia e la concertazione internazionale. Il mondo era così poco preparato all’implosione sovietica che molti credettero alla “fine della Storia”. Quella visione, tuttavia, durò soltanto una frazione di secondo, giusto il tempo che la Cina si svegliasse, e poi la Russia facesse altrettanto, e gli Stati Uniti perdessero il predominio e iniziasse un’epoca di instabilità che odora tanto di periodo prebellico, perché non esistono più rapporti di forza stabili.

Pensiamo prima di tutto alla Cina perché proprio essa, da lontano, appare la più solida. Convertendosi all’economia di mercato, la Cina è diventata la seconda potenza al mondo. La sua spesa militare cresce a un ritmo tale che già adesso le sue forze armate sono le più spaventose di tutta l’Asia e un giorno, forse presto, potranno misurarsi con quelle statunitensi. Le sue esportazioni restano così competitive che continuano a far fallire innumerevoli fabbriche in tutto il mondo e in Occidente provocano quel profondo sgomento sul quale fanno leva Donald Trump e le nuove estreme destre europee. Questo secolo ha tutto quel che occorre per essere cinese tanto quanto il XX è stato americano. Se non fosse…
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Se non fosse per due cose. Dagli anni Ottanta i cinesi rispettano il patto che la direzione comunista ha offerto loro: noi vi lasciamo arricchire, voi ci lasciate governare. Vi si conformano perché il loro livello di vita non fa che migliorare. Tutti hanno da guadagnare da questo accordo, ma è indubbio che esso non potrà durare per sempre. Un giorno la crescita scenderà sotto il 5 per cento e non assicurerà più il progresso sociale. Quel giorno, forse anche prima, le banche falliranno per aver prestato capitali in maniera esorbitante. Quando la Cina precipiterà in una crisi economica e una medesima collera sociale accomunerà città e campagne, non ci saranno sindacati né forze politiche in grado di incanalare quel profondo malcontento.

Il primo problema della Cina è questo. Essa rischia a tal punto l’anarchia che il potere è sempre più repressivo. Il suo secondo problema è che Pechino non ha alleati, in particolare non ne ha in Asia dove si ritrova soltanto vicini di casa irrequieti. La Cina fa paura sia al Giappone sia al Vietnam e all’India. Gli unici amici che ha sono i militari birmani e quella polveriera di nome Pakistan. L’Asia, dunque, è instabile proprio come lo è stata l’Europa fino al termine della Seconda guerra mondiale. Cosa ancora più inquietante, l’unico vero cemento che tiene insieme la Cina è fatto di nazionalismo, di un rancore storico e di un desiderio di rivalsa e affermazione che, in caso di difficoltà politiche, diventerebbe l’ultima arma in mano ai dirigenti comunisti.

Ma passiamo agli Stati Uniti: l’orgoglio di essere i gendarmi del mondo e la guida delle nazioni è messo a dura prova da un caos internazionale nel quale non riescono più ad avere un peso effettivo. Le famiglie della classe media nel contempo hanno la sensazione, del tutto motivata, che i loro figli vivranno meno bene di loro, tanto la concorrenza dei paesi emergenti incide negativamente sui loro salari.

La mappa delle influenze internazionali


L’America è demoralizzata da tutti questi fattori e non è dunque un caso se Donald Trump è stato eletto. Il suo slogan “America first!” è quello che molti americani volevano sentirsi ripetere ma, per trasformarlo in una politica, era indispensabile allearsi con la Russia prima di aprire le ostilità con la Cina. Donald Trump voleva fare proprio questo, e in questo suo proposito non c’era niente di insensato perché, in un gioco a tre, si deve giocare a due mani. Ma il sospetto di collusioni con Mosca per sconfiggere Hillary Clinton ha assunto ormai proporzioni tali che la Casa Bianca non può più tendere la mano al Cremlino. All’America non resta altro da fare che avvicinarsi alla Cina, alla più forte - non la più debole delle due potenze con le quali deve fare i conti - al paese che minaccia da vicino la sua economia e non a quello che non gli pone nemmeno l’ombra di un problema. L’America, in altri termini, ha i piedi altrui in testa. Si umilia ad abbracciare Xi e lo supplica di indurre la Corea del Nord alla ragione. L’America si è scelta un presidente che la discredita di settimana in settimana. E il peggio è che questo pessimo andamento non dipende dal solo Donald Trump, ma anche da un senso di smarrimento che si percepiva già nel rifiuto di Barack Obama di impegnarsi in Siria.

Editoriale
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E la Russia? Nella domanda è già implicita la risposta. La Russia può annettere la Crimea, può scatenare disordini in Ucraina orientale, può riguadagnare terreno nel Vicino Oriente approfittando della ritirata americana. Può “giocare” a fare la grande potenza, ma non può tornare a esserlo perché è incancrenita dalla corruzione, perché le sue infrastrutture sono fatiscenti e perché il livello della sua economia non supera quello di uno Stato medio dell’Unione europea.

Da un’ottica politica, l’Africa non esiste, l’America Latina nemmeno e l’Unione europea appena un po’. Il destino del mondo è nelle mani di queste tre potenze indecise: Cina, America e Russia. Al di là di questo dato di fatto, però, quali sono le loro politiche? Per quanto riguarda i cinesi, essi approfittano appieno delle disavventure russe di Donald Trump per neutralizzare gli Stati Uniti e continuare a intimidire l’Asia. Di isolotto in isolotto si stanno assicurando il controllo militare di tutto il Mar della Cina. Non hanno fatto e non faranno mai neanche la più piccola concessione commerciale agli americani, che hanno bisogno di loro per la questione della Corea del Nord, e che non possono non essere in buoni rapporti con Pechino perché non lo sono con Mosca. A colpi di sorrisi, senza mai alzare la voce, la Cina si ripropone di farsi sentire in Asia, prima di comportarsi con minore discrezione negli altri continenti in cui, per altro, fa già avanzare le sue pedine acquistando industrie e materie prime.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, non sanno più in quale direzione stanno procedendo, perché i massimi vertici delle sue forze armate e della diplomazia trascorrono la maggior parte del loro tempo a impedire a Donald Trump di fare troppe gaffe. Oggi non esiste una politica americana precisa, ma di sicuro questo presidente ha già fatto a pezzi l’Alleanza atlantica mettendo in dubbio l’automatismo della difesa dei suoi membri da parte degli Stati Uniti e, se l’inchiesta sul Russiagate dovesse risalire fino a lui, potrebbe incorrere nella tentazione di creare un diversivo militare in Corea del Nord o altrove.

L’America è diventata un fattore di instabilità mentre la Russia cerca di rifarsi i muscoli spalleggiando le dittature invise agli Occidentali. Questo è quanto ha fatto in Siria e sta facendo oggi in Turchia, Iran e, ovviamente, in Cina, il paese che desidera avere al suo fianco, quanto meno a seconda dei casi. In questa partita, Vladimir Putin nutre la grande ambizione di condurre i suoi amici iraniani a trovare compromessi con il mondo sunnita, per imporsi come mediatore di pace e consolidare, attorno a Mosca, una Internazionale di regimi autoritari che si potrebbe presentare, al pari di quella comunista del passato, come un’alternativa all’Occidente. Se vi riuscisse, le esportazioni di armi dalla Russia darebbero slancio notevole alla sua economia, la pressione russa si rafforzerebbe alle frontiere delle ex repubbliche sovietiche diventate indipendenti nel 1991, e la tensione tra i due pilastri del continente Europa - Unione europea e Federazione Russa - aumenterebbe considerevolmente.
Siamo usciti ormai dalla stabilità del dopoguerra. Ovunque nel mondo, dall’Asia all’Europa, la guerra si fa strisciante perché la caduta del Muro ha riaperto ovunque i conflitti che la Guerra fredda aveva congelato. Avevamo dimenticato che esistevano due Ucraine, la russa e l’occidentale; che la rivoluzione iraniana annunciava il ritorno della Persia sulla cartina geografica del Medio Oriente; che c’erano due Islam, quello sciita e quello sunnita; che la Catalogna e la Scozia sognavano ancora l’indipendenza; che i curdi non avevano mai rinunciato a un loro stato-nazione; che le frontiere mediorientali erano del tutto artificiali e, dopo la decolonizzazione, erano state mantenute nello status quo dal solo condominio sovietico-americano; che la Cina doveva prendersi una bella rivincita e i mezzi per farlo; o che l’Unione Sovietica era stata solo la continuazione di un impero russo secolare la cui rovina poteva essere stata solo transitoria.

In particolare, avevamo dimenticato che il trionfo della democrazia era dipeso in buona parte dall’unità del mondo libero di fronte al blocco sovietico, e che la scomparsa di quel nemico aveva rimescolato tutte le carte e poteva far chiudere quella parentesi di libertà. Oggi non si parla più di libertà contro il comunismo, ma di dittature contro la libertà. Il rapporto di forze è di gran lunga più incerto e, in questo caos crescente, l’unica speranza concreta è l’unità delle democrazie europee, l’Unione europea, bastione delle libertà, dello Stato di diritto e delle tutele sociali.

A fronte dell’eclissi dell’America, della pressione russa e delle minacce mediorientali, perfino gli europei più scettici iniziano a comprendere che la loro unità è l’unica loro protezione e che devono dotarsi di una Difesa comune e lavorare per redigere trattati di sicurezza e cooperazione con l’Africa e i paesi musulmani. L’Unione esce dal suo torpore, ma occorrerà più di un decennio prima che i progetti militari diventino realtà, e non sarà facile passare da un mercato comune a un’Europa vera potenza e attrice della scena internazionale. Il mondo ha un bisogno urgente di Europa ma, per l’Europa, questa urgenza è una sfida ancora da raccogliere.

Traduzione di Anna Bissanti