Il capo del sindacato degli ambulanti del Cairo conferma in questo colloquio con l'Espresso di non essere pentito per aver denunciato alla polizia il ricercatore italiano. E insiste: "Non sono stati gli agenti egiziani, ma qualcuno di esterno". La verità? "Verrà fuori un giorno, magari quando sarò morto"

Tiene il cellulare spento tutto il giorno. Lo accende solo di notte, per controllare il lungo elenco di chiamate mancate. Quasi tutti giornalisti che lo cercano per fargli domande sul caso Regeni. Mohamed Abdallah, il capo del sindacato indipendente degli ambulanti, non ne vuole parlare. Decide di farlo con l’Espresso.

Risponde a tutte le domande, non mostra nessun pentimento per ciò che ha fatto, non si sente responsabile dell’uccisione di Giulio e si dice disponibile a essere interrogato dagli investigatori italiani. Assolve di nuovo la polizia, questa volta però in modo raccapricciante: «Se fossero stati loro non avrebbero di certo fatto ritrovare il corpo, l’avrebbero sepolto, fatto sparire per sempre».

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Quindi lei non si sente in qualche modo responsabile?
«Responsabile di cosa? Dal mio punto di vista ho semplicemente riportato ciò che ho visto. Lei ad esempio, che si trova in Italia, se dovesse incontrare un egiziano che si informa sulla sicurezza nazionale, non andrebbe ad avvisare la polizia?»

Giulio Regeni è stato però torturato e ucciso.
«Il periodo in cui ho avuto rapporti con lui è stato molto prima rispetto al momento della sua sparizione».

Quand’è stata l’ultima volta che lo ha incontrato?
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Era l’incontro registrato nel video trasmesso dalla televisione?
«Sì, quello era l’ultimo incontro. Poi ho consegnato tutto alla polizia, per servire il mio Paese. Non ho più saputo nulla, né del prima né del dopo»

Il video lo ha registrato dal cellulare?
«Sì, con il mio telefonino».

Gli inquirenti italiani dicono che sia stato fatto da una videocamera professionale nascosta nei suoi abiti.
«Ognuno dice quello che vuole».
Egitto
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Aveva già rapporti con i servizi di sicurezza egiziani in passato?
«No, è stata la prima volta. Regeni era uno straniero che faceva domande che riguardavano più lo spionaggio che la ricerca universitaria. All’inizio l’ho aiutato nel suo lavoro, gli ho fatto conoscere tanta gente per fare le sue ricerche. Ma poi ha cominciato a fare discorsi che non c’entravano nulla con lo studio».

Che discorsi erano?
«Parlava di indagini, golpe, soldi dalla Gran Bretagna e altre cose simili. Anche nel video registrato, ho cercato di farlo parlare dei soldi dell’Inghilterra. Continuava a parlarmi di quei finanziamenti per questo ho voluto filmarlo, inventando la storia della malattia di mia moglie».

Perché nei mesi passati ha sempre negato tutto?
«C’erano della indagini in corso, non potevo parlare. Ho raccontato ciò che sapevo alla procura e anche alla delegazione italiana».

I genitori di Giulio chiedono la verità, lei cosa risponde?
«Che Dio abbia misericordia della sua anima. Ogni vita umana è preziosa. Non meritava ciò che gli è stato fatto. In nessun caso».

Ma questa verità non dice nulla sulla sua morte.
«Mi creda, le tempistiche ci mostrano chiaramente che non sono stati gli egiziani. Il modo in cui è stato ucciso avveniva anni fa con la Sicurezza dello Stato, dopo il 25 gennaio non si registrano più casi del genere. E poi il fatto che il suo cadavere sia stato fatto scoprire quando era presente al Cairo il ministro per lo sviluppo economico italiano. Secondo me, se fossero stati gli Interni lo avrebbero fatto sparire. Non l’avrebbero gettato in mezzo alla strada per denunciare se stessi. C’è qualcuno di esterno che ha fatto questo».

Per rovinare i rapporti tra Italia ed Egitto?
«Assolutamente sì, in quei giorni era presente una delegazione di imprenditori italiani pronti a investire nel nostro Paese. La logica dice che se gli apparati egiziani l’avessero ucciso lo avrebbero seppellito, non avrebbero fatto ritrovare il corpo. Inoltre non è un cittadino egiziano, facile da coprire, ma è un cittadino straniero».

E le centinaia di casi di sparizione forzata?
«Quelli sono egiziani, gli stranieri vengono tutelati e rispettati da tutti. Sia dalla popolazione che dagli apparati di sicurezza»

A settembre si era detto pronto a sacrificarsi per la causa egiziana e per ripristinare i rapporti con l’Italia. Lo conferma?
«E’ vero, ho detto che se si tratta di una soluzione definitiva per chiudere il caso io sono pronto a fare la mia parte. Ma che non siano accuse false nei miei confronti»

In che modo pensa quindi di sacrificarsi?
«Qui ci sono state tantissime accuse da parte dei giornalisti. Hanno riportato cose che io non ho mai detto. Ed è stato fatto sia in Egitto che fuori. Mi hanno accusato di essere un informatore della polizia. Io ho semplicemente visto qualcosa che non quadrava e l’ho detto. Non ho fatto altro di più. Sono convinto di ciò che ho fatto e non ne temo le conseguenze, non penso di aver fatto nulla di male. Ormai non riesco più a lavorare. Mi affido a mio figlio che studia alle superiori e fa anche lui il venditore ambulante. E’ stato costretto ad andare a lavorare in una piazza molto lontana rispetto a quella dove siamo conosciuti, perché tutti continuavano a indicarlo».

E’ disposto a farsi interrogare dagli inquirenti italiani?
«Non ho nessun problema. Da parte mia c’è la massima disponibilità per tutto ciò che è ufficiale. Se arriva da parte loro una richiesta ufficiale io sono pronto a rispondere a tutte le loro domande. Ho sempre evitato i giornalisti perché non riportano fedelmente le mie parole. Quando gli investigatori hanno chiesto i dati del mio cellulare io ho detto alla procura egiziana che non avevo nulla in contrario».

Lo fa per assolvere la polizia?
«Gliel’ho già detto, le tempistiche sono troppo evidenti. Persino gli italiani inizialmente non hanno accusato i servizi egiziani. Sono stati quelli dell’opposizione a farlo: i Fratelli musulmani e i movimenti di protesta».

Allora perché inscenare il depistaggio con l’uccisione dei cinque cittadini egiziani?
«Vuole la verità? Non ho seguito la storia. Quando mi hanno detto che li avevano presi, ho pensato fosse una buona notizia perché appunto non era coinvolta la polizia. Ora dicono che non sono stati loro, ma io non so altro».

Verrà fuori la verità?
«Sì, prima o poi. Domani, fra un anno o magari quando sarò morto».