L’acqua e la luce scarseggiano, ma per l’affitto di una tenda ci vogliono 68 euro al mese. E solo la metà dei ragazzi riesce a frequentare una scuola (Foto di Lorenzo Zoppolato)

V ivo in Libano da tre anni. Il primo l’ho passato in un campo a pochi chilometri da qua. Poi è bruciato. Un enorme fuoco ha raso al suolo tutto: le nostre case, i nostri documenti, i nostri ricordi. Non sappiamo chi è stato… Forse, semplicemente, chi non ci voleva lì...». Safaa è una donna di circa trent’anni, alta, vestita con un lungo abito scuro. Un velo nero, finemente decorato, le copre i capelli, ma lascia il volto scoperto.

Ci parla con uno dei suoi tre figli, il più piccolo, in braccio. Dietro di lei il sole che la illumina; davanti solo la luce dei suoi occhi lucidi. «Siamo scappati da Homs, la città era distrutta. Delle nostre case non è rimasto nulla», ci racconta con la dignità di una ragazza che vive in un campo rifugiati a una manciata di chilometri dalla sua amata Siria, nella periferia di Jdita, un paese della valle della Bekaa.

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Il campo è un piccolo appezzamento di fango e alberi, ricoperto da tende dell’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. L’acqua potabile è poca e viene portata settimanalmente da un’autocisterna del World Food Programme. L’elettricità è statale: poche ore al giorno e poi il buio. Le condizioni igieniche, purtroppo, carenti. Il terreno è di un privato e i siriani che ci vivono devono pagare circa 110.000 lire libanesi (68 euro) al mese per tenda. A noi può sembrare poco, ma per chi vive senza un lavoro e con un sussidio di circa 260.000 lire al mese, quando viene erogato, è un’enormità. Le chiediamo quanti bambini vivano lì, quanti vadano a scuola. Interviene un altro uomo, il responsabile della tendopoli: i piccoli sono circa 60 e di questi 20 vanno a scuola. Cosa si intende per scuola? Sorride: «il massimo che possiamo permetterci è una settimana di istruzione al mese. È in un prefabbricato di legno qua vicino; si tratta di una forma di educazione primaria, non riconosciuta dallo Stato». E gli altri 40 bambini? «Non possono permettersi un’educazione. Le scuole sono lontane e in Libano i trasporti si pagano. Per ogni bambino sarebbero 35.000 lire (circa 21 euro) al mese. Noi non abbiamo soldi».

Mentre continuiamo a camminare, attraverso le strette stradine di terra che dividono le tende l’una dall’altra, una donna ci chiede di seguirla. Hammad, ci dice sorridendo, vuole parlarci. Hammad Mustafa Ibrahim è un uomo di novantadue anni. È disteso all’interno della sua tenda, sui tappeti che fanno da pavimento. Una kefiah rossa e bianca sul capo, i piedi scalzi e una sigaretta tra le mani. Le rughe dell’età, che trasudano esperienza e fatica, gli solcano il viso serio. In mezzo alla stanza solo una stufa a legna per riscaldare l’ambiente e bollire l’acqua per il tè. Mustafà viene da Aleppo, ha raggiunto il campo solo 4 mesi fa, dopo che i bombardamenti russi hanno raso al suolo la sua fattoria. In patria era un contadino, ma la guerra gli ha tolto tutto: la casa e il lavoro. «Chiedete dei bambini? Raccontate come viviamo qua, come vivono i miei nipoti», ci dice con le lacrime agli occhi prima di portare una mano sul viso per nasconderle. «Mio figlio ha 6 bambini: hanno fra i 4 e i 17 anni. Nessuno di loro va a scuola. Non abbiamo soldi e non abbiamo lavoro. Abbiamo solo due speranze: educare i nostri figli e tornare in Siria».

In Libano il lavoro non c’è: l’economia sta provando a riprendersi dopo un lungo periodo di instabilità politica, ma il tasso di disoccupazione è ancora troppo alto. In un campo in cui energia elettrica e acqua sono un bene raro, la scuola diventa un privilegio. E questo non avviene solo qui, a pochi chilometri dalla Siria, ma in tutte le zone rurali e periferiche. Il Paese è uscito nel 1990 da una cruenta guerra civile che per circa 15 anni ha messo contro cristiani e musulmani. Fino al 2005, inoltre, i siriani hanno fatto il bello e il cattivo tempo nella politica e nella vita sociale di questo piccolo lembo di terra mediorientale: entrati militarmente nel 1978, come “forza di dissuasione” della Lega araba, hanno abbandonato il terreno solo nel 2005, dopo una enorme manifestazione di massa che ha portato in piazza oltre un milione di persone. La cosiddetta “rivoluzione dei cedri”.

Lo Stato è confessionale: a ogni fede religiosa è riservato un posto negli uffici dell’apparato burocratico, dall’esercito alle massime cariche istituzionali. Ed è questa suddivisione che, probabilmente, ha portato il Libano ad avere un certo timore dei rifugiati. Fino al 2011, l’anno in cui, per ironia della sorte, migliaia di siriani hanno cominciato a riversarsi qui per scappare dalla guerra che stava distruggendo le loro case. Gli occupanti di prima che tornano a chiedere aiuto nello stesso Paese che hanno controllato per decenni.

Oggi il Libano conta oltre un milione e mezzo di siriani. Che vanno sommati ai circa 300 mila palestinesi che vivono ancora qua. Cifre che farebbero venire il capogiro a qualsiasi euroburocrate. Una bomba a orologeria in uno stato di circa quattro milioni e mezzo di abitanti. Una bomba la cui miccia, probabilmente, si nasconde dietro un altro numero: circa 500 mila siriani sono bambini e ragazzi in età scolare e, secondo le stime di Human Rights Watch, almeno 250 mila non vanno a scuola.

I trasporti non sono l’unico vero problema che divide i bambini siriani dal loro diritto all’educazione. In un Paese in cui l’apparato statale era già di per sé debole, l’afflusso di milioni di rifugiati non ha certo semplificato la situazione.

La decisione più incisiva in campo educativo, la novità introdotta dal ministero per l’Educazione, è il cosiddetto secondo turno e cioè l’apertura delle scuole nel pomeriggio, con ore dedicate esclusivamente agli studenti siriani. Una forma di ghettizzazione? No, una forma di aiuto per tutti quei ragazzi che parlano solo l’arabo. A spiegarcelo è Sonia El Khoury, direttore dell’unità del ministero a cui è stato affidato il programma Race. «Il curriculum scolastico libanese prevede che alcune materie scientifiche siano insegnate in inglese o francese. Era una delle barriere che rendevano impossibile l’accesso al sistema educativo nazionale dei siriani, abituati ad ascoltare lezioni solo in arabo. Per questo motivo, ai figli di rifugiati che conoscono l’inglese o il francese è permesso di andare a scuola normalmente, la mattina, mentre tutti gli altri fanno il secondo turno». Parlando con Sonia, però, la mente torna al campo rifugiati nella Bekaa «Stiamo cercando di fare del nostro meglio, ma il problema più grande rimane quello dei trasporti. Le nostre infrastrutture non erano preparate ad un afflusso del genere».

In tutto questo, nonostante il difficile rapporto tra libanesi e siriani, la società civile come ha reagito? Ahmad Einen, giovane responsabile dei programmi per l’educazione di Amel, organizzazione no profit che l’anno scorso è stata candidata al premio Nobel per la pace, ci racconta quello che fanno mentre ci rechiamo in uno dei più grandi centri culturali dell’associazione. Un edificio a più piani nel cuore della zona sud di Beirut, l’area della città sconsigliata agli stranieri perché, ufficiosamente, presidiata più dalle milizie di Hezbollah che dall’esercito regolare. Un edificio pieno di aule e sale ricreative, dove a risuonare sono solo le voci dei bambini e delle loro maestre. «Da qualche anno stiamo realizzando numerosi progetti in quasi tutte le regioni del Libano per lavorare attivamente in quell’ambito che viene denominato “educazione non formale” e cioè tutto quello che può aiutare gli studenti nello studio ma che non rientra nel percorso che porta al diploma: supporto nei compiti per casa, classi di lingua straniera per migliorare inglese e francese, classi di riparazione per chi non ha superato l’anno scolastico». Anche in questo caso, però, lo sforzo non è concentrato esclusivamente sui siriani, ma su tutte le fasce più vulnerabili della popolazione. I numeri sono ancora troppo bassi, ma l’impegno è evidente: Amel sta lavorando, a oggi, con circa 250 bambini a Beirut, 350 nella regione del Monte Libano, 800 nel Sud.

Ma quali sono i rischi concreti per tutti i ragazzi che non vanno a scuola? Alcune risposte le ha già date l’anno scorso una delle più prestigiose università della capitale, la Saint-Joseph University of Beirut. In uno studio sul diritto all’educazione dei rifugiati siriani, Carole Alsharabati, Carine Lahoud e Jihad Nammour parlano di un «circolo vizioso che porta i bambini che non possono andare a scuola ad un’unica conseguenza: finire nel tunnel dello sfruttamento minorile, dei matrimoni infantili, del pessimismo e del radicalismo». Sono questi i figli della guerra in Siria: migliaia di ragazzi sparsi tra Libano, Giordania e Turchia che se non andranno a scuola non potranno che continuare a distruggere il loro futuro. Che diverrà il nostro sporco passato. Perché se non penseremo noi a loro, chi mai ci potrà pensare? È questo il peso che deve portare sulle spalle chi nasce in Occidente e non ha la lucidità di guardare fuori dal suo giardino. Almeno fino a quando anch’esso non diventa pericoloso.