La furbizia di Theresa May: trasformare il caos della Brexit in strategia politica

La convocazione di elezioni anticipate è stata la mossa del felino che attacca e non lascia via di scampo. Consapevole di trovarsi al posto giusto nel momento giusto per ottenere un potere incontestato con cui ridisegnare confini e ossatura della Gran Bretagna di domani

Theresa May
La premier britannica Theresa May sta imparando velocemente a mostrare il carattere di ferro sotto i tailleur di lana e sopra le sue amate scarpe leopardate con il tacco a spillo, quelle con le quali, lei stessa ha sentenziato, pensa meglio. Mai frase fu più vera. La convocazione di elezioni anticipate il prossimo 8 giugno - ovvero a solo sei settimane dall’annuncio - è stata la mossa del felino che attacca e non lascia via di scampo.

Dopo aver negato per mesi l’eventualità che potessero aver luogo, May ha colto gli avversari politici alla sprovvista facendo testa coda, non a caso, in un momento di loro infinita debolezza. A stare ai sondaggi pasquali, il Labour di Jeremy Corbyn ad oggi non raccoglierebbe più del 25 per cento dei voti nazionali contro il 46 per cento dei Tories, come si era peraltro capito dal risultato di alcune recenti elezioni locali dove i conservatori hanno vinto per la prima volta dal 1931. «Sarà la scelta tra una leadership stabile e forte con me come primo ministro o una debole coalizione di governo» tra i laburisti, i libdem di Tim Farron e l’indipendentista Nicola Sturgeon, ha detto ai cronisti lapidaria. Solo pochi mesi fa, durante una seduta parlamentare, con la veemenza di una tigre, indicando il canuto Corbyn, dopo che questi aveva preso la parola criticando l’invito di Stato esteso al presidente Usa Donald Trump, aveva ringhiato: «Lui può guidare una protesta». Pausa stracolma di orgoglio. «Io guido un Paese».

Da «donna terribilmente difficile», così la definì il conservatore Kenneth Clarke, dunque determinata, sa benissimo di trovarsi al posto giusto nel momento giusto per ottenere un potere incontestato con cui ridisegnare confini e ossatura della Gran Bretagna di domani. Un Paese nuovamente libero di intrattenere rapporti commerciali bilaterali secondo i propri termini. Di decidere chi fare entrare e a quali condizioni. Di ricostruire la sua classe dirigente (e qui l’Europa non c’entra), restituendo primato a valori conservatori come il merito intellettuale. Anche a costo di sacrificare un ampio sostegno a chi non ha né meriti né denari, come lei stessa ha detto con cinica lucidità: «Tanto le differenze ci saranno sempre. Meglio se di merito che di denaro».

May non intende perdere questa occasione offerta dalla Storia. Ma per farlo vuole pieno mandato. Quel mandato che viene dalle urne e che consacra tale una leader di fronte alla fazione riottosa dei suoi compagni di partito e, soprattutto, di fronte alla Nazione e al Mondo. Tale investitura è tanto più cruciale ora che è determinata a condurre la sua Isola tra le rapide della Brexit, la fuoriuscita dall’Unione europea.

«Non ci deve essere nessun tentativo di rimanere nell’Unione europea o di entrarvi nuovamente dalla porta posteriore», è la sua posizione da quando ha assunto il timone della Nave. Ma è complicato mantenerla avendo contro metà Paese. Per non parlare poi del “risentimento-a-27” degli europei, ancora increduli di come uno dei pilastri d’Europa possa essersi arreso a una manciata di populisti dell’ultima ora tra recriminazioni e caos sociale. Certo, la May ha scaricato la responsabilità di queste elezioni all’opposizione e alla Camera dei Lord, colpevoli di non seguirla sulla via del distacco (eppure è noto che Corbyn ha votato a favore del famoso articolo 50). In realtà sa bene che è il Paese, soprattutto quello dei pezzi da novanta, a non essere convinto della bontà di uscire dall’Europa. Se dovessero insorgere intoppi nelle negoziazioni o, peggio, una crisi economica, lei sarebbe la prima a perdere il posto. E allora perché non buttare il cuore oltre l’ostacolo e approfittare sia di questo periodo in cui “i 27” stanno approvando le loro condizioni per la Brexit sia dei sondaggi favorevoli per farselo dare dagli elettori quel mandato irrevocabile a cambiare il destino della Gran Bretagna?

Ma non è tutto. Dovesse stravincere, come pare scontato oggi, il vero capolavoro politico della tigre May sarà quello di avere trasformato la situazione di caos nata dalla rabbia e dall’insoddisfazione del popolo in chiara strategia politica, condivisa dall’establishment e appoggiata a maggioranza dai sudditi di Sua Maestà. La vittoria dei Tories sarà soprattutto quella della linea dura sulla Brexit. E poi la vittoria di un premier che ha sublimato malumore sociale in direzione politica, partendo dalla ricetta buttata lì senza progetto reale da chi era alla ricerca di notorietà sfruttando il disagio delle classi meno abbienti per dare direzione e scopo (giusto o sbagliato che sia) ad un intero Paese. L’Ukip - i populisti contro l’Europa - hanno vinto ma nel farlo si sono suicidati. Theresa May ha deciso di raccoglierne l’urlo di battaglia e di farne inno nazionale, secondo ogni crisma. Certo, è pur sempre una scommessa. Il campo del “restare” si sta facendo inevitabilmente partito e tenterà il tutto per tutto. Ma non esiste nella Storia un o una statista che non abbia dimotrato di saper vincere la propria partita a poker.

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