Sull’isola greca 6 mila migranti vivono in condizioni disperate. I container per 5 persone ne ospitano anche 25. Tra i più giovani sono in aumento l’autolesionismo e i tentati suicidi. Sono i dimenticati di Bruxelles (Foto di Alessio Romenzi)

L’Europa si è 
fermata a Lesbo

Greece, Lesvos: Un migrante bengalese si lava tra i cespugli grazie a un tubo messo a disposizione da un agricoltore locale. Alessio Romenzi
Mohammed stringe tra le mani una torcia mentre cammina al buio tra gli alberi di ulivo. Ha trent’anni, il volto scavato, lo sguardo disilluso.È scappato da Daraa, città siriana al confine con la Giordania. A Daraa, la città da cui è partita la rivoluzione nel 2011, Mohammed faceva l’insegnante, la sua famiglia ha lottato contro il regime e «oggi», dice, «chi di noi non è morto, torturato nelle prigioni di Assad, è scappato via, come me».

È notte e Mohammed cammina attento a non calpestare resti di escrementi intorno ai cespugli, nella collina antistante all’hotspot di Moria, sull’isola di Lesbo. All’interno del campo - che ospita quasi seimila persone a fronte di una capienza di poco più di duemila - c’è un bagno ogni centocinquanta persone. E una doccia ogni trecento. Ma sono numeri del tutto teorici, perché spesso i bagni e le docce sono inutilizzabili. L’acqua potabile non arriva, nessuno spurga le latrine, così i cespugli diventano l’unica alternativa.
Greece, Lesvos: Bambino siriano nel campo non ufficiale chiamato Olive Grow antistante il campo di Moria. Alessio Romenzi

Uomini che vivono come animali sul confine invisibile d’Europa. Nell’hotspot (centro d’identificazione e registrazione per i migranti irregolari) di Moria sono trattenuti i richiedenti asilo che arrivano sull’isola dopo l’entrata in vigore dell’accordo siglato nel marzo 2016 tra Ue e Turchia. L’accordo prevede che chiunque arrivi in Grecia dalla Turchia senza avere chiari requisiti di asilo debba essere espulso, riportato in Turchia o deportato nei paesi di origine.

Dal punto di vista numerico la strategia europea ha funzionato: a Lesbo lo scorso anno è arrivata una media di 2.500 persone al mese, molto meno rispetto ai 10 mila arrivati in un solo giorno nel pieno della crisi dell’autunno 2015.

Ma le persone arrivate sulle isole greche di Chios, Leros, Samos e Kos - oltre a Lesbo ovviamente - si trovano ora intrappolate, bloccate dalla lentezza e dalla complessità di una procedura di richiesta di asilo che li condanna a non poter lasciare l’isola finché le pratiche non siano state elaborate.

Ma questa elaborazione può durare mesi, anche anni. Mesi, anni, in cui la vita di migliaia di persone resta sospesa in attesa di una valutazione, spesso arbitraria, in un’isola diventata suo malgrado frontiera d’Europa.
L’esternalizzazione dei confini verso la Turchia ha avuto due costi, uno economico, materiale - un accordo da tre miliardi di euro a favore di Ankara per ostacolare l’arrivo dei migranti - e uno umanitario.
Greece, Lesvos: Tende nel campo non ufficiale chiamato Olive Grow adiacente al campo di Moria. Alessio Romenzi

Se è vero infatti che gli sbarchi sono diminuiti è altrettanto vero che la guardia costiera turca che intercetta e porta indietro chi parte dalle coste di Izmir è stata ripetutamente accusata di violare le acque internazionali e maltrattare i migranti ed è soprattutto vero che le condizioni di vita nel campo di Moria sono insostenibili.
La struttura dove sorge l’hotspot era una base militare, riadattata a campo di ricezione. Si sviluppa in verticale, diviso su gradoni, su ogni piano ci sono decine di container. Pensati per ospitare una famiglia, cinque o sei persone al massimo e per poco tempo. Molti invece ospitano fino a venticinque persone e per mesi. 

Per accedere al campo è necessario attraversare grandi cancellate chiuse a chiave da lucchetti, controllate da poliziotti e operatori che lavorano all’interno e che registrano le entrate e le uscite, come in carcere.
Greece, Lesvos: Giubbetto salvagente usato dai migranti e abbandonato sulla costa settentrionale dell'isola di Lesvos. Alessio Romenzi

Il campo è circondato per tutta la sua estensione da una recinzione di filo spinato, che a differenza dei servizi igienici viene costantemente rafforzata. Tranne quando sull’isola arrivano le star: nel 2016, Angelina Jolie, testimonial delle Nazioni Unite, visitò il campo e la direzione fece rimuovere il filo spinato, per montarlo di nuovo, potenziato, il giorno successivo.

Quando cala il buio Mohammed si siede intorno al fuoco con altri siriani, alcuni bambini recuperano plastica da bruciare dove possono, le donne sono nelle tende con i neonati, alcuni di loro nati a Moria.

Yaseer e Mahmoud sono scappati da Deir Ezzor pochi mesi fa, scaldano sul fuoco l’acqua per il tè con i loro figli, un gesto semplice che prova a restituire un’apparenza di normalità. Vivono in tende estive in un campo all’esterno dell’hotspot dove non ci sono bagni, non c’è elettricità, non c’è niente per scaldarsi.
La settimana scorsa è piovuto per due giorni, l’acqua ha bagnato le poche coperte che avevano, ma gli operatori del campo non hanno ancora provveduto a portarne altre, asciutte.

La moglie di Yaseer è incinta di cinque mesi eppure la famiglia preferisce vivere al freddo all’esterno di Moria: «È più dignitoso», dice Yaseer, «ogni notte nel campo ci sono risse, i più giovani sono esasperati e sfogano la rabbia con la violenza, e per le donne e i bambini è molto pericoloso vivere lì. Ci avevano assegnato posti letto in un container lontano dai bagni e di notte non dormivamo per paura che qualcuno potesse aggredire mia moglie e i miei figli. Non ci sentivamo sicuri neppure di portare nostro figlio a fare pipì».
Quando cala la sera i bagni (chiusi solo da corde o più spesso semplicemente aperti) sono zone interdette a donne e bambini, anche lavarsi può diventare pericoloso. Ci sono donne sole nel campo che non si lavano per settimane per paura di essere aggredite.

Recentemente le Nazioni Unite e Human Right Watch hanno denunciato numerosi casi di abusi e molestie sessuali nei campi di Moria e Vati (a Samos): nel 2017, l’Unhcr ha raccolto le testimonianze di 622 persone sopravvissute a violenza sessuale, il 28 per cento di loro ha dichiarato di aver subito abusi dopo l’arrivo in Grecia, nei centri di ricezione.

«Quando mia moglie e mio figlio vogliono lavarsi scaldo l’acqua sul fuoco, la metto nelle bottiglie e li accompagno nei campi qui intorno. Ma è freddo, l’inverno può essere molto difficile qui. L’altro giorno il mio bambino batteva i denti e tremava mentre cercavamo di lavargli i capelli. Lo guardavo e mi sono chiesto cosa avesse fatto di male per essere trattato come una bestia dopo essere scappato dalla guerra», racconta Yasser.
Lo scorso inverno cinque persone sono morte di freddo a Moria, per evitare morti anche quest’anno, le autorità greche a gennaio hanno trasferito sulla terraferma 1370 persone, per cercare di alleggerire la pressione sul campo. Tuttavia non ci sono progetti per miglioramenti strutturali dei centri e gli sbarchi continuano: sulle coste settentrionali dell’isola ci sono resti di salvagente e gommoni e barche di legno incagliate agli scogli.
Il sindaco di Lesbo, Spyros Galinos, accusa il governo di Atene di non voler decongestionare l’isola: «Siamo assolutamente contrari a politiche che trasformano Lesbo in un campo di concentramento dove la dignità umana viene negata», dice.

Hamza ha 23 anni, è scappato dall’Iraq. La sua famiglia è stata perseguitata dalle milizie sciite durante la guerra civile del 2006. Di suo padre e suo zio si sono perse le tracce. Rapiti, forse uccisi. Hamza è nel campo di Moria da otto mesi. La sua richiesta di asilo è stata rigettata due volte. Il suo corpo porta i segni dei tagli che si è procurato nell’estremo tentativo di manifestare la propria disperazione.
L’autolesionismo è sempre più diffuso tra i giovani, spesso soli che vivono a Moria, procurarsi dei tagli, mostrare il proprio sangue è diventata la modalità di dare voce alla frustrazione. Alla paura. Paura per i traumi delle guerre da cui si fugge, paura delle condizioni di vita del campo, paura di non ricevere cibo perché non ce n’è per tutti e dopo due ore di coda in attesa per un piatto di riso e un tozzo di pane si rischia di rimanere a mani vuote, paura di contrarre malattie, la scabbia, i pidocchi, la diarrea causata dal cibo, spesso scaduto. Paura del freddo e della pioggia. Paura di un futuro appeso a colloqui affidati a giovanissimi funzionari greci, in uffici affollati, senza avvocati e talvolta senza traduttori. Paura che le cose non cambieranno mai in meglio.
Hamza non dorme, teme di essere confinato nella struttura detentiva di Moria. Per chi ha ricevuto due dinieghi, infatti, si aprono le porte del carcere nel carcere. Anche per i minorenni: in Grecia la legge prevede che i minori possano essere detenuti in regime amministrativo massimo per 25 giorni in attesa di una collocazione adeguata, ma nella sezione detentiva di Moria i minorenni possono essere trattenuti per mesi. Senza essere colpevoli di nulla.
«Ti addormenti e non sai se il giorno dopo sarai deportato, le selezioni sono un salto nel buio, i colloqui durano 40 minuti, di fronte a ragazzi di vent’anni che non sanno niente di guerra e dolore ma che hanno il potere di decidere il tuo futuro», dice Hamza. «Quello che è difficile non è tanto dormire al freddo all’aperto, non potersi lavare per settimane, sapendo che la decisione sul nostro futuro è affidata al caso. Prima di arrivare qui l’Europa per me significava il rispetto dei diritti umani. Non pensavo che sarebbe stato facile, certo, ma pensavo che l’Europa fosse il luogo del rispetto. Mi sono detto: sarà dura ricominciare da zero, ma almeno sarò rispettato. Invece sono qui trattato peggio di un maiale. E di notte, quando non dormo, mi chiedo solo perché. Ma non trovo risposte».
Nell’ufficio per le richieste di asilo di Lesbo lavorano 37 funzionari greci e cento assistenti forniti dall’Ue. Esaminano quasi 400 richieste a settimana e dovrebbero svolgere 150 interviste ogni sette giorni. Ma gli sbarchi continuano e gli uffici non sono in grado di elaborare le richieste. Così i richiedenti asilo trascorrono le loro giornate in una estenuante attesa, spesso aspettano ore nel giorno stabilito per la loro intervista, per sentirsi dire che è stata riprogrammata. Tre mesi dopo.
Moria, progettata come centro di registrazione e transito, è diventata un luogo di confinamento e miseria, un luogo in cui le politiche di contenimento europee hanno una sola parola d’ordine: deterrenza. Non venire qui - sembra suggerire questa Europa a chi fugge - o sarai confinato per un tempo indefinito in un campo invivibile su un’isola greca.

Sul muro antistante il campo qualcuno ha scritto “Benvenuti in prigione”. Oumar cammina lì davanti, tiene per mano suo figlio, Mahmoud che ha dodici anni, lo accompagna a parlare con una psicologa, nella clinica di fronte al campo.

Mahmoud ha tentato due volte di togliersi la vita, l’ultima cercando di impiccarsi. «Ci sentiamo intrappolati e io, da padre, non so come spiegare a mio figlio questa mancanza di umanità. Era più facile spiegare la ferocia dell’Isis che questa mancanza di pietà, qui in Europa. Non trovo le parole, perché io stesso non capisco», dice Oumar, scappato da Mosul, mentre cammina lasciandosi alle spalle il filo spinato.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Le guerre di Bibi - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 20 giugno, è disponibile in edicola e in app