«Noi vedove dell'Isis, siamo odiate e prigioniere. Ma non ci pentiamo di nulla»
Viaggio nei campi profughi dove già crescono i semi delle guerre di domani. Tra bambini isolati, stigmatizzati e madri radicalizzate che si sono sostituite ai padri morti nell’educazione dei figli. Una bomba a orologeria che rischia di animare una spirale di odio e vendetta (Foto di Alessio Romenzi)
Quando Asma è riuscita a scappare dalla città vecchia di Mosul era quasi sera, intorno a lei, a poche centinaia di metri, si combatteva ancora. La luce del tramonto illuminava quello che resta del minareto Al-Habda, il minareto inclinato che di Mosul è stato il simbolo e che oggi è l’ennesimo segno della foga distruttiva dei miliziani di Al Baghdadi che l’hanno fatto saltare in aria per non farlo riconquistare intatto all’esercito iraqeno.
Asma tenava per mano due dei suoi cinque figli: il più grande di nove anni trascinava il più piccolo uno e mezzo in una cassetta di plastica, il piccolo piangeva disperatamente per la fame. Asma non aveva nulla con sé. Il corpo del bambino sporco e coperto di bolle, di graffi e di ferite, gli abiti strappati e maleodoranti erano i segni delle settimane di assedio.
Asma è stata una delle ultime donne a scappare dalla città vecchia di Mosul, ma a differenza delle altre non aveva il passo veloce di chi vuole arrivare il più in fretta possibile in un luogo sicuro. Camminava lentamente, senza sottrarsi alle domande dei soldati, tra le urla dei suoi figli, urla di fame, e urla della paura di morire che non li aveva ancora abbandonati.
Asma non ha nascosto la sua identità. Era la moglie di un miliziano dell’ Isis, sapeva che sebbene fosse uscita viva da Mosul, la sua vita sarebbe stata tutt’altro che facile. “Ditemi solo dove devo arrivare per avere qualcosa da mangiare” cheideva ai soldati, mentre provava a fermare i blindati dell’esercito che le passavano davanti, uno, due, dieci: “è una donna di Isis, che cammini se vuole salvarsi, noi non la aiutiamo.”
Asma e suo marito venivano da Kirkuk, città a circa centocinquanta chilometri da Mosul. “Mio marito era un insegnante di inglese – comincia a raccontare Asma – l’ho conosciuto quando ero bambina, è sempre stato un bravo ragazzo. Desiderava studiare, e desiderava insegnare. Trascorreva intere giornate sui libri e aveva grandi aspettative anche per i nostri bambini. Voleva che i nostri figli potessero essere persone colte.”
Ma i soldi per Asma e suo marito non bastavano mai “E’ cambiato velocemente. Il suo non è stato un cambiamento graduale, non aveva nulla di religioso o ideologico, non pregava neppure regolarmente, Hassan aveva solo bisogno di denaro, e quando gli hanno proposto di trasferirsi qui, e soprattutto gli hanno proposto una paga fissa, non ha avuto esitazioni. Mi ha detto: Asma tra un mese ci trasferiamo a Mosul con i bambini. E così abbiamo fatto. Era il 2014.”
Asma non conosceva gli uomini con cui suo marito trascorreva le serate e le nottate, gli uomini per cui traduceva accuratamente filmati e libri e opuscoli “I nostri primi mesi di vita a Mosul sembravano sereni, Hassan mi diceva che il Califfato era un progetto che ci avrebbe dato stabilità.”
Ma la vita di Asma è cambiata, le rigide regole del Califfato sono arrivate anche in casa loro, a scandire le giornate: i due figli più grandi sono stati costretti a frequentare le scuole dell’Isis. Il più grande dei suoi figli avrebbe dovuto essere un futuro combattente “dicevano questo ai ragazzi, dicevano che noi eravamo famiglie elette perché avevamo il compito di generare i soldati del futuro, di educare alla lotta il maggior numero di bambini.”
Asma in pochi anni è stata così costretta a trasformarsi in una donna dell’Isis, nella madre dei futuri martiri, una donna che aveva il compito, insieme alle altre mogli del Califfato, di generare e crescere la nuova generazione di Jihadisti.
“Dicevano che questo ci avrebbe reso grandi agli occhi di Allah.” Hassan, suo marito, è morto combattendo a Mosul, come migliaia di altri miliziani del Califfato. Dopo la sua morte Asma si è spostata casa per casa con gli altri combattenti di Isis, non sapeva come scappare, voleva solo sfamare i suoi figli e – durante la guerra – gli unici ad avere cibo erano i miliziani. Poi il cibo è finito anche per loro, lei era sola, senza marito e le altre donne poco generose. Così si è nascosta tra i civili e ha provato a scappare.
Oggi Asma è una delle migliaia di donne – le spose, le vedove di Isis – che vivono nei campi profughi del Kurdistan Iraqeno. Una delle migliaia di donne, di fatto detenute in campi da cui né loro né i propri figli possono uscire. Prigioni a cielo aperto. Come il campo – sterminato – al Jadah.
Il campo di Al Jadda, a sud di Mosul è una distesa di tende coperte di sabbia, sono migliaia, migliaia di tende ocra sull’ocra della terra, torrida, dell’Iraq. Il campo è circondato dalla rete e dal filo spinato. Intorno alle recinzioni, le bandiere verdi della milizia sciita Hashd al Sha’abi, l’ennesimo segno per tutta la comunità sunnita all’interno dei campi, che il presente è segnato dalla rabbia, dalle ritorsioni e dalla vendetta, e il futuro non sarà migliore. Nel campo di Al Jaddha c’è una sezione, l’area DD, riservata alle famiglie dei miliziani di Isis. Tutti lo sanno, le tende sono segnate da una croce e numerate. Sono 70, forze 100 tende, forse più. Nessuno dà indicazioni precise. Dentro, donne, bambini e ragazzi. Gli uomini sono tutti morti combattendo. Gli uomini erano tutti miliziani del Califfo. Queste donne e questi bambini non escono mai dalla loro tende, l’atmosfera è tetra e irreale. Sembrano centinaia di fantasmi, camminando lungo i viali sabbiosi del campo è possibile sentire le loro voci, vedere le sagome dei loro corpi nascosti nelle tende, ma è molto difficile vedere i loro volti. Sono gli ultimi arrivati, quasi tutti sono scappati dalla città vecchia durante i giornifinali della guerra, molti di loro sono feriti. I bambini portano addosso ferite profonde, qualcuno ha perso gambe e braccia. Qualcuno ha perso gli occhi. Giacciono sdraiati sulla plastica, circondati dalle mosche, mentre le madri e le sorelle si prendono cura di loro.
Noor ha sedici anni, è in una delle tende della sezione DD, con sua madre e i fratelli che le restano. Noor nonostante la sua giovane erà è una vedova di Isis, suo marito, un miliziano ventunenne che aveva sposato dieci mesi fa, è rimasto ucciso da un bombardamento. Quando parla di lui, il viso di Noor si illumina, le sue parole sono piene di orgoglio. Piene di ammirazione. “Avevamo una vita bellissima a Mosul, ed eravamo generosi con tutti – dice Noor, tenendo in braccio due dei fratelli minori, e negando con forza ogni violenza attribuita a Isis – oggi siamo tornati dei miserabili. Siamo costretti a vivere vicini a persone che ci odiano.” Sua madre e sua zia hanno il volto coperto dal niqab. Sua zia Samah ha perso otto degli undici figli. Prima ancora che cominci a parlare le lacrime le coprono il viso.
“Prima del 2014 eravamo una minoranza sottomessa, abbiamo solo cercato di vivere meglio e oggi non solo abbiamo perso i nostri uomini, la nostra terra, le nostre case, ma abbiamo anche perso la possibilità di far crescere i nostri figli senza essere odiati. Per tutti noi – dice indicando i tre figli sopravvissuti – sarebbe stato meglio morire a Mosul. Sì, anche per i bambini. Qui non ci danno l’acqua potabile, non ci danno niente da mangiare. Quando mi metto in fila per la distribuzione del cibo e i funzionari si rendono conto che vengo dalla sezione DD, mi sputano. Stamattina un uomo che era in coda vicino a me mi ha riconosciuto, ha capito che ero di Isis e ha cominciato a urlare che sono una sgualdrina e ha dato un calcio a mio figlio e nessuno glielo ha impedito. Nessuno lo ha fermato.”
Samah, Noor e le altre donne di Isis trascorrono le giornate nelle tende, si proteggono dagli insulti, dalla rabbia, dal desiderio di vendetta.
Sanno di essere circondate dai civili di Mosul che oggi sono animati sono da un profondo risentimento. Per questo, non lasciano mai le proprie tende. Perché nelle tende vicine ci sono le vittime di Isis, le vittime della violenza dei loro figli e dei loro mariti. Famiglie intere che hanno perso le proprie case, madri che hanno perso i propri figli sotto i bombardamenti, padri che hanno visto i figli costretti a impugnare le armi da ragazzini e combattere in nome di una folle interpretazione della religione.
I ragazzi iraqeni che lavorano nel campo si mostrano preoccupati per le tensioni tra i civili e le famiglie dei miliziani “la gente ha bisogno di protezione – dice Husain, nel suo ufficio all’entrata, circondato da decine di persone che sotto i quasi cinquanta gradi della lunga estate iraqena, aspettano di ricevere una medicina, un pacco di farina, un po’ d’acqua – isoliamo le famiglie di Isis per la loro sicurezza, non per emarginarle. Nessuno li maltratta.”
Un funzionario iracheno, addetto alla sicurezza di Al Jadah,, aggiunge che le famiglie di Isis "vengono esaminate e interrogate nel campo, alcuni di loro potrebbero essere collaboratori, potrebbero nascondere informazioni preziose per trovare le cellule dormienti che sappiamo essersi spostate nei villaggi intorno Mosul e anche a Mosul est. Queste persone hanno vissuto sotto l'ISIS per tre anni, nessuna di queste famiglie è completamente innocente, ma siamo attenti alla loro incolumità, qui, a Al Jadah.”
Eppure le parole all’interno delle tende di Isis raccontano una realtà diversa. Le donne hanno paura, davanti ai funzionari del campo si mostrano reverenziali, non si lamentano, non protestano. Sembrano accettare passivamente anche di essere chiusi a chiave nelle tende. Scarne, prive anche dei beni primari.
Quando restiamo solo con Halaa e le altri donne, senza il controllo dei dirigenti del campo, nella sua tenda non c’è nulla, se non un cumulo di materassi sporchi, su cui la sera dormono in otto.
“Sì, sono di Isis” sono le prime parole di Halaa che non rinnega nulla del suo recente passato. Suo marito era un medico e lavorava in un ospedale a Mosul. “Quando Isis è arrivato tutta la mia famiglia si è unita a loro, tutti noi, con convinzione, uomini e donne. Per noi era una semplice applicazione della nostra religione, nessuno mi ha forzato a coprirmi il volto e il corpo. Nessuno mi ha costretto ad assumere comportamenti che non avrei assunto spontaneamente. Quello che era Haram (vietato, ndr) sotto Isis lo era anche prima per noi. Era vietato fumare, e per le donne era vietato camminare sole. L’arrivo di Isis a Mosul per noi ha significato avere una vita dignitosa. Volevamo vivere in sicurezza, secondo le regole del Corano. E così è stato.”
Mentre ricorda i tre anni sotto Isis, Halaa piange, dietro il velo nero.
Le sue mani non sono le mani di una donna costretta a lavorare, le sue mani e il suo volto raccontano una vita benestante, agiata. Suo marito e suo cognato, il marito di Samah, avevano probabilmente ruoli apicali della gerarchia del potere di Isis. Le donne negano ogni abuso, quando chiediamo loro dello sterminio e delle violenze sulle donne yazide, singhiozzano.
“Erano gli stranieri di Isis – dicono – hanno bussato alla porta dei nostri uomini per regalare le schiave. Volevano lasciarci queste ragazze yazide. Ma noi abbiamo rifiutato.”
Si stringono le mani, abbassano lo sguardo. Difficile dire se stiano mentendo.
“Anche io sono una madre che piange i propri figli – continua Halaa - sì siamo una famiglia di Isis, lo siamo ancora, ma anche noi stiamo soffrendo, io non posso usare il telefono, non so cosa sia successo al resto della mia famiglia, non ho un posto dove piangere i miei cari, i bombardamenti americani hanno distrutto tutto. Il corpo di mio figlio è sotto le macerie, con centinaia di altri corpi. Con i corpi dei nostri martiri.”
Halaa, Samah, Noor e le altre donne di Isis non mostrano pentimenti. Non mostrano rimorsi. Sentono che non hanno nulla di cui ravvedersi.
Trascorrono le proprie giornate cercando di schivare gli insulti di altri iraqeni come loro, trascorrono le giornate parlando ai loro figli sopravvissuti delle ingiustizie subite, dei padri e dei fratelli martiri. Trascorrono le giornate alimentando l’ideologia che le ha portate nel campo di al Jadha. Un campo in cui non ci sono ancora scuole, né progetti di deradicalizzazione, e di reinserimento. “Sono sicura che i miei figli saranno maltrattati – dice Halaa - saranno per sempre e per tutti ‘i figli di Isis’. Anche se sono bambini come gli altri.”
Nel campo non c’è un progetto di assistenza, per donne e bambini che per più di tre anni hanno vissuto a contatto con violenza e estremismo, né un supporto psicologico. I bambini di Isis dovranno frequentare la piccola tenda adibita a scuola con gli altri bambini, che già li emarginano. Bambini che hanno perso tutto, insieme a bambini già stigmatizzati.
Una ragazzina bionda cammina sulla sabbia tra le tende della sezione DD, la sezione di Isis, è scalza. Racconta che suo padre e suo fratello siano stati uccisi dai miliziani del Califfo. Indica le tende delle famiglie di Isis “Mia madre mi ha detto di non passare qui davanti, di non parlare con loro e di non giocare con questi bambini. Loro sono tutti diavoli. Questi bambini sono diavoli.”
Eccolo l’Iraq del dopoguerra, nei campi profughi dove già crescono i semi delle guerre di domani. Tra bambini isolati, stigmatizzati e madri radicalizzate che si sono sostituite ai padri morti nell’educazione dei figli. Una bomba a orologeria che rischia di animare una spirale di odio e vendetta.