La risoluzione dell’acerrima querelle con la Grecia sul nome eliminerà l’unico ostacolo all’ingresso della Fyrom in queste istituzioni internazionali, in sospeso da 13 anni a causa del veto di Atene. Il timore greco era che il riconoscimento internazionale dell’appellativo “Macedonia” potesse gettare le basi per future pretese da parte di Skopje sulla regione macedone greca, ambita non solo per ragioni storiche ma anche per il prezioso sbocco sul mare. «Nei loro libri scolastici si dice che la Macedonia è uno stato dotato di litorale», spiegava qualche giorno fa Thanos Verenis, storico dell’Università di Atene: «Ma la Fyrom il litorale non ce l’ha. La Macedonia greca invece sì. La nostra opposizione a Skopje non è solo per il un nome ma soprattutto per la salvaguardia dei nostri confini».

Poi però si è arrivati a un accordo tra i due Paesi, anche grazie al premier macedone Zoran Zaev che negli ultimi mesi ha fatto di tutto per rassicurare Atene. Una lunga e amichevole telefonata con il leader greco Alexis Tsipras, l’11 giugno scorso, ha velocizzato la ricerca di una soluzione. E il giorno dopo è arrivato l’annuncio: il Paese non si chiamerà “Macedonia”, appellativo che la Grecia reclama per la sua provincia settentrionale, ma “Repubblica della Macedonia del Nord”, formula che alla fine ha prevalso sulle altre due ipotesi in campo, cioè Macedonia Alta e Nuova Macedonia. Su richiesta di Tsipras, Skopje dovrà anche cancellare gli articoli costituzionali che hanno connotazioni irredentiste e accettare che il nome scelto abbia valenza erga omnes, ovvero dentro e fuori i confini nazionali.
Anche con la Bulgaria ora le cose vanno meglio. Sofia ha sempre considerato la lingua macedone un dialetto di quella bulgara e non ha mai riconosciuto l’indipendenza della Chiesa ortodossa di Macedonia; così nel 2012 si era unita ad Atene sul veto all’entrata di Skopje nell’Unione. Ma di recente Fyrom e Bulgaria hanno stretto un accordo di buon vicinato che dovrebbe eliminare anche questo ostacolo. Infine, la scorsa primavera, con un atto di pragmatismo politico e di realismo storico, il governo socialdemocratico di Skopje ha riconosciuto l’albanese come seconda lingua nazionale, squarciando l’isolamento della minoranza schipetara, che vale circa un quarto della popolazione.

Risolta la lunga disputa, a un quarto di secolo dal disfacimento della Jugoslavia di Tito, Skopje può iniziare la costruzione di una identità che si spinga oltre la retorica delle parole e degli stravaganti monumenti voluti dal passato governo ultranazionalista di Nikola Gruevski, al potere tra il 2006 al 2016, che si ispirava alla Macedonia storica. Che però era un territorio trasversale: oltre all’attuale Fyrom comprendeva la regione al nordest della Grecia (con capoluogo Salonicco), oltre a una piccola fetta della Bulgaria sudoccidentale. Il Regno di Macedonia, quello che si studia nei libri di storia, era un piccolo Stato periferico di lingua ellenica che con Alessandro Magno arrivò a estendersi non solo su tutta la Grecia ma fino all’Indo, a Oriente. Dopo la decadenza e la dominazione romana, iniziarono gli insediamenti di popolazioni slave che avrebbero poi interessato tutto il territorio della Macedonia storica. L’idea di una moderna Macedonia nasce solo alla fine dell’Ottocento, ai tempi del tardo impero ottomano, su iniziativa di un drappello di bulgari. Il piccolo territorio finì però quasi subito sotto l’influenza serba per poi essere ufficialmente annesso da Belgrado all’indomani della Prima guerra mondiale. I bulgari furono espulsi e i serbi intrapresero la nazionalizzazione della regione.

Ma l’orgoglio di una nuova identità macedone aveva ormai attecchito. Si narra che persino Tito avesse tutta l’intenzione di coltivarlo all’interno della sua Jugoslavia, con il piano di allargare in futuro i confini della Federazione a danno della Grecia. Tutto cambiò con la fine della Jugoslavia unita. E l’8 settembre del 1991 un referendum in Macedonia diede la vittoria schiacciante agli indipendentisti. Fu così proclamato il nuovo Stato, che ebbe riconoscimento internazionale due anni dopo. Riconoscimento, ma non un nome appunto: il governo di Skopje ha tentato di farsi chiamare semplicemente “Macedonia”, ma invano. Atene - membro della Nato e della Ue - ha sempre impedito questa scelta, temendo che dietro le pretese di adottare quel nome si nascondesse la volontà di perseguire i piani espansionistici di Tito.

Non potendo vincere la partita con la comunità internazionale, l’allora primo ministro Gruevski ha cercato di rafforzare l’identità del Paese inscenando un remake completo di Skopje, che ha trasformato da modesto villaggio (tra l’altro distrutto dal terremoto del 1963) a piccola metropoli in stile neoclassico, così da sottolineare l’origine ellenica e da cancellare una buona parte della sua eredità islamica, lascito del dominio ottomano.

Oggi il centro della capitale, appoggiata lungo le sponde del fiume Vardar, è divento un susseguirsi di colonne completamente bianche che si irradiano intorno alle due piazze principali, ciascuna su una sponda del fiume, collegate da un maestoso ponte puntellato da statue di uomini illustri. In ciascuna piazza si ergono gigantesche statue dei fondatori della Macedonia antica: Alessandro Magno, raffigurato a cavallo, e suo padre Filippo II, primo artefice dell’espansionismo macedone. L’idea di Gruevski era chiara: affrancarsi dal mondo slavo (da cui i macedoni contemporanei invece derivano) per recuperare la grandiosità della storia greca. Così l’aeroporto internazionale di Skopje è stato chiamato Alessandro Magno, come la principale autostrada, e lo stadio ha preso il nome di Filippo II. A sua volta, delle due piazze la più grande si chiama piazza Macedonia, esattamente come l’arco di trionfo posto ai limiti della zona pedonale. Di trionfale peraltro non ha nulla, se non il fatto che lascia intravedere la mega statua equestre del giovane condottiero vissuto ventitré secoli fa.

Ancora peggio è andata ad altri edifici in zona semicentrale che, costruiti secondo i canoni dell’architettura sovietica degli anni Sessanta e Settanta, sono stati trasformati in baracconi neoclassici grazie a facciate di polistirolo espanso che hanno suscitato le risate incredule di una buona parte dei 700 mila abitanti della capitale. Basta infatti girare l’angolo alla ricerca della fiancata di uno di questi sontuosi edifici per scoprire l’inganno.
D’altra parte le risorse sono quelle che sono e anni di spese folcloristiche - insieme a una gestione del potere fondata sulla corruzione endemica e su perdoni arbitrari distribuiti ad alleati e familiari - alla fine hanno obbligato Gruevski a farsi da parte. Non prima però di sei mesi di crisi politica al limite della guerra civile. Una battaglia che, non a caso, aveva preso di mira la nuova Skopje: per sottolineare la loro opposizione all’elargizione di dozzine di condoni ai grandi corrotti, gruppi di studenti muniti di secchi e vernice avevano preso a infrangere il candore dei monumenti, simboli di un governo e di un’identità in cui non si sono mai riconosciuti, espressioni della megalomania di un leader che usava il passato per giustificare il presente anziché costruire un futuro verso cui traghettare le nuove generazioni. L’avevano chiamata la “rivoluzione del colore” ed è stata l’inizio della fine per il leader ultra nazionalista.

Oggi oltre il 60 per cento della popolazione sostiene il quarantatreenne Zoran Zaev, un economista di centrosinistra proveniente da Strumica, una cittadina del sudest macedone citata anche da Plinio il vecchio con il nome greco di Astraîon, “la stellata”. Appena insediato, Zaev ha subito chiarito: «Il tempo delle spese per monumenti e statue è finito». Le priorità del governo ora sono altre: sviluppare il Paese e portarlo nell’Unione europea. A chiedere l’adesione è l’83 per cento dei cittadini della Macedonia del Nord, secondo i sondaggi. Ma a fare il tifo è anche Bruxelles: in tempi di Brexit e di crisi dell’Unione, un giovane Stato che invece vuole entrare in Europa può far solo piacere.