Siamo tornati nella città del Rjava che cinque mesi fa è stata conquistata dalle truppe di Erdogan nel silenizo complice del mondo. Restano 135 mila abitanti e i profughi sono migliaia. “I soldati turchi dicono di contrastare i terroristi. Ma i veri terroristi sono loro”

La strada che dalla città curda di Afrin porta al cantone di Shahba, a nord di Aleppo, costeggia distese di alberi di ulivi. Dove scorre l’acqua, la terra fertile e melmosa ha un colore ocra scuro. Ci sono campi di aglio, zolle sotto cui le patate hanno messo radici, e poi ettari di spighe di grano che quest’anno resteranno incolte. Afrin si trova in territorio siriano ma la sua popolazione è in maggioranza curda e dal 2012 al marzo scorso ha fatto parte del Rojava, la regione curda libera e autonoma. Fino a cinque mesi fa, quando la Turchia ha conquistato militarmente la regione.
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Rewan e suo marito Mahmud oggi vivono a Kobane. Dopo la fuga da Aleppo nel 2013, Rewan si era ricostruita una vita ad Afrin: insieme al marito era tra gli organizzatori del festival di cinema, una trentina di titoli tra cui qualche film internazionale, musica e teatro di strada «mentre in Siria si combatteva da sette anni» dice con orgoglio. Ma quell’apparente stabilità ora è crollata e Rewan non trova l’energia per ricominciare senza soldi, senza lavoro, senza amici. «Ancora una volta?», si domanda. «Non ho più sogni, nessun progetto. A Kobane si rischia come ad Afrin, anche qui viviamo a due passi dalla Turchia».
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Da gennaio a marzo di quest’anno l’esercito turco, sostenuto dall’aviazione e affiancato dalle milizie del Free Syrian Army-FSA, ha combattuto contro le Forze di Protezione Popolare curde (Ypg), causando centinaia di morti. Dietro l’attacco, c’è la volontà della Turchia di spezzare la continuità territoriale curda lungo i propri confini meridionali. La paura di Ankara è che da questa situazione nasca un vero e proprio Stato.
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Ad Afrin sono rimaste 135 mila persone, chi è riuscito a scappare ha raggiunto Kobane o la più vicina zona di Tal Rifat. Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari-Ocha si contano tra i 60 mila e i 170 mila profughi interni. «Viviamo in condizioni precarie», racconta Gule, 23 anni, responsabile di un’associazione giovanile di Afrin, «ci manca l’acqua, l’elettricità, non c’è sufficiente assistenza medica e psicologica». La maggior parte degli sfollati ha trovato rifugio in edifici di fortuna a Nabul, Zahraa, Fafin. «La nostra priorità è tornare a casa», continua la ventenne, «ma vogliamo garanzie internazionali: dobbiamo essere sicuri che non ci saranno persecuzioni nei nostri confronti».
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Le preoccupazioni di Gule sono confermate anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani-Sohr, che ha documentato «un cambiamento demografico nell’enclave messo in atto dagli stessi poteri militari che dicono di proteggere la popolazione siriana». Ad Afrin sono arrivati centinaia di cittadini di etnia araba provenienti dalle aree ribelli della Ghouta orientale, da Douma e dal Qalamoun, mentre agli ex residenti oggi sfollati non è consentito rientrare. Alle limitazioni di spostamento si somma l’arbitrarietà con cui i soldati filo-governativi (che controllano anche la strada di accesso a Shahba) concedono l’attraversamento dei posti di blocco lungo la via che porta a Manbij. Questo ha fatto sì che chi vuole andarsene sia costretto a pagare i contrabbandieri con cifre tra i 500 e gli 800 dollari a persona, oppure a corrompere gli stessi soldati. «Avremmo resistito per altri sei mesi», spiega Gule, «ma quando i civili sono diventati il bersaglio principale degli attacchi, si è deciso di non aggiungere altro sangue a quello già versato. Se il pretesto della guerra è stato “neutralizzare i terroristi” di Afrin», conclude, «mi domando adesso chi siano i veri terroristi».
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In pochi chilometri la Storia si ripete, e il destino di chi ieri ha vissuto sotto assedio incontra quello di chi oggi scappa da una nuova guerra. Siamand e Nariman conoscono bene i sentimenti di Maryam, li hanno vissuti nel 2015 quando l’Isis ha tenuto Kobane sotto attacco per mesi. Siamand scherza mentre versa il caffè e intrattiene le signore con qualche battuta di spirito. Maryam fa parte di quelle 400 famiglie di Afrin registrate dal Comitato per l’accoglienza di Kobane e ricevute in case private grazie allo spirito di solidarietà della popolazione locale.
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Maryam ha una stanza spaziosa e una piccola cucina a disposizione. La vita nella nuova famiglia le ha fatto ritrovare la serenità. «Quando c’è stato il primo attacco», ricorda, «ero terrorizzata, sono salita sulla macchina dei miei vicini di casa e siamo arrivati qui. Non ricordo altro». La coppia, cerca di non farla sentire esiliata, ma è il silenzio dietro il quale si è chiusa la comunità internazionale durante la guerra a far soffrire tutti e tre: «Se non fosse stato per i jet ultra moderni dell’aviazione turca, Afrin non sarebbe caduta. La colpa va anche all’Europa, perché se non avesse chiuso gli occhi di fronte allo scempio, le cose sarebbero andate diversamente».
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Della stessa idea è anche Ahmed, fratello di Amina, nome di battaglia Barin Kobane, uccisa il 30 gennaio ad Afrin da nove miliziani del Free Syrian Army. I video che ritraggono i carnefici prendersi gioco del suo corpo nudo e ridotto a brandelli, hanno provocato un’ondata di rabbia e indignazione fra i curdi. «Questo è il bottino di guerra di quelle porche combattenti del Pkk», diceva uno del commando assassino riferendosi al Partito dei Lavoratori del Kurdistan-Pkk di cui il Ypg è alleato. Qualche anno fa Barin Kobane si era arruolata nelle Forze di Difesa Popolare-Ypj il braccio armato femminile che ha contribuito alla sconfitta dell’Isis, e aveva combattuto a Raqqa prima di prendere parte alla sua ultima battaglia, quella di Afrin.
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È voluta rimanere a fianco di un compagno ferito e la decisione le è costata la vita. Nonostante lo pseudonimo, la giovane non era di Kobane e neppure di Afrin, bensì di un villaggio curdo a nord della città di Al-Bab, regione passata sotto il controllo turco nel 2016 con l’operazione militare “Scudo dell’Eufrate”. A Kaar Kelbin Barin e la sua famiglia soffrivano della pressione esercitata dalle bande islamiche affiliate ad Al-Nusra, che nel 2013 hanno rapito il padre per un riscatto di 60 mila dollari. Dopo la sua liberazione sono scappati ad Afrin e qui Barin ha iniziato a collaborare con l’amministrazione della città. «È stato un gruppo di donne yazide a cambiarle la vita», dice il fratello. «Le abbiamo ospitate a casa per una settimana e lei si è occupata di loro amorevolmente, dedicando tutto il suo tempo e cercando di lenire le ferite causate dalle violenze dell’Isis. Quella settimana ebbe un grande impatto su di lei, spingendola a lasciare casa e ad abbracciare la lotta armata. Capitava che ci incontrassimo ma sempre di fretta.
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L’ultima volta è stata cinque mesi fa e Barin era spaventata che dopo Raqqa la guerra potesse riesplodere da qualche altra parte. Aveva ragione». La sera in cui Ahmed ha appreso della sua morte in tv non è stato capace di raccontarne i dettagli alla madre. «Non ho riconosciuto il corpo, era martoriato, ma sapevo che si trattava del suo».

Dopo la scomparsa di Barin e la conquista turca di Afrin, la famiglia è scappata ancora ed è arrivata a Kobane. Nella nuova casa non c’è nulla che siano riusciti a portarsi da Afrin, neanche una fotografia di Barin. Ma il suo ricordo aleggia nelle stanze semi vuote. «Sono convinto che mia sorella abbia preso la decisione giusta», spiega Ahmed, «non possono essere gli uomini a difendere le donne, devono imparare a farlo loro stesse. Credo che non riuscirò mai a togliermi dalla testa lo spirito di sacrificio con cui faceva ogni cosa. Barin soffriva la fame pur di offrire il cibo agli altri».