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Hikmatullah ha le cuffie alle orecchie. Tiene la testa tra le mani, viso in giù, gli occhi sembrano orientati alle scarpe da ginnastica gialle fluo, ma lo sguardo è smarrito nel vuoto. È nervoso, si muove con agitazione, scatta in piedi, esce dalla porta a vetri, poi rientra, abbraccia suo fratello, Murtaza. Prova a comporre un numero al telefono, a cui qualcuno risponde. Lo passa a Murtaza, una cuffia ciascuno. Hikmatullah ha sedici anni, suo fratello dieci. Sono scappati dall’Afghanistan, da soli, un anno fa. La madre è stata uccisa, il padre troppo malato per viaggiare insieme a loro è rimasto nel villaggio sulle montagne afgane. In gergo burocratico sono due minori non accompagnati, cioè bambini arrivati in Europa senza genitori, senza un parente adulto, dopo aver attraversato paesi e - spesso - stagioni.
Hikmatullah è preoccupato, Murtaza piange. Hanno appena saputo che il più grande resterà nell’hotspot dell’isola di Samos mentre il secondo sarà imbarcato su un traghetto diretto ad Atene alle tre di notte, lo aspetta un posto letto in una casa famiglia. Non può vivere in un container. È nell’interesse del bambino spostarlo dall’hotpost, dicono le istituzioni. Senza spiegare però come possa essere nell’interesse del bambino separarlo dall’unico pezzo di famiglia che gli resta. Hikmatullah e Murtaza dovrebbero vivere nel livello due dei container dell’hotspot. Quello destinato ai minori vulnerabili. Otto posti per containeir. Solo in teoria, perché in alcuni container dormono in venticinque. Sono due dei mille minori presenti sull’isola di Samos, una delle quattro isole greche, insieme a Kos, Lesbos e Kios in cui sono stipate ventimila persone come conseguenza dell’accordo sottoscritto tra Ue e Turchia nel 2016.
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Nel marzo di tre anni fa, infatti, per ridurre il flusso di persone in arrivo dalle coste turche a quelle delle isole greche, l’Unione europea ha siglato un patto con Ankara: da allora ai migranti e richiedenti asilo che arrivano sulle isole è proibito lasciare gli hotspot (centri di registrazione e identificazione) per recarsi sulla terraferma. Devono essere registrati, sottoposti a interviste per valutare il grado di vulnerabilità e l’eventuale idoneità alla protezione internazionale. In caso di rigetto si può fare appello.
Chi - al secondo rifiuto - viene considerato non idoneo dovrebbe essere rispedito indietro, in Turchia. Ma la Turchia accetta solo i migranti rimpatriati che si trovano nelle isole, che non provengano cioè dalla terraferma, dunque da Atene, e questo significa che le autorità greche che avrebbero bisogno di alleviare la pressione sulle isole, non possono inviare ad Atene tutti i richiedenti asilo in attesa di risposta, perché se la risposta negativa arrivasse sulla terraferma tecnicamente non potrebbero rimandarli indietro. Avere una risposta alla richiesta di asilo può richiedere un anno, anche due, in caso di appello. E se le persone in attesa di risposta non possono lasciare le isole e il flusso - sebbene diminuito - non si interrompe, le isole sono destinate a esplodere. Come adesso.
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L’effetto domino della chiusura dei confini è rendere le isole prigioni di fatto, isole con due volti: quello delle istantanee da foto ricordo e quello di migliaia di persone destinate a vivere in condizioni miserabili senza una scadenza.
Al momento il numero dei rimpatri verso la Turchia è 2.367 in tre anni. Niente, in confronto agli arrivi. In un solo mese questo inverno, secondo Unhcr, sono arrivate in mare sulle isole greche 3.370 persone.
Dalla strada costiera che lambisce Vathy, il capoluogo di Samos, la Turchia è a un chilometro e mezzo. Dal punto più alto dell’isola, sulle panchine verdi del belvedere, la vista si perde. Alle spalle, verso Samos, antichi monasteri e siti patrimoni dell’Unesco, il tempio di Hera, il sito archeologico di Pythagoreion, i monumenti greci e romani, le insegne turistiche e i segnali stradali che ricordano in più lingue che l’isola ha dato i natali al matematico Pitagora e al filosofo Epicuro. Di fronte le coste turche, i boschi, le rocce, di tanto in tanto due navi di Frontex fanno la spola da una parte all’altra per controllare i confini d’Europa.
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Gli inverni nelle isole turistiche si somigliano tutti: i ristoratori fanno un po’ di manutenzione, verniciano sedie e finestre di un rigoroso bianco e blu da cartolina, si preparano alla prossima estate, qualche marinaio cuce le reti da pesca perché c’è troppo vento per uscire in barca, la temperatura scende sotto lo zero tutte le notti, piove spesso e sulle cime delle montagne di fronte al porto si vede la neve. Sul lungomare accanto ai pescatori, circondati da gabbiani, un gruppo di ragazzi congolesi canta e balla.
È mattina presto, i telefoni di tutti sono attaccati a un generatore di corrente limitrofo al porto, uno di loro sceglie una canzone pop, alza il volume e stretti in cerchio ballano.
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Sorridono, tutti. Sono in sette, ma solo due indossano scarpe invernali. Per gli altri ciabatte, se fortunati calzini. Qualche passante si ferma curioso, qualcuno borbotta infastidito, qualcun altro solo indifferente. Una donna siriana e sua figlia che è affaticata dal freddo e dal vento provano a sedersi all’esterno di un bar, sulle sedie di fronte alla vetrina. Il proprietario esce, lui parla greco, loro arabo. Ma non c’è bisogno di un traduttore per capire il codice del rifiuto. Un dito indice puntato verso la strada significa “Andate via” in una lingua universale.
La donna riprende per mano la figlia, nell’altra una busta trasparente da cui si vede un po’ di pane. L’uomo rientra nel suo caffè, un solo tavolo occupato da una famiglia distratta.
Nelle città che sono o diventano zone di confine si determina sempre una geografia della tolleranza o del rigetto. C’è il ristoratore che si lamenta: «Hanno distrutto gli affari, devono portarli via. Non siamo l’albergo dei migranti, abbiamo alberghi solo per i turisti». Ci sono i proprietari del piccolo market sul lungomare, che senza i migranti che di tanto in tanto comprano biscotti, pane o casse d’acqua a gennaio sarebbe chiuso. E invece ora è aperto anche di domenica, anche di sera. Ci sono i migranti, le ong, il lavoro è lavoro. E poi c’è Ulla, che ha deciso di seguire l’amore e trasferirsi in Grecia da Copenaghen trentacinque anni fa. Gestisce un modesto hotel a due stelle con suo marito. All’entrata il tappeto riporta il logo dell’Unhcr, lei guardandolo sorride e dice onesta: «Qui siamo refugees friendly, si lamentano tutti, dicono che il turismo sia diminuito perché ci sono i migranti, la verità è che il turismo va male da dieci anni perché nessuno ha aggiustato il sistema fognario e questa cittadina puzza. E nessuno va in vacanza in un posto che puzza». E allora, dice Ulla, «questi ragazzi possono diventare una risorsa». Infatti nel suo motel a un piano dormono operatori umanitari e volontari.
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Il sindaco Michalis Angeloupoulos è tornato nella sua città natale cinque anni fa, è un avvocato, specializzato in diritti umani, ha lavorato per anni in Commissione europea. Poi si è candidato sindaco nel 2014, prima della crisi migratoria che ha toccato i Balcani: «mi sembrava romantico scegliere casa mia per finire la carriera». Sognava una stagione della vita serena, le gite alle vigne e i nipoti ad agosto, non immaginava di ritrovarsi tra le mani una crisi umanitaria: «Gli abitanti mi danno la colpa di tutto, e li capisco, siamo pochi e io sono il riferimento politico. Purtroppo però io sull’hotspot non ho potere. Da sindaco posso solo portare acqua per i bagni chimici e togliere l’immondizia. Quando me lo consentono».
Per il sindaco Angeloupolos entrare nell’hotspot è difficile come per i giornalisti. Deve chiedere il nulla osta ad Atene, al governo di Tsipras, lui che è di Nea Demokratia, il partito conservatore. Sta aspettando l’autorizzazione per entrare che ha chiesto due volte in pochi mesi. Ancora nessuna risposta. «Non è per mettere mano sui soldi, dall’Europa ne stanno arrivando tanti e non si capisce dove vadano a finire. È che da cittadino europeo», dice, «prima che da sindaco dell’isola è inaccettabile non poter fare nulla. Se un bambino entra in Europa, il giorno dopo abbiamo il dovere di garantirgli un tetto e la possibilità di andare a scuola. Invece abbiamo sull’isola centinaia di bambini esclusi dal sistema educativo. Quello che vedo intorno a noi è lo svilimento dei valori etici che dovrebbero fondare l’Unione per come è stata immaginata. Contemporaneamente dobbiamo essere onesti: non reggiamo la pressione, i nostri ospedali e le nostre infrastrutture non riescono a fare fronte alle necessità di tutti. Questo accordo con la Turchia semplicemente è sbilanciato. Lo dicono i numeri, sull’isola da tre anni, c’è una città sopra la città». Ed è così, non solo in senso metaforico.
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L’hotspot di Samos si estende su una stretta area della collina che domina Vathy, terrazzamenti di container circondati da filo spinato. All’entrata un cancello chiuso e un baracchino per la guardiania diurna e notturna. Potrebbe ufficialmente ospitare seicentocinquanta persone. Al momento sull’isola ce ne sono quasi cinquemila. Le migliaia che non hanno accesso al centro hanno costruito delle tende nei boschi sulla collina che circonda l’hotspot. Una distesa di plastica: qualcuno ha rinforzato le tende con i rami, qualcuno con i sassi per paura che il vento le portasse via. Qualcuno ha un tavolino, una sedia all’esterno. Nell’accampamento non c’è acqua corrente, non c’è luce, quindi non ci sono bagni e non c’è modo di riscaldarsi. Piove tutte le sere, non si può nemmeno accedere il fuoco. E poi accendere il fuoco è pericoloso. Se si incendia una tenda, si incendiano tutte. Non si vede a un passo, si scivola. Alle sei del pomeriggio, a sole tramontato, c’è solo freddo e fango.
Quando chiedi a qualcuno: quanto tempo è che non ti lavi? i più fortunati dicono: un mese, i meno fortunati tre. E se chiedi da quanto tempo indossi gli stessi abiti? Rispondono: sei mesi. Oppure: Non posso cambiarmi, ho solo questa giacca, solo questi pantaloni.
Lungo la via che dal campo conduce in città c’è il cimitero, una chiesa e una piazza dove ha sede la Polizia. Precauzionalmente un bus con una decina di poliziotti in tenuta antisommossa è parcheggiato di fronte all’ingresso. Davanti c’è l’ufficio di Samos Volunteers, un gruppo di operatori umanitari che ha messo a disposizione qualche stanza per insegnare inglese ai migranti, sostenere le donne sole, i ragazzi. Dare un posto caldo dove passare almeno un’ora o due. E una lavanderia. Perché vivere in una tenda, al freddo, su un materasso umido di pioggia e sudore, dividendo due metri quadrati con un’altra persona, vivere senza coperte, senza acqua calda, senza medicine per la tosse, senza un vestito pulito, deumanizza. Per questo la frase più ripetuta tra le tende di Samos è: “We are not animals”. Non siamo animali.
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Brice viene dal Congo. Alle sei, quando esce dalla sede di Samos Volunteers dice: «Vado a casa», e casa è una tenda. L’ha comprata come tutti al bazar gestito da una famiglia cinese, perché la Grecia non provvede nemmeno a questo, chi vuole vivere nei boschi lo fa a suo rischio e a sue spese. Brice ha messo un lucchetto sulla tenda e tiene in tasca le chiavi. Nell’altra tasca una piccola torcia. Cammina sul fango, un passo attento dopo l’altro. Deve fare attenzione a non scivolare sul fango o sugli escrementi. «Quella tenda è casa e questi alberi il bagno», dice. Brice è ben vestito, pantaloni verdi, giacca blu. Ha un altro cambio nella tenda. La possibilità di lavare un vestito per chi vive in una tenda al freddo per mesi, significa mantenere dignità. Non puzzare. Non sentirsi un animale, sentire di restare un essere umano.
Quelli che sono arrivati sull’isola da pochi mesi e con ancora qualche risparmio in tasca ogni tanto spendono trenta euro per una notte in motel. Significa dormire in un posto riparato, significa, banalmente, potersi lavare una volta al mese con l’acqua calda e non con una bottiglia in mezzo al bosco. Significa poter lavare i propri figli.
Così hanno fatto poche sere fa Bashir Massoudi, sua moglie e le loro due figlie. Le bambine non si lavavano da settimane e Bashir ha speso un po’ dei suoi risparmi per farle lavare. «Poi però tornare al freddo è difficile», dice.
Sono scappati dall’Iraq, vivono in una tenda piccolissima nella parte bassa del bosco. «Ho chiesto di avere un posto nei container dell’hotspot», racconta, «ma è tutto pieno. Dicono che in un container per una famiglia ne vivano tre. Per avere un pasto bisogna mettersi in fila alle tre, le quattro del mattino e sperare di essere fortunati, e che ce ne sia per tutti. Ma soprattutto le mie bambine non possono andare a scuola, hanno sette e nove anni. Mi chiedono: papà perché non posso studiare, come tutti i bambini? E io non so cosa rispondere».
Bashir abbassa lo sguardo, è un padre che soffre e prova vergogna. La figlia più grande poggia la testa sulla sua spalla e dice: «Abbiamo provato a giocare con dei bambini greci, in città, ma si allontanano sempre. Si allontanano tutti da noi».
Sua moglie Hana piange. «Scusate, non possiamo offrirvi niente, non abbiamo niente». Hana chiede scusa perché non può accogliere come vorrebbe, Hana a cui l’accoglienza viene negata. «La cosa più difficile non è aspettare in fila ore per un pasto, la cosa difficile è sentire le bambine tremare e non sapere cosa fare, sapere che hanno freddo e non avere niente per coprirle. Come si fa ad essere madri così?».
Essere madre in una tenda umida, in un bosco fangoso al confine d’Europa significa non poter lavare i propri figli, non poterli scaldare, passare la notte a sentirli tossire e sapere che quella tosse diventerà bronchite e che c’è un solo medico per 650 persone. Ma i migranti sono cinque volte tanti e nessuno li visita.
Significa non poter dare un po’ di latte caldo. Non avere, per esempio, un fazzoletto per pulire loro il naso. L’accampamento di Samos è un posto pieno di bambini sporchi, scalzi, con le facce segnate dai resti di muco.
Essere madre in un accampamento in Europa, significa mettersi in fila e chiedere i pannolini per i propri figli ma chiederli anche per sé, perché essere una donna, in mezzo a centinaia di tende e avere bisogno di fare pipì di notte significa esporsi al pericolo di molestie sessuali, e allora è meglio indossare un pannolino. Se è disponibile. E aspettare che faccia giorno, mettersi in fila per un paio di calzini, un paio di scarpe.
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Alle sette e mezza del mattino Omar Alshakal arriva all’accampamento con la macchina piena di buste di vestiti. Ha 24 anni, è scappato nel 2014 da Deir Ezzor e anche lui è arrivato in Grecia dalla Turchia. Nuotando 14 ore. Poi ha ottenuto l’asilo. Avrebbe potuto raggiungere la sua famiglia in Germania, provare a ricostruirsi una vita lontano dalla guerra siriana. Invece è tornato nel Mar Egeo. Raccoglie vestiti per le donne e i bambini, con la sua associazione “Refugee for Refugees”. Rifugiato per i rifugiati. Raccoglie abiti e li dona: cappelli, guanti e soprattutto scarpe. Fa mettere in fila i bambini e si raccomanda: «prendete una cosa ciascuno, tutti avete diritto di essere caldi e coperti». Qualche bambino batte i denti, le madri prostrate e riconoscenti lo ringraziano. Omar scuote la testa, nessun grazie, dice. Ha un cappello da lupo, scherza con tutti finché le buste non si svuotano.
A fine giornata Omar è stanco. Non vuole parlare. Avrebbe potuto vivere lontano dai volti e la mortificazione e il dolore di chi ogni giorno gli ricorda cosa significa la guerra, cosa significa la fuga e cosa significa l’umiliazione.
Avrebbe potuto provare a non vedere, a ricominciare una vita lontano da qui. Invece Omar vede lungo. E sa che questi bambini che vivono nel degrado, abbandonati dalle istituzioni europee che dovrebbero offrire loro un’accoglieza decente e decorosa sono il futuro, sono il domani.
«Far vivere questi bambini così per un anno, due, in Europa», conclude amaro, «significa segnarli per sempre, marcarli di rabbia, risentimento. Qualcuno deve aiutarli, per questo sono tornato qui. Provo a restituire un po’ di dignità alle persone che l’Europa mortifica. Provo a ricordare loro che non sono animali, a ricordare cosa significa umanità».