Non dimentichiamo Hevrin Khalaf, simbolo del martirio dei curdi
Femminista. Non violenta. attivista in prima linea per gli oppressi. Quindi intollerabile per il regime di Ankara e gli jihadisti. Che, insieme, ne hanno decretato la morte
Ventiquattrore prima di morire, e senza averne alcun presagio, Hevrin Khalaf ha lasciato sul suo profilo WhatsApp l’ultimo messaggio di forza e speranza nel domani. Ora si può leggere come testamento, come monito per chi vorrà raccoglierne l’eredità alla guida del movimento per la piena emancipazione delle donne, per il riscatto del suo popolo, il popolo curdo, per la democrazia, l’uguaglianza, i diritti. Ha scritto: «Un giorno, quando le cose andranno bene, ti guarderai indietro e ti sentirai orgoglioso di non esserti arreso».
Quando le cose andranno bene. Perché bene non andavano lì nel Rojava, venerdì 11 ottobre, mentre Hevrin digitava sullo smartphone l’incitamento a non mollare a beneficio della sua comunità di amici e compagni, anche di se stessa. Rojava, nella lingua curda, significa “Occidente” e l’Occidente inteso in senso largo, come area valoriale oltre che geografica, stava tramontando, oscurato dal proprio tradimento e dal realismo cinico di una politica che ha come stella polare l’egoismo. [[ge:rep-locali:espresso:285336452]] Donald Trump, il commander in chief della prima potenza mondiale, il magnate dai tweet sulfurei, la domenica precedente aveva belato al telefono con Recep Tayyip Erdogan e gli aveva garantito che avrebbe ritirato i soldati americani dal Nord della Siria. Di fatto, la luce verde per invadere il Rojava, e pazienza se i curdi erano stati l’esercito-taxi usato per sconfiggere lo Stato islamico del sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Che cosa contano i pur valorosi e sempre negletti curdi davanti al sultano di Istanbul forte di un’armata di 300 mila uomini e padrone di uno Stato membro della Nato? Erdogan non aveva perso tempo e mercoledì 9 ottobre aveva ordinato ai suoi uomini di passare il confine, spalleggiati dalla soldataglia di arabi-siriani al soldo di Ankara, molti dei quali jihadisti e in passato appartenenti a formazioni distintesi per ferocia nel pantano siriano. Come Al Nusra, la filiazione locale di al Qaeda. Come lo stesso Isis.
Per quella marmaglia di assassini fanatizzati, cresciuti nell’idea della sottomissione del genere femminile, Hevrin era il bersaglio perfetto. Femminista, attivista indefessa, in breve diventata simbolo anche delle donne arabe della regione. Insomma una pericolosa eversiva che diffonde idee di pace, convivenza tra le etnie, ai loro occhi un “cattivo esempio” da distruggere. E l’occasione è capitata molto prima di quanto sperassero. Sabato 12, quarto giorno di invasione, nonostante tuonasse il cannone e piovessero bombe dal cielo, le linee del fronte mutassero di continuo e le strade fossero infestate da manipoli di tagliagole, Hevrin di prima mattina aveva ordinato al suo autista di preparare il fuoristrada. Meta: la città di Derik, dove abita la madre e dove tornava ogni fine settimana. Origine del viaggio, Ain Issa, sede del quartier generale del Partito della Siria del Futuro di cui era co-segretaria fin dalla fondazione, il 27 marzo del 2018. Hevrin e l’autista avevano imboccato l’autostrada internazionale M4 senza sapere che un tratto era finito da poco sotto il controllo - stando ad alcune fonti - del gruppo jihadista Ahrar al-Sharqiya, alleato dei turchi.
Sulle modalità della carneficina circolano diverse versioni, con dettagli contrastanti, tutti truci. Aiutano nella ricostruzione più probabile due video messi in rete dagli stessi killer, come fosse un trofeo di cui andare fieri. Il fuoristrada viene fermato, una massa di uomini vocianti e in divisa militare cachi lo circondano. Hevrin, vestita con pantaloni neri e una maglietta rossa, il suo colore preferito, viene immediatamente riconosciuta per le numerose apparizioni televisive. Forse viene violentata, sicuramente crivellata di colpi assieme all’uomo che è con lei e poi, per ulteriore oltraggio, lapidata. In un filmato si vede un miliziano che si avvicina al corpo impolverato, lo rimuove con un piede e commenta: «Questo è il cadavere dei maiali».
Il referto dell’anatomopatologo dottor Tayceer al-Makdesi (di cui taciamo per pietà i particolari più raccapriccianti) stilato all’ospedale internazionale di al-Malikiyah, nome siriano di Derik, arriva alla conclusione che la donna è stata colpita alla testa con un oggetto contundente, e non è difficile immaginare il calcio del fucile, il colpo fatale in faccia è stato sparato da una distanza compresa tra i 40 e i 75 centimetri, non c’è praticamente parte del corpo senza i segni di botte e fori di proiettile. Il corpo è stato trascinato per diversi metri con la presa sui capelli fino a scorticare completamente le gambe. Non c’era più pelle, sopra i muscoli: oltre all’esecuzione, il vilipendio.
Era nata, Hevrin, 35 anni fa a Derik, venti chilometri di distanza dal fiume Tigri, una cittadina di 40 mila abitanti dove convivono curdi, assiri, arabi e armeni. Una vocazione multietnica e multireligiosa sfociata nell’accoglienza e nell’allestimento di campi profughi fin dall’origine del conflitto in Siria (15 marzo 2011) e nel ricovero dato agli ezidi contro i quali lo Stato islamico tentò il genocidio. L’humus delle origini sarà probabilmente determinante nell’orientare le scelte successive della ragazza e l’appartenenza al popolo curdo, dove esiste una sostanziale parità di genere tanto che ogni carica pubblica è sdoppiata in due tra un maschio e una femmina, la spingerà a un impegno assiduo per promuovere nella regione valori da altri non condivisi. Bella, occhi e capelli scuri, minuta (alta 1,68 per 55 chili), dopo le scuole superiori nel luogo natale, emigra ad Aleppo, il capoluogo patrimonio dell’Unesco, che diventerà città martire dello sventurato Paese. Lì Hevrin si iscrive all’università, ingegneria civile.
A metà degli anni Dieci del nuovo millennio, fresca di laurea, trova lavoro in un dipartimento governativo. Parla fluentemente l’inglese, oltre all’arabo e al curdo. Ha passioni comuni alle sue coetanee. La lettura, anzitutto. I classici, ovviamente. Adora il cinema, attori preferiti due dissidenti e non per caso: Jay Abdo assai popolare a Damasco, ora esule negli Stati Uniti per fuggire la possibile repressione del regime dopo le critiche pubbliche a Bashar Assad; Fadwa Suleiman, originaria di Aleppo, alauita come il presidente siriano ma pure sua acerrima nemica, volto della rivolta, riparata col marito a Parigi dove è morta di tumore nel 2017 a soli 47 anni.
Parigi è anche la meta preferita per le vacanze di Hevrin Khalaf. Sarebbe il mondo il suo orizzonte se la storia non le passasse sotto i piedi e la costringesse a fermarsi. La breve primavera siriana ben presto si tramuta nell’inverno del conflitto contemporaneo più longevo e cruento. Condivide gli obiettivi della rivoluzione, si unisce ai ribelli, lascia l’impegno al dipartimento e serve il movimento con l’unica arma che ha a disposizione: la cultura. Da volontaria impartisce lezioni gratis a gruppi di studenti di ogni età. Incoraggia le donne a unirsi al movimento e battersi per la libertà. La ricordano per un invito spesso reiterato: «Non sposatevi e non fate figli troppo presto, così potere dedicarvi alla nostra causa». Lei stessa dà l’esempio, ha un fidanzato ma l’unione non è mai sfociata nel matrimonio, nemmeno nella convivenza. Preferisce rincasare ogni sera dalla mamma nonostante il suo ufficio sia a Qamishli, cento chilometri di distanza.
Nel caos di uno Stato devastato dalla guerra, al Nord i curdi (nel Rojava appunto) riescono a ritagliarsi un’autonomia di fatto. Hevrin scala in fretta la gerarchia della nuova amministrazione. Co-presidente del dipartimento per l’Energia e poi di quello per l’Economia. Berivan Omar, ora vice co-presidente per le municipalità e l’ambiente della regione Jazeera, l’ha conosciuta quattro anni fa e così la descrive: «Esprimeva le sue opinioni con calma, ma anche con audacia e chiarezza. Grazie al suo carisma tranquillo ha attirato la mia attenzione da subito. Ho pensato dal primo momento che avrei voluto essere come lei, per esprimere allo stesso modo le mie opinioni con coraggio».
Proprio grazie alla sua forza serena Hevrin si guadagna un ruolo nella delegazione che negozia con gli americani, chiede garanzie sul futuro della regione. Una diplomatica senza quel titolo di studio ma con l’arte della mediazione imparata cammin facendo con l’attività di base. Dal sociale il suo impegno inclina sempre di più verso il politico. Non più solo il femminismo e i diritti, anche il destino dei curdi, la soluzione del problema atavico del popolo senza terra, oppresso e vessato da troppi satrapi nell’area più infiammata del mondo. È così che si fa promotrice in prima persona della nascita di un nuovo partito che ha nel nome la parola che più le sta a cuore: futuro. Partito della Siria del Futuro. Si trasferisce ad Ain Issa, dove c’è la sede centrale della nuova formazione. Ancora Berivan Omar: «Come al solito aveva intrapreso questa nuova avventura con passione e impegno totalizzanti. Lavorava dall’alba sino a notte. Prima di coricarsi si concedeva qualche pagina di un buon libro. Recentemente mi aveva confidato come le mancasse la sua città, i suoi amici perché ad Ain Aissa non c’era una vita sociale e culturale così interessante. Però si sacrificava per una ragione superiore. Lei era tra coloro che decidevano e dunque doveva costantemente essere presente».
Una pacifista, certo, ostinatamente convinta nella forza del dialogo. Però non a ogni costo. Noi diremmo piuttosto, una non violenta. Non si attacca, ma ci si deve difendere davanti a un’aggressione. Da mesi i venti annunciavano un possibile attacco turco e si era schierata perché si facesse ogni sforzo per contrastare l’eventuale occupazione, proteggere l’autonomia guadagnata con la rivoluzione e la popolazione civile. Il 5 ottobre aveva cercato di giocare d’anticipo. In una conferenza stampa davanti a telecamere e giornalisti organizzata dal suo partito era stata la sola a prendere la parola.
Giacca bianca a righe, camicetta verde, i capelli raccolti con chignon alto, il solito tono pacato, aveva previsto e condannato a priori l’attacco turco: «Noi respingiamo le minacce turche, ostacolano i nostri sforzi per trovare una soluzione alla crisi siriana. Durante il periodo di dominio dell’Isis alle frontiere, la Turchia non ha visto questo come un pericolo per la sua gente. Ma ora che c’è un’istituzione democratica nel Nord-Est della Siria, loro ci minacciano con l’occupazione».
Una settimana dopo esatta sarebbe stata trucidata al margine di un’autostrada. Una settimana dopo non c’era più “futuro” per lei e probabilmente non ci sarà nemmeno per il Rojava (“l’Occidente”). Alcuni giornali turchi non si sono vergognati di gioire alla notizia della sua morte. Però un seme del suo insegnamento lavora nel profondo di quella terra e potrà produrre germogli in una postuma altra primavera: è stato a Raqqa, già capitale del sedicente califfato, abitata in maggioranza da arabi con cui cercava il dialogo, che si è svolta la più imponente manifestazione organizzata dalle donne che l’avevano conosciuta per commemorare Hevrin, la martire. Da lassù si sentirà «orgogliosa di non essersi mai arresa».