Cosa succede nelle prigioni per i combattenti dell'Isis: "Non ditegli che Al-Baghdadi è morto"
In Siria sono detenuti jihadisti di 48 diverse nazionalità. Ma mancano le guardie e cresce il pericolo di fughe. L’Espresso è entrato in una di queste strutture per vedere come funziona (Foto di Alessio Mamo)
di Marta Bellingreri dalla provincia di Hasake (Siria) - foto di Alessio Mamo
16 dicembre 2019
2-jpgLa prima regola per entrare nei centri di detenzione per i prigionieri Isis è non scrivere dove si trovano. Nessuna indicazione sul luogo, descrizione o foto dall’esterno. La seconda regola ancora più importante è: non parlare ai prigionieri di cosa succede nel mondo. Non sanno nulla della recente invasione della Turchia nel nord-est della Siria contro i combattenti e i civili curdi, arabi, armeni, siriaci, assiri della zona. «Qualsiasi notizia sarebbe come accendere loro la televisione per la prima volta in nove mesi», dice il comandante delle Forze siriane democratiche, a guida curda, responsabile della sicurezza della struttura.
La terza regola, imprescindibile, è: non farsi scappare che Abu Bakr al-Baghdadi è morto. Il leader del cosiddetto Stato islamico, autoproclamatosi califfo, si è ucciso il 27 ottobre durante il raid dell’esercito americano nella provincia di Idlib, a cinque chilometri dal confine turco. Là si era nascosto con i suoi fedeli e i parenti stretti negli ultimi mesi. Ma i suoi combattenti, devoti al Califfato, non lo sanno. «Ne va della sicurezza di tutti noi», conclude il comandante nella sua introduzione di benvenuto, chiedendo di non scrivere nemmeno il suo nome. Non parla con sguardo severo, ma con sincera preoccupazione. Un velo di paura, di urgenza nelle sue parole. 5-jpg Dietro di lui, un’enorme bandiera gialla con la cartina della Siria, il fiume Eufrate in evidenza, e le scritte in arabo, curdo, siriaco. È la bandiera delle Forze siriane democratiche, Sdf nel suo più comune acronimo inglese, che hanno condotto la battaglia contro l’Isis, sostenute dalla coalizione a guida americana. Adesso che gli alleati americani se ne sono andati, però, le Sdf hanno un compito perfino più arduo: vigilare affinché non risorga lo Stato islamico. Del resto, l’Isis è fiorito nelle prigioni irachene dopo l’invasione americana; e di certo oggi non morirà in queste nuove prigioni irachene e siriane, dove i rischi di rivolte, tentativi di fuga e pianificazione dei prossimi anni di guerriglia sono altissimi.
Il comandante Sdf lo dichiara senza mezzi termini: «Siamo in pericolo noi, sono in pericolo loro». Muoiono prigionieri ogni mese. Dei cinquemila che ospita la struttura, duemila sono malati: ferite di battaglia, malattie cardiache, malnutrizione, alcuni casi di Aids. «Non abbiamo le risorse per curarli adeguatamente né per nutrirli come si deve», sottolinea il comandante. «In particolari momenti di crisi, abbiamo dato loro il nostro cibo». 4-jpg La situazione è peggiorata lo scorso 9 ottobre, da quando la Turchia ha iniziato l’attacco alla Siria. Il personale si è ridotto del 40 per cento e le guardie fanno turni tra prigione e fronte. Inoltre, dopo che la Turchia ha bombardato la vicina stazione di approvvigionamento dell’acqua, per poter far sciacquare la faccia ai prigionieri, ogni giorno le Sdf devono percorrere 70 chilometri. La struttura in cui si trovano i prigionieri, miliziani catturati in battaglia, il 90 per cento proprio a Baghuz, l’ultima roccaforte dell’Isis espugnata dalle Sdf a marzo, è una ex-scuola costruita dal governo siriano quando ancora controllava la provincia di Hasake. I lavori di ristrutturazione, o meglio di ridefinizione da scuola a prigione, non sono terminati: tra le mura alte, è previsto un cortile per l’ora d’aria. Finora, in nove mesi, i prigionieri dell’Isis la luce del sole non l’hanno mai vista. Le finestre di quelle che dovevano essere delle aule sono murate.
Da una stanza con una decina di schermi i soldati delle Sdf li monitorano 24 ore su 24. Tre sono i colori dominanti: il grigio delle coperte che i detenuti hanno addosso, l’arancione delle loro tute, e il verde chiaro delle pareti. Proprio il genere di colore che si troverebbe in una scuola elementare. Appesi alle pareti con lo scotch, dei sacchetti con degli effetti personali, qualche asciugamano e dei tozzi di pane.
«Ho bisogno di vedere uno psichiatra: è il motivo per cui voglio tornare in America». Lurin Sulimani ha 53 anni. Ha raggiunto la Siria per vivere con l’Isis alla fine del 2015. In America ci era arrivato da rifugiato kosovaro nel 1999, ne aveva preso la cittadinanza: oggi né il governo americano né quello kosovaro si sono fatti vivi. «Non ho notizie della mia famiglia: mia moglie e tre figli, due nati in Canada e l’ultimo a Manbij». Sostiene di non aver mai combattuto, di aver cercato di sopravvivere e di provvedere per la famiglia. Ogni volta che c’erano battaglie si spostava. Manbij è stato il luogo di una feroce battaglia durata tre mesi tra Sdf e Isis nel 2016 e i nomi che snocciola sembrano seguire geografia e cronologia delle battaglie contro l’Isis lungo l’Eufrate: da Raqqa a Mayadin ad Hajin, fino a Baghuz, al confine con l’Iraq, confine ultimo del Califfato, almeno a livello territoriale. «Ero venuto per vivere la shari’a, ho creduto alla propaganda, ma sono stato deluso, erano solo interessati a combattere». 3-jpg Sulimani fa parte di quei 2 mila detenuti che per motivi di salute non stanno nelle aule-celle dove stanno accalcate 100 o 200 persone, ma in una grande sala che fa da “ospedale”, in cui alcuni dei prigionieri hanno dei letti e ricevono visite mediche quotidiane. Un’infiammazione all’intestino gli ha fatto perdere peso per mesi. Ma, col suo accento americano, ripete che più delle condizioni fisiche, migliorate ultimamente, è preoccupato per la sua salute mentale: «Quello che abbiamo vissuto, you know, va oltre l’immaginazione». Non specifica se è solo quello che ha vissuto o anche quello che ha fatto vivere commettendo lui stesso crimini. «Se ho compiuto dei crimini, mi portino in tribunale, facciano quello che pensano sia giusto: ma non lasciateci qui a languire. Se parlo coi giornalisti è perché spero che la mia famiglia googli il mio nome e scopra che sono ancora vivo».
Sono 48 le nazionalità cui appartengono i detenuti: europei, russi, americani, nordafricani, asiatici, oltre ai numerosi siriani e iracheni. Il numero reale è impossibile da stabilire: molti combattenti hanno imparato l’arabo e si dichiarano locali. Dagli interrogatori però è facile identificare subito chi non lo è. «I nostri servizi di sicurezza hanno bisogno delle loro informazioni», dice Heval Toheldan dell’ufficio anti-terrorismo di Rumeilan. «I crimini sono avvenuti qui contro la popolazione locale, non ci basta che i diversi Stati li riportino nei loro paesi».
Nell’ospedale improvvisato del carcere, come in ogni cella, c’è un prigioniero-responsabile. Qui è un ventottenne di Damasco, con occhi verdi luminosi, che dice di essere stato membro dell’Isis: ha vissuto a Deir Zor e ora è il portavoce dei detenuti per indirizzare alle guardie bisogni e richieste. Tra lui e la guardia di turno c’è un’aria di confidenza: scherzano, si danno pacche sulle spalle, si parlano all’orecchio. Mentre lui scherza sul corridoio della sala-ospedale, sfilano prigionieri in sedia a rotelle, su stampelle, o reggendosi sulle sole braccia, perché hanno perduto le gambe. Feriti in battaglia o durante i bombardamenti. Adesso sono lì, anonime figure in divise arancione acceso. Non hanno voglia di parlare con nessuno.
Al primo piano dello stesso edificio, un corridoio di cancelli e lucchetti fa avanzare le guardie verso le celle. Delle cifre incise sulle porte di ferro indicano il numero di detenuti e quello della cella. Da una finestrella minuscola che solo le guardie possono aprire appaiono centinaia di uomini in fila: l’unico modo per avere un contatto, col mondo esterno, parlare. 1-jpg «Non sono dell’Isis, sono un civile, quelli là sono dell’Isis!», dice Hasan, indicando un gruppetto dietro di lui. Un altro, originario di Bu Kamal, che ha fatto parte dell’Esercito Siriano Libero contro Bashar al-Assad ed è stato fatto prigioniero dall’Isis ma non vuole dichiarare il suo nome, descrive le prigioni tenute dall’Isis come migliori di queste: «Il cibo che mangiavamo era lo stesso del giudice», dice. «Almeno là dopo pochi giorni venivi portato in Tribunale islamico e giudicato, qua in nove mesi non abbiamo visto nemmeno un avvocato».
La Croce Rossa ha fornito materassi, coperte, tutto il minimo necessario, ma è venuta soprattutto per portare messaggi delle famiglie, cercando anche di dar loro notizie se i loro familiari sono ancora vivi. La maggior parte dei detenuti però dice di non averne avute. «Fino a poco tempo fa, c’erano bambini di dieci anni prigionieri qui dentro. Questo non conta per l’Unione Europea?». Si riferisce ai bambini e adolescenti addestrati dall’Isis per combattere, anche loro imprigionati a Baghuz. A quanto pare, da poco sono stati trasferiti altrove perché, come ha spiegato il comandante delle Sdf, per legge non possono stare insieme agli adulti. «Le relazioni tra noi detenuti sono buone, anche coi militari», aggiunge infine il tipo di Bu Kamal, «vogliamo solo sapere il destino che ci aspetta». «Ci sono molti problemi qui dentro, violenze sessuali. Fate qualcosa», bisbiglia però un prigioniero avvicinandosi alla finestrella prima che venga chiusa.
Solo una piccola cella si distingue dalle altre: al suo interno due detenuti, ognuno con il suo abitacolo separato e un bagno in comune. Abdelrahman, 37 anni, iracheno di Anbar, è un pittore. «Lo sono da prima di venire in Siria. È anche una terapia per me». Le guardie dicono che non è un isolamento per punizione, ma un premio. Abdelrahman si dichiara «un civile» e solo in quella cella più spaziosa può continuare a dipingere. Tutti i suoi quadri sono nelle stanze delle Sdf che gli forniscono pennelli e tele. Delle altre attività per la de-radicalizzazione non pare al momento ci sia l’ombra. «Dopo l’attacco della Turchia non abbiamo le forze», spiega il comandante che spera che questi prigionieri possano liberare le proprie menti dal male che hanno commesso e forse vogliono ancora compiere.
Del resto, «a Baghuz ce l’hanno detto: quando saremo di nuovo liberi, faremo peggio di prima». La sensazione del rischio è costante, sostiene una delle guardie, soprattutto se si pensa che di fronte a un’altra prigione, le cellule dell’Isis ancora attive hanno organizzato un attentato, facendo esplodere una macchina e lanciando dei missili. «Il messaggio per noi è chiaro: siamo un target», conclude. «Ma lo è anche per i detenuti dell’Isis: pazientate, non vi abbiamo dimenticato, vi libereremo».