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Un terreno sempre più affollato, all’interno del quale si stanno combattendo due battaglie simultanee e parallele: la prima tra l’anima più tradizionale (e moderata) del partito e una “nuova sinistra” in crescita e sempre più agguerrita, la seconda su come affrontare la sfida (ormai quotidiana) lanciata da Trump contro quello che il presidente Usa definisce con le semplificazioni da social network il “partito socialista degli Stati Uniti”. Vanno avanti di pari passo, ma chi vincerà la prima di queste due battaglie deciderà anche in quale campo di battaglia si dovrà combattere la seconda.
È una dinamica che sta già stressando diversi candidati, dalle prime schermaglie dialettiche alla raccolta fondi, fino ai punti essenziali del programma per riconquistare una Casa Bianca che - nonostante le numerose difficoltà che incontra The Donald - resta un’impresa niente affatto semplice. Perché, come è chiaro fin dai primi messaggi (e discorsi) di chi vuole provare a conquistare la nomination del partito, su tutti aleggia il condizionamento di un elettorato (o di una base) che negli ultimi anni ha cambiato pelle, si è trasformato, si è radicalizzato ed appare in grado di incidere più del vecchio apparato (che non si è mai ripreso dalla sconfitta di Hillary Clinton nel 2016) sulle scelte politiche - quelle reali e quelle di “marketing” - dei singoli candidati. Un elettorato e una base, trascinati dagli attivisti e dai gruppi più liberal, che appaiono affamati di politiche “di sinistra”: dal Medicare for All (l’assistenza sanitaria per tutti) al Green New Deal sul clima, dal salario minimo di 15 dollari l’ora a una tassa sulla ricchezza.
Con le elezioni di Mid term del novembre 2018 una cosa è diventata chiara: la sinistra del partito democratico e più in generale la sinistra americana hanno guadagnato terreno. La maggioranza democratica alla Camera è diversificata nelle sue componenti (conservatrice, moderata, liberal, estremista) come non lo è mai stata in passato, The House Committee on Oversight and Government Reform (la potente commissione che ha il potere di indagare sulle attività del governo) ha quattro nuovi membri che appartengono all’ala più radicale del partito, tra cui Alexandria Ocasio-Cortez, la nuova star che si autoproclama “socialista”, beniamina di media e tv progressisti (e nemica numero uno per quelli conservatori).
Uno spostamento a sinistra confermato anche dalla statistica. Stando agli ultimi dati di Gallup (dicembre 2018) oggi la maggioranza di chi vota o è registrato come democratico (negli Stati Uniti per votare occorre dichiarare di essere affiliati a uno dei due partiti tradizionali o registrarsi come indipendente) si definisce liberal (51 per cento) contro il 34 per cento che si proclama moderato e il 13 per cento conservatore.
Nel 1994, durate il primo mandato di Bill Clinton, la maggioranza (48 per cento) si definiva moderata e la quota di chi si identificava come liberal (25 per cento) era uguale a quella di chi si identificava come conservatore. Se consideriamo poi l’America post 11 settembre 2001, vediamo che dal 2002 al 2014 la quota di democratici che si dichiara liberal è cresciuta di circa 1 punto percentuale ogni anno e che dal 2014 ad oggi l’aumento è stato in media di 2 punti all’anno.
Saranno i liberal l’ago della bilancia nella scelta del candidato/a da opporre a Trump e non sarà una scelta facile. Le primarie democratiche (al via dal febbraio 2020 con i tradizionali caucus dell’Iowa e le consultazioni in New Hampshire) si preannunciano come le più combattute dal 1980, l’anno in cui Ted Kennedy venne sconfitto di misura dal presidente uscente Jimmy Carter in una Convention infuocata e i democratici finirono per consegnare la Casa Bianca a Ronald Reagan e a un partito repubblicano che seppe rigenerarsi dopo i disastri del Watergate di Nixon. Ma chi potrà essere il Ronald Reagan democratico (o il nuovo Obama) del 2020?
La domanda si rincorre tra talk show televisivi, social network, editoriali dei grandi quotidiani, convegni di organizzazioni e gruppi di pressione fiancheggiatori del partito democratico, ma la risposta non è univoca, anzi. Stando ai sondaggi, c’è una buona metà dell’elettorato democratico che vorrebbe un candidato “maschio e bianco”, nella convinzione che sia l’unica figura in grado di sconfiggere The Donald nella nuova America ridisegnata da quattro anni di trumpismo. L’altra metà la vede all’opposto e nell’era del #MeToo ritiene che mai come ora sia giunto il momento per vedere una donna fare il proprio ingresso alla Casa Bianca dalla porta principale.
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Elizabeth Warren è la Bernie Sanders al femminile e sembrava ben lanciata. Amata dalla sinistra progressista americana, entrata tardi (già 63enne) sulla scena politica nazionale, conquistando il seggio di senatore per il Massachusetts che fu di Ted Kennedy, ma già da tempo conosciuta e apprezzata come paladina dei consumatori e feroce critica del mondo della finanza e di Wall Street. Quando alla vigilia di Capodanno aveva annunciato la sua candidatura sembrava che lo avesse fatto con la benedizione di “zio Bernie”, che vedeva in lei la candidata ideale per proseguire la sfida da lui stesso lanciata (e persa di poco) nel 2016 contro Hillary. Previsione sbagliata, non si teneva conto dello smisurato ego di Sanders. Che ha deciso di ricandidarsi e che inevitabilmente le sottrarrà una buona parte di quei voti di sinistra su cui lei faceva conto.
Kamala Harris, la senatrice della California (che nelle primarie del 2020 voterà a marzo diventando determinante) diventata celebre durante le audizioni al Congresso sul Russiagate, non può essere definita una liberal doc - gli attivisti le rimproverano l’appoggio ad Hillary e il suo passato da procuratore “duro” - ma i forsennati attacchi contro di lei della destra guidata da FoxNews e dai radio-predicatori conservatori la sta rafforzando sul fianco sinistro. Fra le donne candidate è oggi quella che sembra avere le maggiori possibilità di successo. Kirsten Gillibrand, senatrice dello Stato di New York, si è presentata come la campionessa del #MeToo. Molto popolare tra le donne ma nell’elettorato maschile, anche il più progressista (che gli rimprovera gli attacchi contro Clinton sul caso Lewinsky), non sfonda. Tulsi Gabbard, americana delle Samoa, genitori polinesiani, 37 anni e grande supporter di Sanders nel 2016 avrebbe tutto per piacere all’ala più liberal. Veterana della guerra in Iraq ha compiuto due errori fatali: ha incontrato a Damasco il dittatore siriano Assad e si è opposta ai matrimoni gay.
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Tra i candidati maschi la lotta sembra ridursi a Bernie Sanders e Beto O’Rourke. Se “zio Bernie” non ha bisogno di presentazioni, tantomeno in campo liberal, le posizioni e le chance di Beto, il “nuovo Kennedy” del Texas sono ancora tutte da decifrare. Il suo ingresso in campo sembra aver spazzato via definitivamente i sogni e le speranze di altri candidati: come Julián Castro, 44 anni, ex ministro di Obama, anche lui texano e fino a pochi anni fa considerato l’astro nascente del partito; come Cory Booker, l’afro-americano senatore del New Jersey, comunque troppo poco liberal; come Jay Inslee, Governatore dello Stato di Washington, che sul cambiamento climatico ha sfidato apertamente Trump e che liberal lo è sicuramente. Beto è stato protagonista di una discesa in campo col botto. Nel giro di 24 ore, dopo l’annuncio della sua candidatura il 14 marzo scorso, ha raccolto la bellezza di 6,1 milioni di dollari: battendo il record che era stato stabilito da Bernie Sanders solo poche settimane prima con 5,9 milioni di dollari. Un bell’attestato di stima da parte dell’elettorato democratico (con quello di sinistra in prima fila nella raccolta fondi).
Per la prima volta da decenni i democratici sembrano avere trovato grande energia, forze fresche e voglia di combattere. Quanto accaduto con i movimenti negli ultimi anni, da OccupyWallStreet al #MeToo fino ai giovanissimi in piazza contro le armi e per il clima, hanno creato una sorta di versione democratica del Tea Party (qualcuno lo ha definito ironicamente il Pot Party) con una forte tendenza di sinistra. Per il vecchio partito tradizionale, quello dei notabili, della “Clinton machine”, dei “blue dog” (i deputati democratici-conservatori) il grande pericolo è che un candidato troppo “di sinistra” possa portare i democratici ad una sconfitta epocale come quella del 1972 (George McGovern travolto da Richard Nixon), ma moderati e conservatori non sembrano più in grado di condizionare (come avvenuto da Clinton in poi, anche il fenomeno Obama venne digerito dall’apparato) le scelte-guida delle politiche dei democratici. Ne è la prova quanto accaduto in Congresso, con l’insuccesso della votazione che mirava ad isolare la deputata di origine somala e di religione musulmana Ilhan Omar accusata di antisemitismo.
Li può salvare solo il “grande vecchio” Joe Biden, una vita intera passata al Congresso, otto anni alla Casa Bianca come vice di Obama, maschio e bianco, amato da quei “colletti blu” di un’America industriale del nord-est che non esiste più e la cui eredità è stata fagocitata da Trump. Ma anche Biden, se vorrà essere il prescelto, dovrà venire a patti con la sinistra del partito e con un elettorato sempre meno disposto a compromessi.