Sui ponti al confine con la Colombia tra fame e pallottole. Sono migliaia, in gran parte giovani, senza un leader e dicono «Vogliamo solo libertà»

TOPSHOT - A demonstrator remains under the Simon Bolivar International Bridge in Cucuta, Colombia, on the border with Venezuela, on February 25, 2019. - United States Vice President Mike Pence told Venezuelan opposition leader Juan Guaido that Donald Trump supports him "100 percent" as the pair met regional allies on Monday to thrash out a strategy to remove Nicolas Maduro from power after the failed attempt to ship in humanitarian aid. (Photo by Luis ROBAYO / AFP) (Photo credit should read LUIS ROBAYO/AFP/Getty Images)
Juan, Wilson, Jaira, Andrés, Luca, Enrique, Paula. Ragazzi e ragazze ventenni. Altri non arrivano a 30. Sono venezuelani. Poveri, alcuni poverissimi. Altri professionisti, ingegneri e avvocati. Persino medici. Impossibile restare. Impossibile lavorare. Hanno attraversato il confine con la Colombia. Mesi fa. Tanti solo da una settimana. Erano venuti per il concerto, il Live Aid per raccogliere fondi. Le frontiere sono blindate. Il ponte Simón Bolívar è sbarrato con un container. Sono a torso nudo, la pelle bruciata dal sole, annerita dalla polvere e dal fumo degli incendi, le mani incrostate di fango e olio. La maglietta avvolta sul viso, gli occhi neri, cerchiati di rosso, brillano tra le pieghe della stoffa.

Li chiamano “guarimberos”, da guarimbas, barricate. Termine usato in Venezuela per indicare i protagonisti delle proteste di massa che si susseguono dal 2014. «Adesso siamo la Resistenza», precisano con orgoglio. Sono migliaia. Senza armi. Niente violenza. È un imperativo. Le armi stanno di là, sull’altra sponda del Rio Táchira. Qui, no. Ordine tassativo. Solo sassi e qualche bottiglia che diventa molotov. Sono in prima fila nella battaglia dei ponti.

Non hanno ideologia. Socialismo, democrazia, destra, sinistra. Scuotono la testa. «No, vogliamo solo la libertà». Non sono organizzati. Restano spontanei, decisi. Perché hanno perso tutto, con le famiglie divise, lasciate dall’altra parte. Come il lavoro, la scuola, l’università, gli interessi, gli amici, gli affetti, la casa. Arrivano da Barquisimeto, Valencia, Maracay, Ciudad Bolívar, San Cristóbal, Ureña, San Antonio. Città e paesi che punteggiano il lato venezuelano della frontiera. Sono accucciati, protetti dal ponte, e parlano fitto fitto.
Opposition protesters face the Venezuelan Police at the Simon Bolivar International Bridge in Cucuta, Colombia, 23 February 2019. The Venezuelan Police prevented the passage of the humanitarian cordon that was intended to accompany several trucks with humanitarian aid from the Colombian city of Cucuta to Venezuela through the Simon Bolivar International Bridge. EPA/ERNESTO GUZMAN JR.

«Giornalista?, vieni qui», dicono e con le mani invitano ad avvicinarci. «Meglio stare bassi, rischiate di prendervi una pallottola». Niente misteri. Parlano tranquilli. Combattono alla luce del sole. Si proteggono il viso. I droni dell’esercito venezuelano li inquadrano. Sanno di essere stati individuati. I loro nomi sono nella lista nera. Se rientrano saranno presi. Inghiottiti nelle carceri. Anche eliminati. Restano in prima fila. Dietro gli altri, con le donne e i bambini.

«Arrivano, arrivano». L’urlo è come una scossa. La folla assiepata sotto il ponte scatta, si disperde, si urta come un gregge impazzito. Molti, travolti, rotolano a terra. Vengono subito raccolti, sollevati e poi trascinati in mezzo al fumo nero degli incendi non ancora spenti. La “Resistenza” ha lanciato l’allarme. Un pugno di paramilitari dei “colectivos”, le squadracce create a suo tempo da Hugo Chávez per controllare le gang criminali dei quartieri più poveri di Caracas e adesso utilizzate da Nicolás Maduro per il lavoro sporco, avanzano nella fitta giungla che separa le due frontiere.

Li hanno portati dalla capitale con aerei, bus e camion. Rafforzano le frontiere, sostengono i soldati della Gnb, la Guardia nazionale bolivariana. Sono i fedelissimi. Fanno quello che i poliziotti si rifiutano di fare. Puniscono ed eliminano, se occorre. Sparano pallottole vere e spariscono, vestiti da civili, tra i villaggi del confine. Sicari. Vero terrore. Adesso avanzano con pistole e fucili. Raffiche di colpi. Stavolta non si tratta di ”perdigones”, le palline di gomma, o di chiodi arruginiti che poliziotti e soldati alternano con la pioggia di candelotti lacrimogeni. Le pallottole sibilano, rimbalzano sui pali della luce, sbrecciano i muri delle case ridotti a colabrodo, si schiantano sulle lamiere che centinaia di ragazzi e ragazze hanno strappato a colpi di ascia dai bidoni per usare come scudi.

Corriamo anche noi, la testa bassa, strisciando lungo i muri, saltando fossi colmi dei bossoli dei candelotti anche questi sparati a altezza uomo. Cilindri di acciaio lunghi una mano. Arrivano i soldati, ordini secchi, visi contratti, fucili in mano, le sicure che scattano, i caricatori innestati. Vengono a rafforzare il muro difensivo. Da una torretta piazzata in cima ad una collina scendono gli uomini dei corpi speciali della Colombia. Sono vestiti di nero, il corpo protetto da una corazza che li avvolge come ninja, passamontagna, fucili automatici, visore notturno piazzato sull’elmetto. Formano un secondo cordone. Silenziosi, si muovono sicuri. Entrano nella giungla, acciuffano due ragazzi che tutti riconoscono come miliziani dei “colectivos”. Sono giovanissimi, vent’anni al massimo. E terrorizzati. Rischiano il linciaggio. I venezuelani li odiano. Ma vengono protetti e portati via.
maduro

La corsa rallenta, la gente adesso sale sul ponte, preme sulle transenne che vibrano e traballano. Gli altri sicari sono fuggiti tra gli applausi che diventano un boato. La folla torna a sbandare e a urlare. Sul ponte, sei metri più in alto, tre, poi quattro, infine sei tra agenti e soldati venezuelani scattano verso il confine colombiano. Corrono con i fucili sollevati sulla testa. La gente continua a urlare e applaudire, a incitare, come in una maratona. Potrebbero essere colpiti di spalle dai tanti proiettili veri e falsi che continuano a fischiare attorno. Arrivano stravolti, i visi bianchi, tirati, le occhiaie scure che segnano un viso smarrito, confuso. I colleghi colombiani li accolgono, stretti a cerchio, li scortano fino alla caserma della frontiera. Nessun insulto, nessuna invettiva. Tutti sorridono e applaudono. “Grazie, libertà, Venezuela”. Hanno deciso il grande salto. Hanno disertato. In una settimana sono oltre 400.

La battaglia dei ponti si consuma a Cúcuta, dipartimento Norte de Santander, nord est della Colombia, là dove inizia a svettare la cordigliera orientale delle Ande, 700 mila abitanti adesso diventati due milioni perché primo approdo della diaspora venezuelana. È qui, sopra e sotto trecento metri di cemento e asfalto, che da otto giorni diecimila venezuelani cercano di rompere la barriera che li divide da casa. L’ultima partita nella sfida che l’opposizione guidata dal presidente autonominato Juan Guaidó ha lanciato a Nicolás Maduro. I ponti che uniscono due paesi da sempre fratelli e adesso divisi dalla rottura diplomatica decretata dal delfino di Chavez svettano paralleli a cinque chilometri di distanza. Ureña e Bolívar. Qui c’è stato il tentativo di far passare le derrate di farmaci e cibo gestiti da Usaid, qui ci sono state 12 ore di guerriglia con 265 feriti.

Intervista
"Io, giornalista in fuga da Maduro, perché ho osato criticarne il regime"
22/2/2019
Una grande battaglia condotta dalla gente, senza leader e organizzazione. Mossa solo dal desiderio di rompere il blocco e rientrare nel paese che amano e che hanno dovuto lasciare. Colpisce l’assenza dei dirigenti dell’opposizione, i parlamentari dell’Assemblea nazionale che erano accorsi il giorno del grande concerto organizzato da Richard Branson assieme ad altre 250 mila persone.

Erano riapparsi anche il giorno dopo, quello annunciato da Juan Guaidó come la data del rientro in patria, con il presidente autonominato che sfilava aggrappato alla camion e guidava la “valanga umana”. Un’apparizione veloce, per fotografi e tv. Erano spariti tutti. Chi ha resistito sui ponti, si è beccato i proiettili di gomma e i fumi dei lacrimogeni sono gli altri. Uomini e donne, a decine di migliaia, che adesso vagano senza un posto dove dormire e qualcosa da mangiare.

Le Ong hanno allestito un campo vicino al terzo ponte, quello di Tienditas, nuovissimo, mai inaugurato, anche questo bloccato da una cisterna e due container. Ma resta vuoto. È lontano dai confini e rischia di trasformarsi in un centro profughi. Non ci sono indicazioni, notizie, direttive. A vigilare e proteggere resta la polizia con i soldati colombiani. Osservano, restano a distanza, muovono le barriere, bloccano quelli che si lanciano verso il confine, impongono un minimo di ordine in questo girone infernale.

La Colombia fa quello che può. Protegge, soprattutto. I rifugiati e i militari che disertano. È grazie a questo lavoro difficile, delicato, mai violento e mai complice, che si è evitata finora una strage. Tra queste migliaia di persone ci sono tantissimi frontalieri. Gente che vive in Venezuela ma lavora o studia in Colombia. Il Símon Bolívar è diventato in questi anni il simbolo di una diaspora che ha portato quasi tre milioni di uomini e di donne fino in Cile. Ogni giorno lo attraversano, almeno fino a una settimana fa, 3.500 venezuelani. Garantisce il passaggio per trovare medicine e cibo scomparsi in Venezuela. La sola strada per varcare il confine è un sentiero tra la boscaglia percorso da un fiume umano. Si chiama las Truchas e porta verso San Antonio. Al terminal dei bus e dei micro ti offrono passaggi con le guide. Non ci sono controlli. Basta pagare. Cinquantamila pesos, 15 euro. Quattro hamburger in Venezuela, un mese di salario minimo. È la tassa per la guerriglia colombiana: l’Eln, l’Esercito di Librazione Nazionale, è attivo nella zona della frontiera venezuelana. Garantisce ordine e sicurezza. Con la complicità dei soldati che chiudono un occhio e si fanno dare la percentuale.

Un paese all'inferno
Venezuela tra molotov e miseria: qui si fa la coda per un sacco di farina
21/2/2019
Basta guardare questa gente carica di sacchi e borse mentre sfilano nel sentiero avvolto dalla giungla per capire che soffre la fame. Sono magri, smunti, mal nutriti. Hanno bisogno di tutto. Lunghe file davanti alle scuole per un pasto. Cúcuta ha retto all’impatto. Sopporta e gestisce un vera invasione senza intolleranze e xenofobie. Ma accusa le difficoltà di un flusso provocato da altri. Resiste una solidarietà perché i confini disegnati dagli Stati non cancellano le stesse usanze e abitudini. Chi resta qui a pochi chilometri dal confine si arrangia e si ingegna. Compra e rivende di tutto lungo i marciapiedi trasformati in un mercato all’aperto. Alcuni girano con un sound e cantano i brani più famosi agli incroci e ai semafori. Niente elemosina. Conservano l’orgoglio di un popolo ferito, affamato, costretto alla fuga. Davanti alla miseria creata da un presidente che prometteva progresso e benessere per tutti, riscattando anche gli esclusi, crollano gli steccati ideologici. Non basta essere di sinistra per difendere chi ha fallito. Perché è proprio la sinistra la grande assente in questo dramma che il mondo segue da vicino ma con distaccata rassegnazione. Compresa l’opposizione venezuelana, sempre divisa da personalismi, velleità, ambizioni, duri contro flessibili, intransigenza contro dialogo. Nel vuoto di questa tragedia trova spazio la nuova “Resistenza”. Fatta di sassi e bottiglie. Con le armi nascoste, pronte ad essere imbracciate.