La conquista delle ultime roccaforti del sedicente Stato Islamico lascia decine di migliaia di vedove rabbiose e di ragazzini imbevuti di jihadismo. Che pongono nuovi dilemmi all'Occidente. E allontanano la vera pace
«Dio onnipotente dice: quelli che non credono saranno testati. Allah saprà scegliere i puri e gli autentici tra i fedeli e separarli dai falsi e dai bugiardi, che saranno puniti». Makhmoud parlava così, un anno fa dopo la caduta di Mosul, in una prigione irachena. Makhmoud, sedici anni, avrebbe voluto morire combattendo per lo Stato Islamico, invece è sopravvissuto alla sua fine. Sotto le bombe ha perso una gamba ma non la fede, granitica, in Daesh. Per lui, come diceva il portavoce di Isis Abu Mohammad al Adnani, ucciso da un bombardamento nell’agosto del 2016 in Siria, «perdere Mosul, Sirte o Raqqa non significa niente per noi, è solo terra».
Il jihad non è finito. Bisogna solo saper aspettare. «La soluzione all’ostacolo è la pazienza, solo la pazienza porterà alla ricompensa di Allah», scriveva anche l’ideologo jihadista Anwar al-Awlaki. Pazienza e attesa: la sconfitta militare è vista solo come una battuta d’arresto temporanea. E anche oggi, dopo la caduta di Baghuz (il villaggio siriano sull’Eufrate, ultimo bastione di Isis), questa è la convinzione di chi ha ancora nel cuore Daesh.
All’apice della sua espansione l’Isis controllava 88 mila chilometri quadrati tra la Siria e l’Iraq, gestiva giacimenti petroliferi, vendeva petrolio grezzo e riscuoteva stabilmente imposte dai cittadini che vivevano nell’autoproclamato Califfato: si stima fossero otto milioni di persone. Oggi è stato annientato militarmente, le Syrian Democratica Forces il 23 marzo hanno dichiarato vittoria, e sventolato la loro bandiera sulle macerie dell’ultima battaglia.
La guerra per sconfiggere l’Isis è durata 1.737 giorni, il costo materiale e umano è stato altissimo. Centomila bombe lanciate su Sirte, Mosul e Raqqa e sui villaggi circostanti. Intere aree delle città sono state rase al suolo. La coalizione internazionale, che ha coinvolto 70 paesi, ha ammesso la responsabilità di 1.190 vittime collaterali ma il centro studi indipendente Airwars, che ha monitorato le vittime civili, stima che il numero dei morti supererebbe gli 11 mila.
Nonostante l’entusiasmo del presidente americano Donald Trump, secondo il quale la débâcle militare è la prova che l’organizzazione «ha perso prestigio e potere», Joseph Votel, capo uscente del Comando Centrale degli Stati Uniti, parlando al Congresso ha usato toni meno ottimisti: «I combattenti e le donne che si arrendevano a migliaia uscendo dall’ultima enclave siriana di Baghuz sono impenitenti e radicalizzati. L’estremismo di queste persone sarà un problema per generazioni».
Votel vede con chiarezza che la fine del controllo territoriale non corrisponde alla fine dell’ideologia, tutt’altro. E sa che il rischio è che ora l’Isis passi dalla forma statuale a quella insurrezionale, tornando quindi alle sue radici, alle modalità dei gruppi che l’hanno generato. Quelle che al Qaeda in Iraq utilizzava tra il 2008 e il 2012, agendo come una mafia, finanziandosi con rapimenti e ruberie, attuando campagne di omicidi mirati e attentati. E l’Isis sta già dimostrando di saper sopravvivere alla sua sconfitta militare: gli attacchi del gruppo aumentano di mese in mese e solo a febbraio l’Iraq ha subito una media di quattro attentati al giorno.
Oggi in Iraq sono detenuti ventimila prigionieri sospettati di avere avuto legami con l’organizzazione, sottoposti a processi sommari ed esecuzioni spesso arbitrarie. In Siria solo dal villaggio di Baghuz nelle ultime settimane di guerra sono scappate 60 mila persone, tra loro 40 mila bambini. Quattro volte la cifra prevista alla vigilia della battaglia. Questi numeri non sono preoccupanti solo per la gestione dell’emergenza umanitaria - i campi profughi erano stati pensati e strutturati per centinaia e non migliaia di persone - ma anche perché mettono alla prova le istituzioni occidentali: i governi europei si sono dimostrati riluttanti nel riportare a casa mogli e figli dei miliziani, i processi di deradicalizzazione e reinserimento per quelli già tornati stentano a decollare. In più dimostrare la colpevolezza e le reali responsabilità dei foreign fighter sopravvissuti alla guerra richiede tempo e prove che spesso non possono essere raccolte.
Ma soprattutto pone le società occidentali di fronte al dilemma fondamentale: come affrontare l’attrazione ideologica della narrazione di chi divide il mondo in soldati di Dio e infedeli, rifiutando le leggi dell’uomo e imponendo un dominio basato su una interpretazione distorta della religione? Cosa fare dei combattenti in carcere? Lasciar tornare a casa i foreign fighter e processarli o revocare loro la cittadinanza, come ha già fatto di recente la Gran Bretagna? E come gestire migliaia di donne vedove e ancora fedeli all’ideologia dell’Isis e migliaia di bambini orfani, apolidi e addestrati al combattimento e al martirio?
Finora ha prevalso la politica del “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Meglio tenerli altrove, subappaltare la gestione del problema alle forze curde o alle autorità irachene. I governi europei si sono dimostrati, per esempio, incapaci di affrontare il nuovo ruolo delle donne dell’Isis, non già donne sottomesse e costrette ad una adesione cieca ma parte integrante della costruzione del Dawla, lo Stato. Come dimostrano le immagini delle ultime donne evacuate da Baghuz, filmate mentre urlano ai giornalisti «infedeli», mentre gridano che si sono arrese solo per preservare l’ideologia. Donne madri della nuova generazione di jihadisti, gli ashbal al khilafa, i cuccioli del califfato. Madri-reclutatrici, che hanno preso il testimone dei padri uccisi, venerati come martiri. Madri radicalizzate, che porteranno nel futuro il progetto del Califfato.
Questa nuova funzione delle donne nel progetto dell’Isis dovrebbe fare agire i governi avendo imparato la lezione del passato, per evitare che questa sconfitta militare si traduca in un’altra fase della campagna del jihadismo radicale. Tuttavia oggi assistiamo al destino di migliaia di donne stipate in invivibili campi profughi e centinaia di minori arbitrariamente detenuti. Chi si deve far carico delle loro sorti, da cui dipende la sicurezza presente e futura di tutti?
La storia recente ha insegnato che anziché essere mezzi di punizione e rieducazione, le carceri e i campi profughi sono rifugio di radicalismo e terreno fertile dell’estremismo futuro. La mancata gestione dei foreign fighter e delle famiglie dell’Isis rischia di moltiplicare in pochi anni la violenza. Gli ufficiali americani pensano che tra la Siria e l’Iraq ci siano ancora tra i 15 mila e i 20 mila sostenitori armati, cellule dormienti. Cui vanno aggiunti i bambini, che cresceranno rabbiosi e stigmatizzati.
Il rischio, come avvenuto dopo il ritiro delle truppe Usa dall’Iraq, nel 2010-2011 è guadagnare terreno sul piano militare ma fallire su quello strategico a lungo termine. Il rischio è che nelle prigioni siriane e irachene si consolidi e cresca il messaggio dell’attesa e della pazienza, insieme alla sete di vendetta. Così come ha esortato Abu Hassan al Muhajir, il portavoce dell’Isis, in un messaggio audio alla vigilia della sconfitta finale di Baghuz: «Schierate cecchini e piazzate ordigni esplosivi, vendicate il sangue dei fratelli e sorelle».
Per evitare che lo Stato Islamico risorga dalle sue rovine è necessario che i governi occidentali si facciano carico delle sorti dei sopravvissuti al progetto del Califfato, alle mogli e ai figli di Isis, perché questi problemi, se lasciati irrisolti, costituiranno le basi per il rapido ritorno al potere del gruppo terroristico in aree abbandonate e neglette.