Si esibisce una o due volte a stagione, da solo. Non dà interviste, impedisce alle tv di riprendere le sue corride. Quando è nell’arena, dimentica di avere un corpo. Ed è ormai un mito

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Alle sei e mezza della tarde, nel sabato infuocato in cui la festa del Corpus Domini arriva al suo culmine, il Caffè Brasilia di Granada è preso d’assalto. Tavolini zeppi all’inverosimile. Giovani dalla pelle abbrustolita e dalle maniere flamenche che accennano canti toreri. Aficionados di ogni parte del mondo che si confidano fumando sigari cubani. Infinite coppe in cui tintinna ghiaccio e gin tonic, whisky cola, tinto de verano. Camerieri che volano in camicie bianche madide di sudore. C’è qualcosa di inesprimibile in questa attesa furibonda. Il fatto è che l’ora della corrida più importante dell’anno si avvicina e proprio qui davanti sta per passare il Messia.

Il Caffè Brasilia possiede una fortuna, oltre all’abilità dei suoi baristi che confermano il mito hemingwayano secondo cui spagnoli sono i migliori camerieri e baristi del mondo. Questa fortuna è la sua posizione. Esattamente di fronte alla distesa dei suoi tavolini sta infatti la puerta de cuadrillas della Plaza de Toros. Ossia la porta attraverso cui accedono all’arena i toreri e le autorità e che in occasioni eccezionali può diventare la via del miracolo. Messia e miracolo sono espressioni esagerate, ma non se ne usano altre, adesso. Del resto a suscitare l’entusiasmo che vibra nei dintorni della plaza e percorre le vie di questa città di sconcertante bellezza non è una figura di spicco come il Re Emerito, Juan Carlos, di cui si vocifera l’arrivo. I quindicimila spettatori che in tre giorni hanno esaurito gli abbonamenti dell’intero cartellone taurino pur di assistere a questa corrida sono in attesa di ben altro. Quello che in termini più laici potremmo limitarci a definire un torero da leggenda. Certamente il più grande degli ultimi decenni nonché il mito con cui la corrida si è gettata nel nuovo millennio dopo tre secoli di vita.

Si chiama José Tomás. È nato il 25 agosto del 1975 a Galapagar, nei dintorni di Madrid, dove suo nonno lo iniziò fin da bambino alla febbre del rito tauromachico. Schivo, magrolino, dedito alla realizzazione di un’idea con l’abnegazione dei mistici, fin dagli inizi la sua arte suscitò tale sconcerto che un grande esperto di corrida come Joaquín Vidal sentenziò in un celebre articolo: «È arrivato José Tomás e, per la festa dei tori, il confine fra prima e dopo è segnato per sempre». Il dopo, però, da quel 1997 in cui JT sconvolse la cosiddetta Scala della tauromachia, ossia Las Ventas a Madrid, non è stato il semplice percorso di una carriera torera. Ferite, sfide, ossessioni, fughe, ritorni, e soprattutto silenzi sempre più intensi e assenze sempre più lunghe hanno segnato questi anni. Tanto che dal 2016 JT entra nelle arene solo una o due volte a stagione. E in quelle occasioni il mondo taurino assiste a un fenomeno mai contemplato prima nella sua storia.

«È lui. È lui», il brusio percorre la folla come un’onda. Due poliziotti a cavallo accompagnano l’ingresso del furgoncino su cui i toreri arrivano alla plaza, perdute ormai le usanze antiche delle folkloristiche carrozze. Non è un rito fermo nel passato, la corrida. Semmai è un rito fuori dal tempo. E JT incarna perfettamente questa dimensione atemporale. Mentre scende con gli occhi persi, la pelle livida della paura che qualsiasi grande matador affronta ogni volta che sta entrando nell’arena, uomini e donne impazziti si lanciano su di lui gridando “Maestro, Maestro” per toccarlo come una divinità. I poliziotti spronano i cavalli alti sulle zampe posteriori e tirano scudisciate come in una repressione d’altri tempi. Ma è in gioco l’incolumità dell’uomo che fra poco sfiderà quattro tori che superano la mezza tonnellata. Perché è un uomo, malgrado il delirio di fanatismo quasi religioso che lo circonda, JT. Talmente umano e talmente estraneo alle abitudini taurine consolidate che l’immaginario collettivo ha finito per collocarlo in una dimensione extraumana.

Come si spiega un simile paradosso? Quale il mistero? In verità, la storia di questo matador che da solo muove l’economia di una città non è così difficile da ripercorrere. Anche perché è così ridotta all’osso e priva dell’aneddotica tipicamente taurina che viene da sorridere. Sono circa vent’anni infatti che JT non concede un’intervista. La sua vita privata è completamente negata ai riflettori. Fatta eccezione per la passione calcistica immolata all’Atletico Madrid e per la propensione a leggere poesia e filosofia, di lui si sa solo ciò che non fa. Non frequenta colleghi. Non si fa vedere sugli spalti delle arene. Non prega nelle cappelle della plaza. E soprattutto non concede alle televisioni di riprenderlo mentre torea. Nonostante l’enorme quantità di denaro che entra in gioco con i contratti televisivi, JT ha sempre negato il suo assenso. La corrida è un rito, una cerimonia a cui si può soltanto partecipare. Un crimine, dunque, tentare di restituirla sullo schermo per la fruizione individuale in cui sensi come l’olfatto, l’udito e l’estasi tipica del coinvolgimento teatrale sono negati. D’altronde, i soldi che muove il torero possono ben fare a meno dei contratti milionari che oggi le tv assicurano.

I conti me li ha mostrati ieri l’impresario dell’arena di Granada, un andaluso quarantacinquenne di nome José María Garzón. L’impatto economico sulla città in questi giorni è di oltre quindici milioni di euro, mentre il ritorno in termini di pubblicità sfiora i cinque milioni. Numeri da capogiro. Benché la corrida, in generale, non sia affatto in disarmo come sostiene una certa retorica (si tratta del secondo spettacolo più seguito in Spagna, per nulla in calo se è vero che Madrid quest’anno ha battuto ogni record: oltre 640 mila i biglietti staccati durante il ciclo di corride), quello che accade con questo torero è un caso a parte. Non soltanto dovuto alla rarità delle sue esibizioni, ma a qualcosa che lo rende estraneo, diverso, abitante di una dimensione completamente altra rispetto a quella in cui si muovono i toreri comuni, che siano star o giovanissimi in cerca di fortuna.

Di cosa si tratta? L’unica certezza da cui è possibile partire per lanciarsi alla ricerca di una spiegazione mi è chiara nel momento esatto in cui, alle sette in punto, i clarini annunciano l’inizio della cerimonia e JT entra nell’arena per il paseillo, la breve parata rituale con cui i toreri si presentano al pubblico e al Presidente che gestisce ogni aspetto del rito. Oggi il torero è solo. Sfiderà quattro tori, non i due abituali assieme a due colleghi. E basta vederlo immobile, con i piedi piantati nella sabbia, per avere la percezione di trovarsi di fronte a una specie di statua che impone da sola il silenzio. È la presenza. La personalità. Un dono di Madre Natura, forse? Accanto a me, Antonio Lorca, critico taurino del Pais, il più severo nel condannare certa decadenza della tauromachia dei nostri giorni e per nulla indulgente con JT, me lo dice senza dubbi: «Vedi Matteo, ha una tale personalità che riesce a trasmettercela immediatamente, senza che ci sia possibilità di darne una spiegazione».

Quel che segue è uno dei trionfi più “apoteosici” come si dice in Spagna che sia possibile immaginare. Di fronte ai suoi quattro tori, JT sfodera tutta la ricchezza della sua arte nel maneggiare il capote e la muleta, ossia il grande panno giallo e rosa con cui si ammansisce la carica del toro appena entrato nell’arena e quello piccolo e rosso con cui si chiama l’animale alla danza prima di dargli la morte. Ma soprattutto mostra come la presenza che egli impone agli spettatori sia la stessa che impone ai suoi tori, ossia una presenza basata sull’immobilità, sulla verticale e statuaria concentrazione con cui egli doma se stesso e le sue paure, per farsi corpo che non è più corpo. Eccolo il vero segreto che rende JT lontano dal nostro mondo. La sua corporeità, nella fermezza quasi sacrale, nella decisione irrevocabile di mantenersi ieratica, si dissolve. Fra le frasi taurine a cui si ricorre per spiegare questo fenomeno, generalmente domina la battuta con cui Juan Belmonte, rivoluzionario della corrida negli anni Venti, spiegò il proprio miracolo: «Se vuoi toreare davvero, dimentica di avere un corpo».

Quante volte JT abbia dimenticato il suo corpo è difficile dirlo. Innumerevoli le cicatrici che lo ricoprono e innumerevoli le situazioni in cui ha ignorato il sangue che sgorgava da ferite profonde diversi centimetri pur di completare l’opera. Ma c’è un momento che più di ogni altro ha segnato la sua vita, o meglio la sua sopravvivenza. È il 24 aprile del 2010. JT torea nel Paese che dopo la Spagna ama di più, il Messico. Da tre anni è tornato a calcare le arene dopo un ritiro su cui non ha mai dato spiegazioni durato un lustro intero. «Una vita senza toreare non è degna di essere vissuta», ha mormorato prima del suo rientro trionfale, citando - chissà se consapevolmente o meno - il Socrate dell’Apologia: «Una vita senza filosofare non è degna di essere vissuta».

In effetti, toreare e filosofare non sono attività così diverse. In entrambi i casi, se si va fino in fondo, si rischia la morte. Ed è con la morte che JT lotta attraverso i suoi tori. A Aguascalientes, però, quel pomeriggio del 2010, il torero arriva a un vero e proprio soffio dalla fine. Un toro di nome Navegante, in un passaggio complesso, esita di fronte al suo corpo e poiché lui, diversamente da chiunque altro, non fa mai un passo indietro pur di non rivelare la propria corporeità, Navegante se lo trova a pochi centimetri dal corno sinistro, ignora il panno rosso e lo trafigge, strappandogli la vena femorale. Quando arriva nell’infermeria della plaza JT ha perso più della metà del suo sangue, la vita sta volando via e, mentre il pubblico risponde in massa alla richiesta di una donazione, i chirurghi operano senza anestesia e, contro ogni probabilità, lo salvano.

Pochi confidano che dopo una simile tragedia l’uomo voglia ricominciare. E invece sì. Ma nessun dolore è vano, come spiegarono fin dalle origini i tragici antichi. Così JT nel silenzio della sua casa di Estepona comincia a scrivere al toro che lo ha quasi ucciso. A quella lettera, risponde Mario Vargas Llosa, altro grande aficionado. Ne esce un piccolo libro prezioso intitolato Dialogo con Navegante. È probabilmente l’arma con cui JT si lancia in questi ultimi sconcertanti anni di attività taurina che lo spingono definitivamente in una dimensione che pare lontana da quella corporea e umana. Il 16 settembre del 2012 nell’anfiteatro romano di Nîmes JT sfida da solo sei tori, in un trionfo simile a quello di oggi. Anche quel giorno ero presente sugli spalti, come molti altri tomasisti. Perché così vengono ormai chiamati coloro i quali non si perdono più un’apparizione di questo sacerdote dell’unico rito laico che abbia mantenuto una connessione esplicita con l’antica tragedia greca.

Uscendo dalla Monumental di Frascuelo, come si chiama la Plaza de Toros di Granada, gioiello in stile neomudéjar del 1927, uomini e donne, ragazzi, bambini, si aggirano come fantasmi. In molti hanno pianto. Parecchi cercano una risposta negli abbracci. Echeggia ancora il coro “torero, torero, torero” che ha accompagnato JT in trionfo sulle spalle fino alla strada. Fra la folla, vaga Giorgio Montefoschi, scrittore Premio Strega 1994, che assieme a un amico aficionado di Milano e le rispettive mogli, mi confessa di non avere alcuna parola a disposizione. Molti sono gli italiani. E molti i francesi, i portoghesi, i messicani. Ci rifugiamo tutti nei bar dei dintorni. Ognuno cerca qualcosa a cui aggrapparsi per custodire il sogno che ha vissuto. Per non farsi sfuggire l’arte che, come in qualsiasi rappresentazione teatrale, è breve e irripetibile.

Ognuno però sa anche bene che qualsiasi ricerca è vana. Tutti gli appassionati di questo rito mediterraneo non replicabile sanno infatti che ha ragione JT e nessuna immagine potrà mai restituire l’estasi che si è vissuta collettivamente. Ma la tristezza non segue lo svuotamento che si prova dopo questa specie di orgasmo estetico. Tutti condividono un’idea che domina il concetto stesso di arte tauromachica. Ossia quello che un aforisma andaluso ha espresso con la compiutezza e la perfezione della sua intrinseca brevità: in questo nostro mondo, solos  l’effimero è eterno.