In occidente è definito nazionalista, integralista, a volte fascista. Ma Il paese si riconosce in lui. Compresi molti "emergenti" e millennial
Metti una sera a cena in una Delhi a 47 gradi sulla colonnina di mercurio. L’atmosfera all’interno, nonostante l’aria condizionata, è più bollente che all’esterno. Il nuovo governo si è ormai insediato, le elezioni sono finite da un mese, ma le polemiche roventi che hanno accompagnato la tornata elettorale più incendiata e incendiaria dell’India moderna non si placano ancora.
La nazione ha scelto ancora una volta di essere guidata dal premier uscente Narendra Modi. L’uomo definito dal settimanale Time “il grande divisore”, accusato di sostenere e dare mano libera agli integralisti hindu, di voler trasformare il paese in una dittatura fascista e di voler ridurre la minoranza musulmana a un patetico ricordo. La nazione ha scelto, nonostante la tornata elettorale sia stata combattuta senza esclusione di colpi diventando in pratica un referendum sulla figura del premier, e il verdetto è stato indiscutibile: il Bjp, il partito di Modi, ha ottenuto una maggioranza clamorosa, addirittura più grande di quella ottenuta alle elezioni del 2014.
L’opposizione è stata polverizzata, e assieme all’opposizione sono scomparse tutte le categorie e i parametri fino a questo momento adottati per definire e descrivere la società indiana. L’aria che tira, nei salotti della capitale, è un misto di euforia e di sgomento. La nazione che esce dai risultati delle urne è un paese di cui nessuno, neanche i più accesi sostenitori del governo uscente, aveva sospettato fino a questo momento l’esistenza.
Ed è una nazione che a quanto pare, sfugge a tutte le definizioni e le categorie valide fino a ieri. La maggioranza bulgara con cui Narendra Modi ha vinto le elezioni significa infatti anzitutto, dati alla mano, che a votare per il governo “fascista e anti-musulmano” del Bjp non sono stati soltanto i sostenitori dell’hindutva, la supremazia hindu, o gli abitanti del cosiddetto “hindi belt” (le ragioni in cui si parla solo hindi) ma anche quelle minoranze che, in teoria, avrebbero dovuto aborrire Modi e i suoi votando compatti per il Congress che fu di Nehru e Indira Gandhi. Musulmani, fuori casta, minoranze etniche e/o linguistiche, poveri in generale e abitanti degli slum. Più una quindicina di milioni di millennial che votavano per la prima volta e uno zoccolo duro di middle class rampante venuta fuori negli ultimi anni.
Sostenere semplicisticamente che ha vinto il nazionalismo hindu sconfiggendo l’India del secolarismo liberale significa adoperare le lenti sbagliate. Soprattutto perché nella società indiana i nostri parametri, quelli che l’Occidente applica all’analisi delle società asiatiche, sono fluidi, complessi e a volte del tutto rovesciati. Secondo Sushant Sareen, uno dei più rispettati analisti dell’Observer Research Foundation, «la morte del privilegio è una delle chiavi di lettura più significative della società indiana fotografata dall’ultimo risultato elettorale». «Una società aspirazionale, per definizione», prosegue, «non può tollerare al suo interno il privilegio. E se è vero che l’India è una società aspirazionale, ci si doveva aspettare che si ribellasse contro il privilegio dell’élite e ne rifiutasse le stesse basi. L’India è diventata una terra di possibilità per tutti coloro che sono capaci di mettere da parte gli svantaggi con cui sono nati e afferrare le opportunità a portata di mano. Per quelli che si fanno largo nella società, e ottengono risultati perché sono affamati di successo: questo è il manifesto dell’India nel 2019».
In India i portatori di valori liberali e laici, guidati dal partito del Congress, sono paradossalmente portatori anche di una cultura elitaria e di privilegio dinastico. Il Congress è guidato da Rahul Gandhi, erede di una dinastia politica che fa capo a uno dei padri della patria, Jawaharlal Nehru, a sua figlia Indira Gandhi e a Rajiv Gandhi, figlio di Indira e padre di Rahul. Ai posti chiave del partito siedono Sonia Gandhi, madre di Rahul e vedova di Rajiv e Priyanka Gandhi Vadra, sorella di Rahul. Gli appartenenti ai quadri alti del Congress sono tutti membri di caste alte e di quella alta borghesia che manda i figli a studiare e a fare le vacanze all’estero.
Nei confronti del “popolo” hanno, secondo la percezione comune, un atteggiamento da dame di carità che gli indiani a quanto pare non sono più disposti a tollerare. Monica Halan, giornalista economica, sottolinea così: «È finita la cultura del povero che tende le braccia al ricco che lo sfama e gli dice “tu sei mia madre e mio padre”. L’immagine della bella signora in sari che sfama le folle straccione e promette pane e protezione non fa più presa, anzi».
A fare presa sull’immaginario collettivo è piuttosto la versione indiana del sogno americano: la favola del figlio di un povero venditore di chai (il tè indiano) che lavorando duramente passo dopo passo arriva a diventare primo ministro dell’India. Narendra Modi è di casta medio bassa, non ha frequentato buone scuole, parla un inglese tremendo e non ha una famiglia potente alle spalle. E se è vero che negli ultimi due anni ha lasciato mano libera alle frange più estremiste del suo partito, è vero anche che personalmente si cura poco o nulla dei dibattiti ideologici e delle speculazioni filosofiche.
Tempo fa, interrogato sulla ormai decennale questione della costruzione di un tempio dedicato al dio Rama sulle rovine di una moschea distrutta dagli integralisti hindu, rispondeva: «Personalmente mi preoccupa molto più la costruzione di servizi igienici». E così è stato. I cittadini indiani, senza distinzione religiosa o etnica, hanno infatti ottenuto servizi igienici, bombole del gas gratis, case di mattoni, allacci dell’elettricità finanziati dallo Stato. Non tutti e non immediatamente, certo, ma quelli che ancora aspettano hanno la certezza di poterli ottenere. E se qualcuno pensa che non sia abbastanza, provi a domandare a una delle donne di villaggio costretta per anni ad andare a fare i propri bisogni all’aperto o a cucinare sul fumo intossicante del carbone e dello sterco pressato.
«Noi abbiamo scelto di non vedere», sostiene Shekhar Gupta, direttore del quotidiano online The Print, «abbiamo scelto di non vedere o, peggio, di girare la testa dall’altra parte. Abbiamo scelto di credere che il miglioramento nella vita quotidiana di milioni di persone non fosse avvenuto, che fosse transitorio se era avvenuto o che, in ultima analisi, non avrebbe contato. Abbiamo scelto di non vedere che questa gente ha finalmente e per la prima volta ottenuto qualcosa, senza dover pagare il pizzo a qualcuno o chiedere il patrocinio di qualcun altro».
E mentre il paese reale otteneva denaro in tempi brevi per curare i propri cari, mentre alle banche veniva ordinato di concedere prestiti alla classe media con una certa flessibilità per comprare casa o cominciare attività in proprio, mentre la pubblica amministrazione veniva rivoluzionata e costretta per la prima volta a rispondere in tempi reali alle esigenze dei cittadini e a essere ritenuta responsabile del proprio operato, nella bolla dei giardini e dei cottage del centro di Delhi, negli studi televisivi di Noida, si mettevano in evidenza i valori macroeconomici e i mancati risultati del governo in termini di creazione di posti di lavoro, di sviluppo agricolo e di politiche monetarie. Si parlava di Norimberga e di avvento del nazismo paragonandolo all’ascesa dell’Rss, uno dei movimenti integralisti hindu che sostiene Modi, senza calcolare che Norimberga e nazismo, per la maggioranza della popolazione indiana, sono parole senza significato.
Parte della stampa indiana e praticamente la stampa estera in massa hanno analizzato il voto e la società ancora una volta in termini ideologici: Pankaj Mishra, uno scrittore indiano, ha sostenuto dalle pagine del New York Times che l’India, i giovani in particolare, è stata bombardata da fake news a mezzo social media e da propaganda elettorale. Senza accorgersi che la notizia, se questo è vero, è che adesso milioni di persone dispongono di un acceso a Internet e di uno smartphone anche in zone in cui fino a ieri si illuminavano le case con candele e lumi a olio. E che parlano inglese, la lingua dell’élite, almeno un po’.
Il fatto è che, piaccia o meno, Narendra Modi ha restituito all’India l’orgoglio nazionale: non soltanto ha dato la classica canna da pesca e non un piatto di pesce ai bisognosi, ma li ha fatti sentire cittadini del proprio paese. Ha messo l’India al centro della scena internazionale, ha fatto della politica estera uno dei suoi fiori all’occhiello e, rovesciando decenni di politica consolidata, ha reagito a un attacco terroristico smettendo di porgere metaforicamente l’altra guancia ogni volta che terroristi pakistani colpiscono l’India. Il fatto è, e pochi lo avevano capito prima del voto, che per la prima volta nella storia moderna del paese, gli indiani non si sentono più mendicanti alle porte del paradiso occidentale ma cittadini con diritti e doveri identici a quelli dei cittadini del resto del mondo. Cittadini e basta, figli di una nazione e non di una minoranza religiosa o di un gruppo etnico-linguistico. Con buona pace della tradizionale di visione in caste e gruppi minoritari vari.
«Continuare e pensare il paese in termini di comunità religiose o etniche, in termini di minoranze», sostiene l’ex-ministro Arif Muhammad Khan, «è non soltanto contrario allo spirito e alla lettera della Costituzione indiana ma anche un residuo di mentalità coloniale. Credere che soltanto un musulmano possa rappresentare i musulmani, un hindu gli hindu... è un relitto del pensiero coloniale. Io ho sempre rappresentato i cittadini che mi hanno eletto. I cittadini indiani, tutti, non gli hindu o i musulmani». E per la prima volta, chiosa un monumento del giornalismo indiano come Chitra Subramaniam: «Abbiamo finalmente reclamato il diritto di essere chi vogliamo essere senza che altri ci dicano chi dovremmo essere. L’India ha finalmente votato per l’India». E il resto del mondo farebbe meglio a tenerne conto.