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Il dubbio ha un suo fondamento, ma è difficile scioglierlo oggi. Da un lato Trump gongola al cospetto delle mille divisioni ideologiche e territoriale presenti tra le fila dei Democratici, e provoca i più reconditi istinti razzisti per incattivire l’agenda politica. Dall’altro, però, ricava più di una preoccupazione dalla vitalità, pur disordinata, che i Democratici stanno mostrando dopo le elezioni di medio termine. Una vitalità nutrita da una ripresa della militanza di base, soprattutto negli Stati costieri, e organizzata in un rilancio della partecipazione alle primarie. È come se la sinistra americana si fosse ripresa le strade e le piazze d’America. Sebbene il gioco le funzioni meglio negli Stati tradizionalmente democratici, meno in quelli del MidWest, che però saranno decisivi nel 2020.
C’è una scena di “Knock Down the House”, l’enfatico documentario Netflix sulle gesta di Alexandria Ocasio-Cortez, che abbatte un paio di decenni di chiacchiere italiane sulla fine della militanza politica. Siamo in una parrocchia cattolica del Bronx, dentro una sala d’incontro un po’ palestra (s’intravede sullo sfondo il canestro del campo da basket), un po’ teatro (tre speaker da un piccolo palcoscenico parlano a una platea di ventiquattro persone - sì, le ho contate, col fermo immagine alla prima inquadratura sul pubblico). È un dibattito politico delle primarie dei Democratici del 2018, per scegliere il candidato del partito che correrà per il seggio di deputato del quattordicesimo distretto di New York City. Un distretto blindato per i Democratici, quindi chi vince le primarie è sicuro (o sicura) di trasferirsi a Washington.
Le ventiquattro persone sono sedute in modo disordinato su sedie di plastica piazzate all’abbisogna, come in una qualsiasi parrocchia della provincia italiana. Il deputato in carica da vent’anni Joe Crowley, membro dell’ala sinistra del partito, che corre per tenere il seggio, non è presente e ha mandato una sua sodale, la consigliera Palma, a sostituirlo. La sfidante, Alexandria Ocasio-Cortez, stigmatizza subito la sua assenza. E il dibattito entra nel vivo.
Si parla di politica internazionale, dal disastro della guerra in Iraq allo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme. Come sempre, però, le domande complicate arrivano a fine dibattito, e sono domande di un afroamericano che si lamenta per i problemi che ha la sua gente con i permessi di soggiorno, o di un americano yemenita che denuncia le difficoltà che la sua comunità deve sopportare per fare impresa, a differenza degli altri cittadini americani. Ovvio: l’intelligenza della regia e il taglio del montaggio sono tutti concentrati nel far passare la Ocasio-Cortez come una specie di incrocio tra Giovanna D’Arco e Rosa Luxemburg. Ma il punto è un altro.
Il punto è che, in quella grande sala disadorna della parrocchia del Bronx (con gli altoparlanti affissi ai muri, il moderatore vestito di bianco, i bicchieri di plastica e la bandiera a stelle e strisce nell’angolo del palco), va in scena la pretesa di voler parlare, insieme, dei più grandi problemi che affliggono la nazione e delle questioni locali che affaticano la vita quotidiana. Va in scena la richiesta di una visione della cosa pubblica che tenga insieme alta e piccola politica. Va in scena un rito fondamentale di quel culto democratico che oggi sembra aver perso fascino e che, invece, nelle parole dell’americano yemenita al suo futuro rappresentante in Parlamento, riprende energia e ritrova speranza.
“Knock Down the House”, forse neppure avendolo come primo proprio obiettivo, diventa così un formidabile elogio alla democrazia americana e, in particolare, delle sue pratiche. Della prima, perché le minoranze accorse a sostenere la portoricana Ocasio-Cortez reclamano, a gran voce, spazio dentro quel sogno americano che è il motore della vita sociale e culturale degli Stati Uniti. Delle seconde, perché la dimensione urbana del collegio uninominale invoca un principio di responsabilità soggettiva nel legame col proprio territorio, che nessun altro sistema elettorale riesce a garantire.
Chi ha un po’ di memoria, ricorda che anche in Italia, tra il 1994 e il 2001, una legge elettorale che porta il nome del Presidente Mattarella (allora proponente e relatore della proposta) costringeva felicemente i partiti e i cittadini elettori ad accettare la sfida dell’urbanità. È stato forse quello l’ultimo periodo nel quale la prossimità dell’eletto agli elettori ha rinvigorito la fiducia nella politica. Dopo la crisi seguita al crollo del sistema dei partiti della prima repubblica, la partecipazione democratica tornava a essere percepita come qualcosa di sperimentabile concretamente. Gli eletti tenevano aperte le loro segreterie sul territorio e presenziavano alle riunioni nelle sezioni e nei circoli di partito.
La militanza politica e la partecipazione alla vita sociale si trovano più a loro agio in un perimetro ristretto di riferimento. Ancor più oggi, nell’epoca dell’allargamento dello spazio pubblico prodotto da Internet e dai social network. Può sembrare un paradosso, ma non lo è affatto. Più è ampia, difatti, la dimensione della reciprocità virtuale on line, più è essenziale farle corrispondere un perimetro definito e ristretto off line. Anche perché non c’è maniera più efficace di correggere un messaggio volutamente distorto o fasullo, che cercare corrispondenza o riscontro nella vita di tutti i giorni.
La dimensione domestica del collegio uninominale mette alla prova e alla verifica della militanza chi aspiri a rappresentare il popolo in un’assemblea elettiva. Certo che è possibile raggirare gli elettori anche con una legge elettorale fondata sui collegi uninominali. Ma è senz’altro più difficile. Come pure è più difficile giustificare il trasformismo parlamentare o sottrarsi a chi, in una palestra di una parrocchia, contesta all’eletto un comportamento incoerente o una scelta contraddittoria.
Proprio perché la democrazia non può non avere processi decisionali più complessi che le democrature o le dittature, è essenziale che essa valorizzi il momento della verifica dei comportamenti degli eletti da parte dei cittadini. Non per annullare la distanza tra eletti ed elettori, ma per legittimarla e valorizzarla. Un elettore che può esercitare la critica al suo parlamentare e inchiodarlo alle sue responsabilità nella sala d’incontro di una parrocchia, avrà naturalmente più fiducia in lui quando questi sarà chiuso nelle aule del palazzo.
Tra l’annullare il vincolo del mandato parlamentare e il dimenticarsi dei propri elettori tra un’elezione e un’altra, c’è una terza via che trova proprio nel rapporto costante col proprio territorio le ragioni dell’assenza di quel vincolo. Non c’è dubbio che la dimensione del collegio uninominale e lo strumento delle primarie siano due elementi dell’organizzazione politica che offrono, al cittadino elettore, più sicurezze sul controllo della delega che dà al suo rappresentante e, al politico, più autorevolezza e consapevolezza del ruolo istituzionale che esercita.
La politica democratica è un malato che si cura con più democrazia e migliore qualità partecipativa dell’organizzazione della vita pubblica. Col collegio uninominale e attraverso l’utilizzo delle primarie è possibile coniugare maggiore velocità nella formazione della decisione e maggiore trasparenza del processo decisionale.