Gli integralisti che hanno dominato il paese dal 1996 al 2001 stanno per firmare un accordo storico con gli Usa. In cambio di una pace che nasconde una nuova guerra

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Non temo il domani, l’amore o la speranza. Ti bacio in mezzo ai talebani, io non ho paura... È un verso di una poesia diventata virale in Afghanistan intitolata “Bacio” e scritta dal giovane poeta afghano Ramin Mazhar. Una frase coraggiosa, che mostra in tutta la sua interezza le speranze di un’intera generazione che ha voglia di voltare pagina. Ramin è diventato popolare ma è stato anche richiamato all’ordine da uno dei principali ex-leader talebani, Abdul Salam Zaeef, oggi analista politico, che ha chiesto spiegazioni su quei versi che denunciano troppo apertamente le inquietudini di molti, a Kabul, alla vigilia dell’accordo di pace fra Stati Uniti e talebani che dovrebbe essere siglato a Doha nei prossimi giorni. Oltre a vivere l’incertezza di ciò che potrebbe accadere con la firma della pace, la capitale afghana è tappezzata di cartelloni e poster dei candidati alle elezioni presidenziali che dovrebbero tenersi alla fine di settembre (e i talebani considerano illegittime). Si sente l’odore del cambiamento, ma anche della trepidazione e del nervosismo.

L’accordo di pace si basa su un punto cruciale: il ritiro delle truppe statunitensi e delle forze Nato dal Paese, prerogativa assoluta per i talebani ormai accettata da Washington, che dovrebbe prevedere un’uscita di scena fra i 14 e i 21 mesi dopo la firma. In cambio, i talebani si impegnerebbero per non far diventare il paese un rifugio per terroristi. Resta però la parte più complicata: una volta firmato l’accordo, i talebani dovranno vedersela con tutti i partiti politici e con una larga fetta di società civile decisa a non lasciare pieni poteri agli “studenti” che hanno dominato il Paese dal 1996 al 2001.

A Kabul però la popolazione è stanca della guerra e molte persone sono pronte a perdere qualche libertà in cambio della certezza di sopravvivere. Altri invece vi si oppongono drasticamente, sentendosi marginalizzati da due forze - Usa e talebani - che non tengono per nulla conto della volontà della popolazione. Soprattutto la generazione più giovane, che ha conosciuto solo guerra. E le donne, probabilmente le grandi perdenti in tutto questo.

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«In Afghanistan stiamo vivendo un conflitto fra tradizione e modernità che ha le sue radici con la nascita dello Stato afghano cento anni fa. L’accordo di pace che si firmerà a Doha pertanto, non ha nulla a che vedere con la società afghana. Noi non siamo stati inclusi. Ma i talebani saranno costretti ad accettare il pluralismo, altrimenti resisteremo. Sappiamo che alcuni gruppi si stanno già riarmando per combattere. Noi giovani in città invece combatteremo con le nostre parole», dice vigorosamente il poeta Ramin prima di recitare, fiero, i versi del suo poema. Fuori ci sono le montagne ricoperte di case in fango colorate di rosa e azzurro, dorate dal sole che sta tramontando.

Nargis, una giovane attivista, è invece più radicale: «I talebani non permetteranno più alle donne di studiare, andare in giro per strada o viaggiare da sole. Solo due settimane fa hanno bruciato una scuola per ragazze a Shakar Daraa, vicino a Kabul. Questo accordo non porrà fine alla guerra e nessuno vuole scendere a patti con i terroristi. Un terrorista è un terrorista e non smetterà mai di esserlo. Sono gli Stati Uniti che li hanno riportati al potere. L’Occidente ci sta lasciando in mano al terrorismo».

Nargis non è isolata, il timore nelle donne tangibile, si può percepire. Anche Amina, una venditrice di vestiti al bazaar, è preoccupata: «Sono felice per la pace. Ma non mi fido né degli americani né dei talebani. Le nostre libertà sono in pericolo e, dopo anni, sarà un grande passo indietro».

La vita intanto continua. Anche in un momento delicato come questo, a un passo dal baratro. Nel quartiere di Shahr-e-nau, la città nuova, Zubair vende tappeti per strada e parla un po’ di inglese: «Che accordo è un accordo che non considera la gente? Non interessa a nessuno la popolazione». Altri invece non sono contrari a perdere alcune libertà in cambio di tranquillità. Un esempio è il sarto Murad Khan. Un uomo sulla cinquantina, che porta il suo pakol (tipico cappello proveniente dal Pakistan) sul capo e ha un fare gentile: «Siamo in guerra da 40 anni. Dobbiamo trovare una soluzione. I talebani sono figli dell’Afghanistan, dopotutto, ed è loro responsabilità mantenere la nazione in sicurezza».

Anche secondo alcuni analisti, il ritorno degli “studenti coranici” non è del tutto privo di logica. Asadullah Wahidi, caporedattore del quotidiano nazionale “Maseer”, è molto chiaro a riguardo: «Gli afghani sono contenti per l’uscita di scena degli americani. Ma non si fidano di loro. Da un lato negoziano con i talebani e dall’altro sostengono anche le elezioni presidenziali. Non si capisce a che gioco stiano giocando e se realmente vogliano la pace. Detto questo, se dovremo farci crescere la barba non è un problema, basta che finiscano i bombardamenti, le esplosioni, le uccisioni indiscriminate degli Stati Uniti, nascoste oltretutto dai media, perché minacciati. La nostra priorità è di restare vivi. I talebani avranno giustamente più peso nel governo perché hanno combattuto per il Paese». Wahidi è categorico e non usa mezzi termini: «L’America ha perso in Afghanistan. È tempo di lasciare spazio al dialogo fra gli afghani anche se una soluzione pacifica ci sarà solo senza la presenza di nemmeno un soldato straniero nel paese».

Ma per parlare di futuro post-accordo, bisogna sentire la voce che sembra contare di più al tavolo di Doha: i talebani, appunto. Il cui obiettivo è l’istituzione di un nuovo governo e il cambiamento della Costituzione attuale, considerata non coerente con la legge islamica. Syed Mohamed Akbar Agha, ex-comandante talebano, oggi ha fondato il movimento in favore di un dialogo pacifico fra talebani e governo afghano Khalasoon Lar (“Patto della salvezza” in pashtu). Vive a Kabul, in una zona dove la presenza di sostenitori talebani è forte. Attorniato da guardie armate fino ai denti, veste tradizionalmente il longi, il turbante, accompagnato dal lungo vestito, il peran tonban. Gioca con la barba mentre risponde alle domande osservando cautamente la reazione alle sue dichiarazioni con piccoli occhi che sfidano e incutono timore.

«Gli Stati Uniti hanno capito il danno che hanno fatto», dice. «Ecco perché si sono seduti al tavolo dei negoziati. Hanno accusato i talebani di essere succubi di Al-Qaeda, quando era esattamente il contrario. Era un pretesto per invaderci. Volevano dimostrare di essere forti ma hanno perso la dignità. Abbiamo quindi il diritto di decidere il futuro politico e culturale dell’Afghanistan. La pace sarà dettata secondo le nostre condizioni e sarà come una festa dell’indipendenza. Ma questo non vuol dire che non vogliamo condividere il potere. Sarà creato un governo ad interim con un presidente scelto da noi, che porterà il paese ad elezioni democratiche in concordia con tutti gli altri partiti e i gruppi di interesse. Ma a tempo debito: per ora la corruzione è troppa e non ci sono le condizioni. Il voto in programma fra qualche settimana non è legittimo. I diritti umani e delle donne saranno rispettati secondo la legge islamica. Ma ci vorranno alcuni cambiamenti. Ci sono dei diritti concessi alle donne e introdotti dall’Occidente, nell’attuale Costituzione, che non sono consoni alla legge islamica e saranno aboliti. Tuttavia garantiremo la loro educazione e la loro protezione».

I leader talebani, mi spiega, non riconoscono l’attuale governo afghano, considerato una marionetta di Washington. Si rifiutano di parlarci proprio per questo e una delle loro richieste è la sua dissoluzione in caso di accordo con gli americani. «Se non accetteranno di dimettersi, i talebani entreranno a Kabul con la forza», conclude Syed Mohamed Akbar Agh.

Nazar Mahmoud Mutmain, anche lui ex-esponente talebano, non è meno minaccioso: «L’esperienza politica e militare e l’istruzione data a molti talebani hanno permesso loro di capire gli errori che sono stati commessi tra il ’96 e il 2001. Da qui l’idea di condividere il potere con le altre forze politiche in gioco. Ma i ladri saranno mutilati. Gli assassini giustiziati. La legge islamica tornerà a controllare la giustizia di questo paese», mi dice con uno strano sorriso.

Intanto, fuori, Kabul vive e vibra, sfoggiando nuovi palazzi, strade e bar e negozi di ogni tipo che aprono ogni giorno. Ma l’ombra di un futuro incerto intimorisce una popolazione troppo provata dalla guerra. E la morsa fra occupazione e radicalismo lascia poco spazio alla speranza di un futuro fatto di prosperità e pace.