L'accordo di pace che ha messo fine al conflitto tra Azerbaijan e Armenia ha il sapore della resa incondizionata per quest'ultimi. Che ora dovranno abbandonare i territori. "Il primo ministro ha regalato le nostre terre al nemico, per giunta pubblicando l’accordo mentre la gente dorme. È tradimento”

Shushi è sotto assedio. I missili cadono sulla città. Sos, 30, torna a riposarsi per qualche ora nel bunker sotto casa sua, ormai a portata dei mortai azeri, prima di tornare al fronte a solo qualche centinaio di metri. Il sibilo dei razzi che si schiantano contro gli edifici fa capire quanto vicini siano le forze di Baku. “Ricordo questo posto, quando eravamo piccoli. Giocavamo alla guerra in queste strade”- dice Sos – “Ora mi fa male vedere questo posto distrutto dalla guerra”. La voce fa trasparire la sua tristezza. Ha due fratelli. David, 25, combatte sul fronte di Shushi insieme a lui. “Non li lasceremo conquistare la città” dichiara con fermezza – “Le cose stanno andando male, ma daremo la nostra vita. Non lo facciamo solo per Shushi ma per l’intero Nagorno Karabakh”.

Loro, abitanti di Shushi, sono fra gli ultimi armeni a resistere alla carica inarrestabile delle forze azere, penetrate nel territorio con l’obiettivo di riconquistare la roccaforte storica, considerata un simbolo da entrambi i lati.

Durante i primi giorni di novembre tuttavia, le cose vanno di male in peggio. Il telefono squilla. “Sono ovunque” dice Sos, con voce spezzata. Sulla strada che porta da Shushi fino a Stepanakert, la capitale della repubblica separatista situata a soli 10 chilometri, i continui rombi di cannoni e di spari di kalashnikov mostrano come la battaglia stia entrando nella sua fase più cruda. I colpi d’artiglieria nemica solcano ormai buchi nell’asfalto. I soldati battono in ritirata dalla roccaforte, passando di fianco a scatole di proiettili e panni insanguinati abbandonati e ambulanze ribaltate. La nebbia rende lo scenario ancora più apocalittico. È il sintomo che tutto sta per cadere. All’ospedale di Stepanakert, i feriti sulle ambulanze arrivano senza fine, gemendo.

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Sabato 7 novembre, la situazione è irreparabile. Gli azeri hanno circondato Stepanakert. L’evacuazione generale è inevitabile. È finita. I civili e i giornalisti sono evacuati in Armenia. La coda chilometrica di macchine in fuga non ha fine. Tutti sono nel panico e nervosi. I soldati creano posti di controllo per fermare qualsiasi cittadino sotto i 58 anni. Tutte le persone atte a combattere dovranno restare. Le batterie di artiglieria si riposizionano fuori dalla città. Molti raccolgono quanto possono, forse sapendo che non rivedranno più casa loro.

Il sapore della sconfitta è nell’aria. Lunedì 9 novembre, Sos chiama nuovamente al telefono: “Ci sono brutte notizie: Shushi è caduta”. Le informazioni ufficiali dicono tutt’altro anche se lui ammette che i soldati non hanno avuto altra scelta se non cedere quella che era la loro casa. Tutto è confuso. Gli azeri invece mostrano un video con la loro bandiera issata sul municipio cittadino.

Lo stesso giorno, da Mosca arrivano notizie pessime per gli armeni. Il primo ministro armeno Pashinyan ha firmato un cessate il fuoco con l’Azerbaijan. Un accordo che sa più di capitolazione. “Non avevamo scelta” dice il primo ministro. Fa capire fra le righe che senza l’accordo, le perdite di uomini e di territorio sarebbero state ancor più dolorose. Cerca di non farla sembrare una sconfitta. Ma quando pubblicano le cifre ufficiali, i morti sono 2300.

L’accordo ha cambiato il Nagorno Karabakh. Le cose non saranno più come prima. Secondo il documento, oltre a mantenere i territori conquistati durante l’avanzata militare, l’Azerbaijan riprenderà anche il controllo delle provincie del Kelbajar, Aghdam e Lachin, lasciando praticamente una striscia di terra alla sedicente repubblica, che si vedrà controllata dai peacekeepers russi e evacuata completamente dall’esercito armeno.

Qualche ora più tardi, martedì all’alba, tutto degenera. La rabbia della gente è fuori controllo. Dopo l’annuncio della firma, manifestanti irrompono nel cuore della notte nell’edificio del parlamento a Yerevan. Chiedono le dimissioni di quello che chiamano “traditore”: il primo ministro. Il paese, in crisi, si divide fra chi lo difende e chi no. Davanti al parlamento feriti di guerra, madri dei soldati caduti e civili si raggruppano per protestare. “Chiedo la ripresa delle ostilità immediate e le dimissioni di Pashinyan. Abbiamo lavorato per 30 anni per sviluppare l’Artsakh con il nostro sudore e ora lui lo regala al nemico, per giunta pubblicando l’accordo mentre la gente dorme. È tradimento” grida Susannah, 66, rifugiata costretta ad evacuare da Stepanakert. “Per cosa sono morti allora i nostri 2 mila giovani? Per niente”- tuona Vaghe, 52 –“Chi si prenderà cura dei figli rimasti senza padri?”.

A Yerevan e nelle città armene, gli sfollati non si contano più. Nessuno ha soldi e deve vivere con l’aiuto di alcune organizzazioni o benefattori. Molti aspettano di tornare ma solo se la sicurezza sarà garantita. Evelyna, 62, ha perso la sua casa nel villaggio di Togh, vicino ad Hadrut, città conquistata nei primi giorni di ottobre dagli azeri. Oggi vive in un dormitorio di un centro universitario di Yerevan, con altre 30 persone. “Quando gli azeri erano in città, siamo fuggiti. Abbiamo provato a difendere ma siamo dovuti scappare. Non ho potuto prendere nulla con me. Due conoscenti sono rimasti e sono stati massacrati” dice con le lacrime agli occhi e mostrando gli unici vestiti che ha avuto il tempo di recuperare. Lei, vedova e con 3 figli, è una delle tante persone che non rivedrà mai più quella che è stata la sua casa di una vita. “Non torneremo in Nagorno Karabakh. Hanno bruciato la nostra casa. Non so proprio cosa succederà”. “La politica è un gioco sporco” – interviene Liana, 40 – “Hanno ucciso un’intera generazione di ragazzi. Se questo accordo era premeditato, l’evacuazione avrebbe potuto essere migliore”.
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Il trauma sembra indelebile. La rabbia iniziale lascia però spazio alla disperazione quando la gente realizza che i territori devono essere riconsegnati per davvero. Secondo una clausola dell’accordo fra i due paesi infatti, la restituzione della regione montagnosa del Kelbajar, situata a ridosso dell’Armenia, avrebbe dovuto avvenire il 15 novembre. Lo stesso giorno però, il governo azero ha concesso 10 giorni in più agli per evacuare la regione, la quale diventerà Azerbaijan il 25 novembre. Ma è troppo tardi.

Nei giorni scorsi, migliaia di persone, colte di sorpresa, hanno impacchettato tutti i loro averi e sono fuggiti. Senza più nulla. Il silenzio delle valli del Kelbajar, attraversate da fiumi e vallate verdi e rocciose, si è tramutato in un esodo caotico. La gente, presa dal panico, ha caricato su camion di fortuna tutti gli averi personali. Hanno tolto le lamiere e le assi di legno dai tetti ma anche dai pavimenti. Hanno bruciato le proprie case per non lasciarle in mano nemica. Il fumo dei roghi, parte del paesaggio scontrandosi con i raggi bianchi e autunnali del sole.

“Bruciala” dice un uomo alla moglie. “Non posso” – risponde – “le mie mani non me lo permettono”. “Devi farlo” ribadisce lui. Alla fine, con una bottiglia piena di benzina, la coppia appicca il fuoco alla propria casa che presto cade a pezzi. Il rumore degli incendi che divorano pezzi di vita è uno spettacolo orribile.

Mentre nella casa del vicino divampano le fiamme, un uomo con la divisa militare raccoglie cavi e antenne, distruggendo parti della casa. “Meno male che non ho rifatto il bagno. Ho risparmiato dei soldi. Quando partirò stasera, brucerò la casa”. Vive di fronte al municipio del villaggio principale di Qartvachar. L’edificio è stato svuotato prima di essere dato alle fiamme. Dietro questo, è situata la proprietà di Mariam, 38, madre di un figlio e moglie di un marito al fronte. “Non me ne andrò fino a che non mi porteranno via” dichiara – “queste terre sono nostre”. Per sicurezza, ha già scardinato le finestre del piccolo motel nel quale ha investito i risparmi di una vita. “Sono nata a Baku. Nel 1988 con la mia famiglia siamo fuggiti in Armenia. Sarà la seconda volta che diventerò rifugiata” ammette sconcertata.
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La storia si ripete, ma al contrario. I villaggi del Kelbajar sono lo specchio della storia di questa regione martoriata, che per la seconda volta è testimone di un esodo. Di fianco alle nuove case armene, giacciono infatti ancora imperterriti i ruderi delle abitazioni che appartenevano alla popolazione azera, la quale quasi 30 anni fa è dovuta fuggire durante e dopo la fine della prima guerra negli anni ’90, terminata con un cessate il fuoco nel 1994. Nella sola Qarvatchar, circa 25 mila azeri hanno lasciato le proprie case. Dopo la guerra, il governo armeno ha incentivato le persone a ripopolare l’area dando elettricità gratuita e materiale per costruire case. Le persone più svantaggiate ne hanno approfittato, ignare della politica. Una colonizzazione premeditata.

Vaghan, 70, è tornato in Armenia da Sydney, dopo la rivoluzione del 2018, sperando in un cambiamento. È a Qartvachar per aiutare suo fratello Hajik a svuotare la casa. “I politici sono la stessa feccia. La Russia ci ha traditi e Pashinian deve andarsene”. Il primo ministro armeno è stato incolpato di aver venduto i territori. Sul prato, sono depositati caloriferi, stampanti, coperte, letti e scatoloni. Il figlio di Hajik entra in casa osservando per l’ultima volta quello che era il salotto di casa. Quando esce, aiuta suo padre a imballare i caloriferi nel cartone per proteggerli. Spazio per tutto non ci sarà. Solo il necessario è permesso.

Le carovane di camion e macchine piene di oggetti personali, con tavoli e materassi legati sopra il tetto, riempiono le stradine di montagna. Schivano greggi di pecore e mucche, portati fuori dai pastori a passo d’uomo. Alcuni trainano i propri cavalli legandoli alle macchine. Non c’è tempo. Per non permettere ai nemici di vedere la fuga, soldati armeni bruciano copertoni sulle strade di montagna. Nel caos generale, molti armeni arrivano da oltreconfine per depredare tutti gli oggetti lasciati dalla gente. Altri tagliano la legna a valle, caricando interi tronchi di alberi. Potranno rivenderli in Armenia o scaldare le proprie case durante l’inverno rigido. Alcuni operai di un’azienda privata smontano invece un’intera centrale idroelettrica, appostata di fianco al fiume Tartar. Con un rimorchio alzano i generatori. “L’anno scorso, questa compagnia ha investo 5 milioni di dollari per costruire la centrale” dice uno di loro.

Di fianco, una fila di carri armati armeni si prepara ad evacuare. Se loro lasciano il Kelbajar, in segno di ritirata definitiva, i blindati russi fanno invece la loro entrata in scena elegantemente, scendendo dal passo montagnoso, oggi unico ponte fra il Nagorno Karabakh e l’Armenia, per cominciare la loro missione.
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Fra esuli e militari, migliaia di turisti osservano tutto ciò a bocca aperta, riversandosi negli ultimi giorni in massa per visitare il monastero di Dadivank, un monumento sacro per la chiesa apostolica armena che sorge proprio nella regione che ridiventerà azera. Hambik, 32, artista e restauratore di Khakhar, i cippi funerari armeni, è responsabile di mettere in salvo i reperti storici, reliquie e icone: “Questo monastero ha 800 anni. L’Azerbaijan 80. Lo distruggeranno sicuramente. Vogliamo mantenere la nostra cultura”. Che diventi azero oppure no, non si capisce ancora. Con un rimorchio, un camion si avvicina nel cortile del monastero. Alcuni ragazzi cominciano a estrarre le pietre.

I turisti, allontanati, testimoniano impietriti, atterriti, l’evento, il quale difficilmente dimenticheranno. Le lacrime delle persone sono infinite. Più in basso nella valle sottostante il monastero, una coltre di fumo sale coprendo il tempio. Alcune case in fiamme ricordano però che la cultura non è l’unica a soffrirne. Migliaia di abitanti armeni sono in partenza verso un futuro incerto perdendo tutto. Il Kelbajar è per qualche ora terra di nessuno. Un limbo, fino a che non arrivi il nuovo padrone.