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Mondo
novembre, 2020

Mafia e riciclaggio all'ombra di Donald Trump

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I boss di Cosa Nostra. Gli affari col presidente Usa. I miliardi rubati in Kazakhstan. E il caso Shalabayeva in Italia. Ecco la storia segreta di mister Felix, l'uomo di Donald a Mosca. Con una pista da un milione di dollari che porta in Lombardia

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Quasi un milione di dollari. Versati da un socio d’affari di Donald Trump. E incassati da un’azienda lombarda d’abbigliamento. Un anno prima della sua rovinosa chiusura per un fallimento misterioso. Un thriller finanziario tra Italia, Stati Uniti, Kazakhstan e Svizzera, che ha per protagonista un uomo d’affari, Felix Sater, che conosce molti segreti dell’attuale presidente americano. Tra rapporti con la mafia, Russiagate e progetti immobiliari in odore di riciclaggio.

L’Espresso ha raccontato per la prima volta il lato oscuro di Sater il 27 settembre con i Fincen Files, nome in codice dell’inchiesta giornalistica internazionale sulle centrali del riciclaggio di denaro sporco. Alla base del lavoro di oltre 400 cronisti di 88 nazioni c’è l’archivio riservato del Fincen, l’agenzia federale di Washington che analizza le operazioni sospette denunciate dalle banche. Tra quei documenti, ottenuti da Buzzfeed News e condivisi con il consorzio Icij, compare una società di Busto Arsizio, la Unishop, titolare di noti marchi di articoli per bambini, Mirtillo e Ninetta. Il 9 maggio 2017 il colosso bancario Wells Fargo segnala che quella ditta ha ricevuto pagamenti anomali dagli Usa: «Dal dicembre 2014 all’aprile 2015 l’immobiliare Bayrock ha inviato cinque bonifici, per un totale di 944.272 dollari, alla Unishop srl, sul suo conto alla Banca Sistema di Milano».

Esclusivo
Fincen Files: i segreti di Felix Sater, l'uomo di Donald Trump a Mosca tra Cia e tesori kazaki
29/9/2020
L’azienda del Varesotto si trova così inserita in un rapporto di 160 pagine dove Wells Fargo, Bank of America e altri quattro istituti schedano trasferimenti dubbi per oltre 100 milioni di dollari: tutti gestiti, tra il 2013 e il 2017, da Sater o dal suo gruppo immobiliare Bayrock. Che dal 2003 ha il quartier generale al 24° piano della Trump Tower di New York, sotto gli uffici dell’attuale presidente. Tra Donald e Felix, in quegli anni, il business corre: nel 2007, ad esempio, vengono ripresi insieme, partner festanti, all’inaugurazione del Trump Soho Hotel a Manhattan. Mentre Sater esibisce un biglietto da visita della Trump Organization che lo qualifica «consigliere di Donald».

Ma chi è veramente mister Felix? Per illuminare la sua carriera fa fede un documento giudiziario di dieci pagine, rimasto segreto per un decennio: porta la data del 27 agosto 2009 e la firma di Todd Kaminsky, vice procuratore di Brooklyn. Lì dentro, c’è la vera storia di Sater, nato nel 1966 a Mosca, emigrato in America con la famiglia all’età di 6 anni per sfuggire alle persecuzioni contro gli ebrei. A New York fa successo nella finanza. Ama il lusso. Veste Zegna. Guida auto costose. Ma non sa controllarsi. Nel 1991, in un bar di Manhattan, litiga con un cliente, lo ferisce e finisce in prigione per un anno. Quindi perde la licenza di operatore di borsa, ma non si arrende: con un amico, Salvatore Lauria, crea una società (White Rock Partners, poi ribattezzata State Street Capital) che unisce affari e delitti. Con una strategia.

All’inizio piazza azioni di piccole aziende emergenti. Poi ne acquista interi blocchi, segretamente, tramite società offshore, fino a prenderne la maggioranza. Quindi gonfia i prezzi dei titoli, diffondendo false informazioni. Se qualche cliente, in quel momento, chiede di vendere, scattano le intimidazioni. Una trama che «fa leva sui legami con il crimine organizzato», come puntualizza il vice procuratore, che cita le più potenti “famiglie” di Cosa nostra italo americana: «Sater, tramite suo padre, era associato a Ernest Montevecchi, un soldato dei Genovese. Lauria, invece, a Daniel Persico, del clan Colombo. Mentre Frank Coppa, un capitano della famiglia Bonanno, era incaricato di minacciare fisicamente chi voleva vendere». Risultato: nessun cliente cede le azioni. E i prezzi continuano a salire. La fase finale è la stangata: Sater e soci si sbarazzano di tutti i titoli parcheggiati nelle offshore. Con enormi guadagni: 40 milioni di dollari in soli due anni. E quando le azioni crollano, ci perdono solo i clienti. Nel gergo di Wall Street questa tecnica si chiama «pump and dump» (gonfia e scarica). Ed è un grave reato.
Sater si salva diventando collaboratore di giustizia. Nel 1998 si dichiara colpevole. E le sue confessioni contribuiscono a far incriminare 19 ex complici, tutti mafiosi. Boss come Edward Garafola, cognato di Sammy “the Bull” Gravano, e Joseph Polito, della famiglia Gambino; il capo del clan Bonanno, Joseph Massino; Lawrence Dentico, della dinastia Genovese. In una delle soffiate, Sater rivela anche il suo ruolo nel lancio in borsa di una società di costruzioni dei Gambino.

Da allora, per almeno undici anni, collabora con Fbi e Cia. A lui viene attribuita la scoperta di un complotto jihadista per uccidere, nel 2002, l’allora presidente George W. Bush. Lo stesso vice procuratore Kaminsky testimonia in suo favore e loda la sua «collaborazione vasta e profonda» su «Cosa Nostra, governi stranieri, Al Qaeda, criminalità russa». Alla fine a Sater, per la truffa azionaria di stampo mafioso, viene inflitta una pena irrisoria: una multa di 25 mila dollari.

Forte delle sue coperture, Felix torna alla grande negli affari. Lavora per Trump. E sviluppa piani immobiliari che allarmano gli organismi anti riciclaggio delle banche. Al punto che il Fincen, come si scopre solo ora, decide di trasmettere il suo dossier a un agente dell’Fbi.

La scheda sull’azienda lombarda Unishop riporta un recapito di Milano, in via Rivoli, che è diverso dalla sede della società (via Tortona) e della fabbrica (Busto Arsizio, via Lega Lombarda). Quell’indirizzo corrisponde a un negozio con il marchio Ninetta. Che è stato aperto il 17 dicembre 2014: la stessa data del primo bonifico di Sater. La banca Wells Fargo, nel suo dossier, scrive di «non essere riuscita a trovare riscontri ufficiali che la Bayrock fosse entrata nel business dei negozi di abbigliamento». Insomma, quei bonifici non sembrano giustificati: Bayrock è un gruppo immobiliare, non compra né vende vestiti per bambini.

In questo quadro, sempre la Wells Fargo osserva che i versamenti a Unishop sono avvenuti proprio mentre in vari paesi europei erano in corso «procedure legali contro Mukhtar Ablyazov e Viktor Khrapunov». Il primo è l’ex banchiere kazako accusato di aver sottratto ben 6 miliardi di dollari alla banca statale Bta: condannato in patria, è fuggito a Londra e ha poi ottenuto lo status di rifugiato in Francia. Sua moglie, Alma Shalabayeva, espulsa dall’Italia per un breve periodo nel 2013, è riuscita a far condannare i dirigenti della nostra polizia per «sequestro di persona». Anche Khrapunov è kazako: è un ex politico condannato per essersi impadronito di oltre 300 milioni di dollari. E pure lui è scappato con la famiglia all’estero. Dove il suo primogenito Ilyas ha sposato Madina Ablyazova, la figlia di Alma e del banchiere. Il matrimonio avrebbe unito anche i tesori nascosti dei due clan: secondo una causa civile promossa nel 2019 dalle autorità kazake a New York, proprio Sater e la sua Bayrock li avrebbero aiutati a nascondere e riciclare centinaia di milioni. L’inchiesta Fincen Files conferma che gli Ablyazov possiedono più di 660 milioni di dollari attraverso società offshore. E che Sater ha davvero gestito soldi di Ilyas e Madina.
Nelle 61 pagine dell’atto d’accusa civile, si legge che fu il magnate kazako Tevfik Arif, fondatore e socio di Bayrock, a presentare Viktor Khrapunov a Sater, che presenziò anche alle nozze tra Ilyas e Madina. Quindi Felix avrebbe portato Ilyas da Trump in persona, per discutere di possibili investimenti.

Le denunce contro Sater riguardano anche iniziative immobiliari negli Stati Uniti, in particolare un centro commerciale a Cincinnati, in Ohio. Quell’affare, poi saltato, coinvolgeva una società-veicolo che, secondo le autorità kazake, farebbe capo agli Ablyazov e Khrapunov. E ancora Wells Fargo, quando Sater nel 2013 dà il via a quel vorticoso flusso di soldi, riporta testualmente che il progetto di Cincinnati sembra avere per Bayrock «il solo scopo di disperdere il percorso del denaro».

Intervistato da BuzzFeed News, Sater nega qualsiasi illecito: «Erano transazioni legittime, non ho mai lavato soldi sporchi». E i 944 mila dollari dati alla ditta lombarda? «Era un prestito a un parente», è la sua risposta. Che sarebbe tranquillizzante, se l’azienda italiana appartenesse a un familiare di Sater. Unishop però è un buco nero: Infocamere certifica che è stata costituita nel 2010 con un capitale di mezzo milione, ma i suoi padroni sono tuttora ignoti.

All’inizio il 95 per cento apparteneva a una società anonima di Chiasso, chiamata Crap, il restante 5 era intestato a un certo Johnny Comito, di Busto Arsizio. Nel 2014 alla società svizzera subentra un ex assicuratore di Buccinasco, Antonio Curci, che diventa anche amministratore unico. L’azienda ormai affonda nei debiti. E il 23 giugno 2016 il tribunale di Milano ne dichiara il fallimento. Appena nove giorni prima, però, la ditta ha cambiato padrone. Il 77 per cento è passato a una società fiduciaria di Milano: uno schermo legale che nasconde l’effettivo proprietario. E nel 2018, con il crack in corso, il quadro cambia ancora: Curci torna padrone, con il 96,8 per cento. Almeno sulla carta. Raggiunto dall’Espresso, infatti, lo stesso Curci precisa: «Ero solo un prestanome, una testa di legno. Prendevo ordini dal vero amministratore di fatto, Gianfranco Sala. L’ho spiegato anche al curatore fallimentare». Ma cosa c’entrano Sater, la Bayrock, Khrapunov e Ablyazov? «Non li ho mai sentiti nominare», giura Curci.

A questo punto l’Espresso ha contattato anche Sala, che però non ha risposto. Mentre Banca Sistema fa sapere, tramite un portavoce, che «per ragioni di riservatezza, non può confermare se sono arrivati bonifici a nostri correntisti».

Le prime vittime del collasso di Unishop sono le famiglie dei 60 dipendenti che hanno perso il lavoro, mesi di stipendi non pagati e la liquidazione. Sul fallimento ha aperto un’indagine la procura di Milano. In uno scenario nero: il passivo ammonta a 17 milioni di euro, l’attivo è prossimo allo zero e i libri contabili non si trovano più.

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