Fuori dalla Ue e senza più alcun "rapporto speciale" con gli Stati Uniti e Donald Trump, per il premier inglese la strada ora è tutta in salita
Se la vittoria di Joe Biden alle presidenziali Usa è stata accolta con un sospiro di sollievo in molte cancellerie europee, la fotografia da Downing Street è molto più in chiaroscuro. Perché non solo il neo presidente Usa e il primo ministro britannico non hanno alcun rapporto personale, ma la loro relazione a distanza, finora, è stata pessima.
La tensione inizia a fine aprile 2016, nelle ultime concitate settimane della campagna referendaria che porterà il Regno Unito, il 23 giugno, a votare si all’uscita dall’Unione europea. Con una iniziativa che sorprende molti, il Presidente Usa Barack Obama, in una lettera ai cittadini britannici pubblicata dal Telegraph in contemporanea con la sua visita di stato nel Regno Unito, li invita a restare nell’Unione Europea, sottolineando come l’influenza britannica nel mondo sia amplificata dall’appartenenza all’Ue.
Boris Johnson, allora sindaco di Londra e campione del Leave, replica sul Sun a quella che considera un’interferenza indebita. Ricorda l’aneddoto secondo cui l’amministrazione Obama avrebbe rimosso dallo Studio Ovale il busto di Winston Churchill: «Qualcuno afferma che sia stato uno schiaffo alla Gran Bretagna. Un simbolo del disprezzo ancestrale di un presidente mezzo kenyota verso l’impero britannico - di cui Churchill è stato un fervente difensore».
Il commento vellica le nostalgie imperiali di una parte dell’elettorato conservatore inglese, ma viene recepito come razzista dai democratici statunitensi. La vittoria del Leave al referendum amplifica la distanza e il successivo “rapporto speciale” fra Boris Johnson e Donald Trump impedisce ogni riconciliazione. Da candidato alla presidenza, Joe Biden definisce Johnson «un clone fisico ed emotivo di Trump». Lo scorso settembre il ministro degli Esteri britannico Dominic Raab va in visita ufficiale negli Usa ma non riesce ad ottenere nessun incontro con il team di Biden: i rapporti con il candidato presidente sono inesistenti.
Il grande ostacolo alla relazione fra i due leader è la Brexit. Anche qui si intrecciano il politico e il personale. La visione sovranista e identitaria che ha partorito il sì all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea faceva gioco a un Trump interessato a ridimensionare la sfera economica e geopolitica europea, ma è totalmente avversata da un Biden atlantista e europeista, la cui politica estera conta su un allineamento con Bruxelles. E, soprattutto, non può prescindere dalla protezione del processo di pace nell’Irlanda del Nord, che la roadmap di Downing Street sembra mettere in pericolo.
Sempre a settembre, Johnson ha presentato al parlamento britannico un progetto di legge, l’Internal Market Bill, che sovrascrive gli impegni sull’Irlanda del nord, negoziati riga per riga nel trattato di recesso con Bruxelles, firmato da entrambe le parti a gennaio scorso e inizialmente presentato da Johnson come un successo. Se diventasse legge nazionale, l’Internal Market Bill potrebbe destabilizzare l’Accordo del Venerdì Santo del 1998, che ha garantito la pace in Ulster dopo decenni di guerra civile fra unionisti e repubblicani.
Su questa ipotesi la posizione di Biden è chiara. A settembre, da candidato presidente, aveva vincolato alla protezione degli accordi di pace il trattato commerciale fra Stati Uniti e Regno Unito di cui il governo Johnson ha un disperato bisogno per giustificare la perdita di quello con Bruxelles: «Non possiamo consentire che il Good Friday Agreement che ha portato la pace all’Irlanda del Nord diventi una vittima di Brexit. Qualsiasi intesa commerciale fra Usa e Regno Unito deve essere condizionata al rispetto dell’Accordo del Venerdì Santo e a prevenire il ritorno di un confine fisico fra le due Irlande».
Questa posizione, condivisa e rilanciata su Twitter anche dal neo nominato segretario di Stato americano Anthony Blinken, che in passato ha definito la Brexit «un gran casino» e l’ha paragonata all’ascesa di Marine Le Pen in Francia, non è cambiata per due ragioni. La prima è che il lungo e tortuoso processo diplomatico che ha condotto alla fine dei “troubles” irlandesi è tuttora rivendicato come un successo in cui il presidente democratico Bill Clinton ha avuto un ruolo centrale.
La seconda è il ruolo preminente che gli irlandesi d’America rivestono nel Partito democratico, di cui sono una forte base elettorale. Il più illustre fra loro è proprio Joe Biden, talmente legato alle proprie origini da volere all’inaugurazione presidenziale i Chieftains, leggendaria band di Dublino.
La sintesi politica è che il Congresso degli Stati Uniti, tuttora controllato dai Democratici, non approverà mai un accordo commerciale con il Regno Unito se Brexit dovesse in qualsiasi modo mettere a rischio il processo di pace nord-irlandese. Anche per questo Bruxelles ha accolto con sollievo l’elezione di Biden, nella convinzione che il cambiamento nei rapporti di forza con gli Usa costringerà il governo Johnson a trovare l’atteso compromesso con l’Ue scongiurando il rischio di un no deal.
La pressione da Washington si somma a un quadro interno già vulnerabile: l’opinione pubblica britannica, provata dalla crisi economica causata dal Covid, è contraria al rischio aggiuntivo di una uscita senza accordo. Il consenso per il governo conservatore è basso; quello personale per Boris Johnson molto lontano dal trionfo alle politiche di meno di un anno fa. Inoltre, una Brexit senza accordo sarebbe benzina sul fuoco dell’indipendentismo scozzese, che grazie alla leadership di Nicola Sturgeon sta raccogliendo ampi consensi in patria. Quanto al trattato con gli Usa, i più autorevoli osservatori di politica internazionale sono concordi nel ritenere che non sia fra le priorità dell’amministrazione Biden. Ma, chiarisce all’Espresso Anand Menon, docente di European Politics and Foreign Affairs al King’s College e direttore del think tank “Uk in a changing Europe”: «Sono convinto che l’Internal Market Bill sia un bluff, una manovra di politica interna per placare i falchi Brexiteer. Se, come credo, un accordo con Bruxelles verrà trovato, e al di là del rapporto personale, il governo Johnson è molto più allineato all’amministrazione Biden di quanto non lo fosse Trump su molti dei dossier, come Iran, Russia, cambiamento climatico, tutti al centro dell’agenda del Regno Unito».
Ma come potranno le ambizioni di rilancio di Global Britain reggere al doppio urto di Brexit e del Covid? «È il contrario: Johnson è determinato a rilanciare Londra sulla scena internazionale proprio per combattere il sospetto di un ridimensionamento, per dire al mondo che la Brexit non comporta ritirarsi nel guscio. Il 2021 è un anno incredibile per la politica estera del Regno Unito, che presiede il G7 e il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e ospita la Conferenza sul Clima. E non è un caso che Johnson abbia annunciato ora 16 miliardi di investimenti nella Difesa. E si, è vero che il Covid sta avendo un effetto negativo sull’economia, ma questo vale per tutti gli altri Paesi europei, e i mercati sono pronti a finanziarne la ripresa».