Nigeria, Congo, Etiopia. Paesi devastati da governi ipocriti. E corrosi da conflitti di ogni genere. Visti da una nuova generazione di autori autoctoni. Che disegnano per giornali e social di cinque continenti

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Chi addenta un gomito, chi afferra una gamba. Mentre un altro stringe la cravatta come un cappio: quello che soffoca, però, non abbandona la zuffa. Sudati e lividi di rabbia, guardano tutti verso uno sgabelletto di legno che nella loro testa brilla come fosse un tesoro. Nemmeno si accorgono delle sedie in fila, libere lì accanto. Eppure ci sarebbe comodamente posto per tutti. Due didascalie spiegano la vignetta: accanto allo sgabelletto c’è scritto «leadership su base etnica»; vicino alle sedie «partecipazione democratica». Il cartoon, disegnato ad Addis Abeba, in Etiopia, era una premonizione di quello che sarebbe accaduto. Sono cronache di questi giorni: l’avanzata dell’esercito e l’assedio di Macallè, una città di oltre 300 mila abitanti; gli scontri con i ribelli del Fronte popolare di liberazione del Tigrè e la fuga di decine di migliaia di civili oltre il confine con il Sudan.

Un conflitto che si preparava da tempo, secondo l’autrice della vignetta, Yemsrach Yetneberck, 31 anni, Yemi per gli amici. «Troppo a lungo noi etiopi siamo stati avvelenati da narrazioni distorte», dice all’Espresso in collegamento dal suo studio di design ad Addis Abeba. «Ci hanno raccontato che un popolo ne opprimeva altri, che da una parte c’erano i tigrini, dall’altra gli oromo e poi ancora gli amhara: così le élite hanno instillato odio». Settimane di blocco di internet e comunicazioni telefoniche con il Tigrè hanno reso difficile verificare le denunce di violenze su base etnica o sapere dei propri cari. E anche i social sono un campo minato, sospira Yemi: «La situazione è molto delicata, bisogna fare attenzione a non aggiungere benzina sul fuoco; i miei genitori hanno origini diverse tra loro ma io mi sento solo etiope: dobbiamo smetterla di accusarci gli uni con gli altri e impegnarci subito per ricostruire quell’unità che è andata in frantumi».

Secondo la graphic designer, Abiy Ahmed, il capo del governo insignito del Nobel per la pace per un accordo di riconciliazione firmato con l’Eritrea dopo anni di guerra e tensioni, ha cercato di curare le ferite e ricomporre antagonismi. Il conflitto nel Tigrè, seguito a denunce di trame golpiste e disordini con morti e arresti pure nella regione dell’Oromia, conferma però che i focolai sono più d’uno. Anche per questo, mentre su Macallè cadevano i colpi di mortaio, Yemi ha preso matita e colori. Lo ha fatto durante un laboratorio web organizzato da Cartooning for Peace, un’alleanza di artisti sostenuta dall’Unesco che da fine novembre sta mettendo insieme talenti affermati a livello internazionale e nuove promesse che faranno parlare di sé.
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Lo slogan è Silencing the Guns, lo strumento le vignette, l’orizzonte l’Africa. «Sono webinar pratici che mirano a far conoscere le tecniche dei professionisti e ad aprire una discussione, stimolando al massimo il pensiero critico», spiega Sylvain Platevoet, coordinatore del progetto. «A partecipare sono studenti delle scuole e delle università africane: nuovi talenti o appassionati, ma anche ragazzi senza un’esperienza specifica alle spalle, interessati ai fumetti come strumento per campagne di sensibilizzazione sociale».

Cartooning for Peace è nata nel 2006, su iniziativa dell’allora segretario generale dell’Onu Kofi Annan, dopo l’ondata di proteste nel mondo per le caricature di Maometto pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Campagne sotto il segno del rispetto e del confronto tra opinioni differenti si sono tenute in più continenti ma oggi il focus è sull’Africa, laboratorio di democrazia con i suoi giovani e però anche campo di battaglia con nuovi focolai in Etiopia, Mozambico o Camerun.

Ce ne parla Tayo Fatunla, 59 anni, nigeriano e cittadino del mondo, una vita con la matita. Aveva cominciato nel giornale scolastico e, ancora teenager, pubblicava su quotidiani nazionali. Poi è diventato corrispondente a Londra, è arrivata la collaborazione con la Bbc e infine la scelta di restarsene nel Regno Unito, in auto-esilio. «Buona parte dei disegni che ho inviato in Nigeria non sono mai stati pubblicati perché giudicati troppo irriverenti», racconta abbassando appena gli occhiali: «Se tornassi rischierei di essere censurato e non potrei dare il contributo che vorrei al mio Paese».

Sfogliando le vignette si intuisce che le cose stanno davvero così. In bianco e nero ci sono le strade tutte buche della Nigeria, con la nuvoletta che chiede se siano state bombardate come in Siria o in Afghanistan, e poi il conflitto vero, quello scatenato dalle milizie islamiste di Boko Haram. «Il nostro presidente Muhammadu Buhari si è dimostrato un leader debole», denuncia Tayo. «Non ha saputo né affrontare i terroristi né garantire la sicurezza dei giovani scesi in piazza per denunciare le brutalità e gli abusi della polizia contro cittadini innocenti».

A Lagos, la megalopoli più popolosa d’Africa, il 20 ottobre almeno 12 manifestanti che partecipavano a un sit-in di protesta sono stati uccisi con colpi di arma da fuoco che sarebbero partiti da militari. Negli stessi giorni, mentre i media internazionali dedicavano le prime pagine alla campagna elettorale americana, altre guerre facevano altre vittime. Tayo le ha disegnate, piccoli teschi buttati in una fossa scavata in fretta: sul muro insanguinato, accanto a una croce fatta con due rametti, l’appello a «un minuto di silenzio» per gli alunni della scuola di Kumba.

La vignetta racconta il Camerun, un altro Paese senza pace, dove da tre anni vanno avanti agguati, controffensive ed esecuzioni sommarie, pure filmate e finite sui social network: da un lato c’è il governo del presidente Paul Biya, al potere da quasi 40 anni; dall’altro i ribelli separatisti, che rivendicano diritti per le minoranze anglofone e sventolano la bandiera del nuovo “Stato” di Ambazonia. Nel mezzo ci sono civili inermi, come i ragazzi di Kumba, che studiavano sia l’inglese sia il francese: sette morti, riferiscono le cronache. Tayo spera che archiviata l’era dell’America First sia finalmente possibile avere «eader di livello mondiale», vale a dire consapevoli che abitiamo tutti la Terra e che la pace la si costruisce pure combattendo la povertà, «perché una persona affamata è una persona arrabbiata».

Ingiustizie svelate nelle tavole di un altro animatore dei laboratori web, Zapiro, al secolo Jonathan Shapiro. Figlio di madre ebrea fuggita dai nazisti tedeschi e poi in prima fila contro i razzisti dell’apartheid sudafricano, si definisce un “cartoonist-activist” (dalla parte dei diritti: con il segregazionismo, prima di Nelson Mandela presidente, le sue vignette erano fuorilegge). Con l’Espresso condivide piccoli retroscena. Come quando, preoccupato dal destino dei peacekeeper sudafricani in partenza per la Repubblica democratica del Congo, aveva telefonato a un centro studi tra i più accreditati scoprendo che anche lì non avevano idea di quali gruppi guerriglieri stessero da una parte e quali dall’altra.

Ne è nato un disegno, dove si vede un soldato a un check point e un lanciarazzi che spunta da una frasca. Lui sobbalza e chiede: «Chi va là?» La risposta, «Unione congolese per la democrazia», non sembra aiutarlo granché. Il soldato dice «aspetta un attimo» cerca in alto sul cartoon un elenco in tre colonne: “amici”, “nemici” e “non si sa”. «Alla fine», ricorda Zapiro, «questa vignetta sui pericoli del peacekeeping è stata usata per una campagna informativa».

Del Congo, cuore d’Africa ostaggio di un conflitto alimentato dal traffico di coltan, cobalto e altri minerali strategici per l’industria elettronica mondiale, disegna anche Damien Glez, cartoonist, editorialista e sceneggiatore. «In una delle vignette», ci spiega, «si vedono un presidente e un capo ribelle che ripetono all’infinito la parola “pace”, mentre le loro azioni vanno nella direzione opposta, con falsi accordi, violazioni della tregua e uso strumentale delle milizie». Verità rovesciate e lingue biforcute, come quelle che alzano tempeste di sabbia nel Sahel, un’altra regione dell’Africa alle prese con ribelli, separatisti e jihadisti.

Glez ha origini francesi ma è cittadino del Burkina Faso, dove vive e lavora da 30 anni. Insegna all’università e nelle scuole e disegna bambini-soldato che buttano a terra i loro kalashnikov rapiti da pistole ad acqua. «Qui il 48 per cento della popolazione ha meno di 15 anni», dice. «I ragazzi vogliono una democrazia vera, come hanno dimostrato in piazza nel 2014 facendo crollare un regime molto più vecchio di loro». Ne sa qualcosa Alaa Satir, graphic designer 29enne, che sui muri del suo Sudan disegna le ragazze protagoniste della rivoluzione come regine nubiane.

Basta uno sguardo per capire che quei cartoon possono essere più potenti delle parole, non solo perché in Africa l’analfabetismo è ancora diffuso e le lingue locali spesso non si parlano tra loro. «Sono perfetti per i social, pure contro la radicalizzazione islamista», riprende Glez. «E non dimentichiamoci che la pace va costruita sempre, in tutto il mondo, come conferma il conflitto nel Nagorno Karabakh, in Europa».