Africa
In Etiopia il carcere è l'inferno delle madri e dei loro bambini
Ragazzine adescate. Giovani donne violentate. Mogli picchiate. E detenute rinchiuse insieme ai figli in edifici fatiscenti. Viaggio in un paese dove la crescita economica non migliora la qualità della vita
Una donna in carcere non è soltanto una donna rinchiusa, spesso è una donna rinchiusa insieme ai suoi figli. Oppure è una donna rinchiusa con i figli sbandati, se hanno più di cinque anni, nessun parente con cui stare e vivono per strada. Se è vero che le carceri sono una delle più fedeli rappresentazioni del grado di civiltà e del livello di rispetto dei diritti umani di un paese, le detenute della prigione di Adwa in Etiopia e i loro figli sono tra le persone che più subiscono una violazione dei diritti umani nel mondo, in uno Stato che per ogni detenuto spende nove birr al giorno (0,43 dollari). Ma la verità è che il carcere di Adwa non è che lo specchio dell’Etiopia.
Se è vero che l’Etiopia è il paese che cresce economicamente di più al mondo è allora altrettanto vero che gli indici economici sono lontani dal misurare il benessere e la felicità dei cittadini. L’elezione di due anni e mezzo fa di Abi Ahmed Ali – dr. Abi come lo chiamano tutti in Etiopia – (il primo premier di etnia Oromo dopo gli anni del Terrore rosso, eletto con l’appoggio degli Stati Uniti), ha messo fine alla dittatura del negus comunista Menghistu Hailè Mairàm prima e a quella di Meles Zenawi dopo, ha aperto il paese a una impressionante crescita ma ha anche destabilizzato gli equilibri interni ed esterni dell’Etiopia.
E se le riforme e le liberalizzazioni operate da dr. Abi (la cessazione della guerra contro l’Eritrea e la riapertura dei commerci a nord, con la conseguente riconquista di uno sbocco più comodo sul mare; la liberazione di migliaia di prigionieri politici Oromo; la privatizzazione delle industrie chiave; la denuncia della tortura da parte dei servizi di sicurezza) hanno fatto ben sperare per un po’, già dalla mia visita in Etiopia dell’inizio del 2019 era evidente che la storica guerra etnica tra Oromo e Tigrini non era cessata ma si era frantumata in guerriglie tra le etnie locali.
Ora, dal novembre di quest’anno la guerra tra Oromo e Tigrini è ritornata, e potenziata, ha sconfinato in Eritrea, e dopo l’occupazione della capitale del Tigrai Macallè da parte delle Forze armate federali governative rischia adesso di sconvolgere gli equilibri di tutto il Corno d’Africa e dello scacchiere che controlla il mar Rosso e il canale di Suez (l’asse occidentale guidato dagli Usa da una parte, e la Cina e la sua via della Seta che passa per lo stretto di Bab el-Mandeb dall’altra). In uno dei paesi al mondo che ha sviluppato la più diffusa rete di spionaggio tutti sono controllati da tutti, e finisce che una persona su 6 ha la fedina penale sporca. E se sei donna, in un paese patriarcale come l’Etiopia, diventa molto più facile essere incriminata. Il paese, insomma, negli ultimi mesi e a dispetto del Nobel per la pace assegnato a dr. Abi, è tornato a essere una polveriera.
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E di polvere è fatta principalmente la strada che dal centro di Adwa conduce al carcere. Il centro della città-mercato è nella zona alta di Adwa, sull’altipiano che sfiora i duemila metri dove un tempo sorgeva il municipio italiano con la sua piazza e le case coloniali. Ora da lì partono solo stradine terrose che portano fuori. Il settore femminile del carcere si trova dietro quello maschile, ancora più fatiscente, è una costruzione della dominazione coloniale italiana degli anni Trenta e forse è nata, immagino io, per vendicare la proverbiale sconfitta che gli italiani ricevettero proprio ad Adwa (Adua) nel marzo del 1896, quando il negus Menelik II bloccò il primo sogno italico di colonizzazione dell’Abissinia e di creazione un impero africano.
Per accedere alla sezione femminile c’è un portoncino di ferro rosso, presidiato da una guardia presente a tempi alterni. Il portone si apre in un muro di cinta basso e sormontato da filo spinato. Se non fosse per la guardia e il filo spinato sembrerebbe un qualunque edificio governativo. Dentro invece sono recluse 34 donne con i loro 12 bambini. Il carcere è composto di tre case di cemento armato allineate attorno a un cortile di terra rossa di sei metri per cinque. Non c’è elettricità né acqua corrente se non il sabato, il rubinetto nel cortile manda acqua solo quel giorno: è festa, bambini e madri raccolgono scorte dentro taniche di plastica da dieci litri.
A settembre il vescovo di Adigrat ha lanciato l’allarme per comprare serbatoi puliti e acqua purificata. Diarrea, malattie intestinali e della pelle sono i maggiori fattori di morte in carcere. L’acqua è contaminata, i bambini si ammalano continuamente. Con la presenza del Covid poi, denuncia il vescovo, la situazione è più preoccupante del solito. C’è, scrive, necessità di acqua pulita e presidi sanitari di disinfezione. Per ora è inascoltato. Il sabato è anche il giorno del lavaggio, dei vestiti e dei corpi. I bambini finiscono dentro vasconi di metallo arrugginito, e giocano col flusso d’acqua che quel giorno scende miracoloso.
Anche le donne si lavano aiutandosi a vicenda con le taniche. Il locale dei bagni, come tutto il resto, è fatiscente. In nessun angolo sono rispettate le norme di igiene. Le detenute non amano stare chiuse nelle “case”, trascorrono quasi tutto il tempo all’aperto. Quando non piove e tutte mangiano o dormono, fuori rimangono solo i fornelletti in cui tostano il caffè. C’è Azieb, che ha 19 anni ed è incinta di otto mesi. Deve scontare un anno e otto mesi per aver rubato un cellulare; partorirà qui, aiutata dalle altre detenute.
Georgis Z. Michael invece è stata condannata per via del microcredito, aveva chiesto un prestito a una banca per aprire un’attività e non è riuscita a saldarlo. Dovrà passare in carcere i prossimi due anni, insieme alla figlia di cinque anni Desinet. Desinet ha problemi cardiaci ma non riceve cure, non è mai andata a scuola né ci andrà finché la madre sarà rinchiusa.
Elfnesh Agos ha picchiato un uomo, le restano da scontare quattro mesi, ma nel frattempo suo figlio di sei anni non ha potuto cominciare la scuola perché fuori non c’è nessuno che lo accompagni. Triffe W. Gabriel è quella con la pena più alta, ha l’ergastolo per aver ammazzato il marito. Non è pentita, dice che era il minimo che potesse fargli, dopo una vita di umiliazioni. Non è raro, in Etiopia, in una società tanto patriarcale è normale che i mariti picchino le mogli. Capita che qualcuna reagisca, e viene subito incarcerata, dopo un processo sommario.
Alem Berhe invece ha due figli di 12 e 7 anni che non sono rinchiusi ma vivono allo sbando, dormono alla stazione delle corriere di Adwa. Kubrom, il grande, ha lasciato la scuola per lavorare e stare con la sorella Meherawit, che è stata avvicinata da uomini adulti. «Mia sorella ha sempre fame», dice, «non abbiamo abbastanza cibo. Ha un problema allo stomaco. Mia zia e i nostri parenti non ci aiutano perché l’incarcerazione di mia madre è vissuta come una vergogna. Quando c’era mamma la nostra vita era normale, avevamo cibo e andavamo a scuola. Di mio padre non ho notizie, lavora a Macallè, ho provato ad andare a trovarlo ma non ha mai voluto vedermi. Senza cibo non riesco a stare sveglio e non riesco a lavorare, e mia sorella non va a scuola se non riesce a stare sveglia. Non mi interessano i vestiti, ho bisogno di cibo».
Fa quello che trova, a volte ruba, per tenere la sorella lontana dalla strada. Spesso è prostituzione, a volte, come nel caso della piccola Meherawit, sono violenze. Gli uomini avvicinano le bambine anche solo con le caramelle. Il tasso di Hiv è alto in tutta l’area rurale di Adwa, in carcere non ci sono controlli né esami del sangue. Tutte, dentro, sono denutrite. L’alimentazione consiste in una porzione di injera (un pane molle fatto di farina di teff che non ha bisogno di essere conservato al freddo) e in una ciotola di shirò (una salsa di peperoncino e ceci) al giorno. Ogni giorno la stessa cosa, all’infinito. I bambini sviluppano gravi malattie legate alla mancanza di altri alimenti.
Quando piove la terra diventa un pantano e i piedi affondano fino ai polpacci. Durante la stagione delle piogge il cortile diventa impraticabile ma questo non frena i bambini dal giocare in mezzo al fango, non hanno nient’altro, saltellano, si rincorrono, fingono di nascondersi. Non gridano mai, tengono la voce e gli occhi bassi. Dentro il carcere non c’è scuola, non c’è un insegnante, non un infermiere. I figli delle detenute dovrebbero rimanere con le madri fino ai cinque anni, ma per chi non ha alternative si chiude un occhio e i bambini crescono misurando il mondo col perimetro del cortile, gli sguardi e gli slanci spenti.
Su un lato, fuori, le detenute hanno costruito una baracca di legno e lamiera dove passano le giornate a filare il cotone riparate dal sole. I bambini le aiutano, educati, servizievoli, spaventati dal mondo che non conoscono. Filare il cotone è l’unica attività che possono concedersi. Producono coperte per loro, il resto del cotone lo vendono, c’è un andirivieni di conoscenti e parenti che vengono a raccoglierlo e lo portano al mercato della città. Un’altra attività è tostare il caffè, è un’operazione lunga, che richiede tempo. Oppure producono injera, e quello che avanza lo danno da vendere al mercato ricavando qualche birr.
Durante la stagione delle piogge le temperature la sera calano fino a dieci gradi, il dormitorio è una stanza spoglia senza materassi dove si raccoglie il freddo; i materassi, dicono, portano germi e uccidono i letti, loro dormono su assi di legno o su coperte di cotone. Manca tutto dentro il carcere femminile di Adwa. Soprattutto l’assenza di una cura esterna. Questa è la cosa peggiore, dopo un po’ si inaridisce anche la parola, tra detenute si comunica a monosillabi, poi a gesti. I bambini sono spaventati. A oggi, tra l’altro, è interrotto qualsiasi tipo di comunicazione, anche telefonica, col Tigrai, e quindi col carcere. Le Forze armate federali governative non vogliono che il mondo conosca le violenze che stanno infliggendo ai Tigrini.