Jaweed e Jamal sono due giovani militanti dell’Isk, un gruppo affiliato a Daesh. Che accettano di parlare con L’Espresso in un piccolo villaggio nella terra di nessuno. Fra pistole, paranoie e voli di Apache

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Bandiera bianca. Almeno per un paio d’ore. Una cosa che fino a poco tempo fa sembrava impossibile pensare. La tensione è alle stelle e lo si può leggere negli occhi del giovane Qais. Ha messo a disposizione la sua casa per un incontro segreto. Entriamo in un vicolo in mezzo a un villaggio appena fuori Jalalabad, principale centro della provincia afghana di Nangarhar. Teme che io sia una spia e che lo stia tradendo. Ha messo a repentaglio la vita della famiglia e la sua, per permettere a due militanti attivi dello Stato Islamico Khorasan (Isk) di essere intervistati. L’Isk è l’affiliato afghano dell’Isis attivo dal 2015 soprattutto nelle provincie nord-orientali di Nangarhar e Kunar.

Ma da qui, anche noi non possiamo scappare. S., la guida, nasconde la macchina targata Kabul dietro al cancello. È sul terrazzo che avrà luogo l’incontro. È una giornata soleggiata. In questa zona del paese, anche se è l’ultimo dell’anno non fa mai molto freddo. Da lontano si avvistano i dirigibili bianchi appartenenti alla Nato o all’Ana (forze armate governative) che perlustrano l’aeroporto militare della città e registrano ogni movimento sospetto. Poi, un aereo militare da ricognizione passa sopra la nostra testa. Potremmo essere bersagli facili. Siamo sul tetto.

Il villaggio in cui ci troviamo è terra di nessuno. È l’unico luogo sicuro. In Afghanistan ce ne sono tanti. Qui né il governo né i terroristi, né i talebani ne hanno il pieno controllo. Ed è in queste zone dove tutto succede, dove la gente riesce a comunicare e spostarsi liberamente. nQais è sempre più teso. Mi guarda con aria di sfida, come a chiedermi perché abbia voluto metterlo in questa situazione scomoda. Poi mi versa gentilmente una tazza di tè.

Il rumore di una motoretta si avvicina e una mano bussa al cancello. Scende le scale per aprire mentre io e S., sorseggiando il tè, cerchiamo di mantenere la concentrazione seduti per terra e appoggiati a qualche cuscino. Rumori di passi che salgono le scale si fanno sempre più vicini. Dopo Qais, dalla porta sbuca un ragazzo giovane, pelle olivastra e due occhi pieni di rabbia e morte ma anche tanta paura. Mi uccide con lo sguardo. Porta un tufancha, un turbante bianco e un peran tomban azzurro (il vestito tradizionale), abbinato a un wasqat (un gilet) nero e sporco.

Estrae una pistola. S. lo osserva impaurito. Ma non vuole puntarla in faccia a nessuno, la sistema per sedersi comodamente. Erano le regole del gioco sin dall’inizio, Qais lo aveva detto: Jaweed, il nome del 25enne militante dell’Isk, non ne avrebbe fatto a meno. Ha paura di noi perché ci considera a sua volta delle spie. Vuole che tutti i telefoni siano rimossi. «Siediti da quel lato e girati verso di noi», gli dice Qais. Jaweed dà le spalle al dirigibile bianco che sorvola per osservare qualsiasi movimento. In quella posizione sembra essere protetto.

Sono cresciuti insieme nello stesso villaggio nel distretto di Deh Bala, oggi una delle roccaforti dell’Isk. Ma le loro vie hanno preso pieghe completamente differenti. È da un anno e mezzo infatti, che Jaweed è parte dell’Isk, movimento dichiarato sconfitto un mese fa dal governo afghano e dalla coalizione internazionale. Ma questa è la prova tangibile della propaganda e della disinformazione governativa e, soprattutto, americana. Lo Stato islamico, in Afghanistan, vive e respira ancora fra le aspre montagne di Nangarhar e Kunar, a ridosso del confine con il Pakistan.

«Ho studiato i testi religiosi per 12 anni. Non solo il Corano ma anche gli Hadith. So come implementare la legge islamica. Ecco perché ho deciso di avvicinarmi allo Stato islamico. Deve essere chiaro», dice Jaweed muovendo solo i pollici e tenendo incrociate le dita delle due mani, «lottiamo per espandere l’Islam in tutto il mondo. È una religione che non ha confini. Ecco perché ho cominciato da qui, combattendo l’occupazione dei “Kuffar” (gli infedeli). Sono venuti portando concetti e idee false di una certa democrazia, usandola come pretesto per uccidere persone e imporre la propria religione. Noi siamo i soli responsabili nel difendere la nostra fede nel mondo». Una convinzione profonda. Lui non ha conosciuto altro che l’occupazione occidentale del suo paese. Jaweed ha la barba incolta, ma non folta. È ancora molto giovane. Non perde mai la calma. Aspetta con ordine la traduzione alla domanda in pashto, guardando S., mentre parlo. «Vedi, Allah ha creato il meglio del meglio. Noi musulmani siamo il meglio del Corano. Ecco cosa spero, che gli stranieri accettino l’Islam perché è stato creato perfetto. Mi sento male per loro che non hanno ancora abbracciato la vera fede».

Ha scelto l’Isk, racconta, da molti anni, sin dai tempi in cui era ancora nella madrasa (la scuola coranica) quando era più giovane. Con il tempo ha dovuto crearsi un nome e guadagnarsi la fiducia del commando terrorista. «All’inizio mi hanno assoldato per arruolare nuovi seguaci. Nessun tipo di addestramento. Dovevo spiare le persone, vedere chi contrastava il movimento. Oppure convincere le persone ad arruolarsi. Dopo un anno ho cominciato l’addestramento. Sono un soldato semplice, non un comandante. Combattiamo colpendo checkpoint, basi militari, convogli, ma soprattutto dobbiamo difenderci. Attualmente la situazione militare non è delle migliori perché ci sono molte operazioni contro di noi ma siamo tutt’altro che sconfitti».

Nell’ultimo trimestre dell’anno scorso difatti, l’Isk è stato attaccato pesantemente sia dai talebani sia dalle forze della coalizione a guida americana, indebolendolo decisamente e costringendo i suoi militanti a nascondersi, disperdendo centinaia di loro combattenti e catturandone altrettanti. Mentre parliamo, dalla regione meridionale della provincia ritornano alla base elicotteri Apache neri e aerei Pilatus svizzeri da ricognizione, appartenenti all’aviazione militare afghana. Passano sopra le nostre teste. Jaweed si irrigidisce. Non era d’accordo a incontrarci in questa zona, voleva che ci incontrassimo nel villaggio di Kabul Kamp, più a sud, non lontano dalla frontiera con il Pakistan. Oggi altra terra di nessuno fra governo, Ik e talebani. Ma erano in corso operazioni militari.

«Il governo afghano ci vede come diversi. Come se non appartenessimo a questo paese, ma in realtà siamo tutti afghani. Sono loro che combattono per i Kuffar e non per l’islam». Per Jaweed e tutti i combattenti del jihad c’è un riconoscimento che prevale su tutto: diventare “Ghazi”, lo status ottenuto da chi uccide un infedele in battaglia. «Siamo felicissimi quando riusciamo a uccidere uno straniero. Quello di cui ci rammarichiamo è dover uccidere altri afghani, perché non siamo riusciti nell’intento di spiegare loro di unirsi a noi e chiederli perché non accettino l’Islam. Ma non abbiamo scelta. Chi uccide per l’islam va in paradiso, nel Jinna, chi è contro, andrà all’inferno».

L’Isk si rifornisce attraverso il Pakistan. Molti dei suoi militanti iniziali, nel 2015, provenivano dal movimento estremista pachistano Tehrik-i-Taliban Pakistan. Ma anche armi e equipaggiamento militare. «Nei nostri territori abbiamo tutto. Cibo e anche una paga che ci permette di sopravvivere con le nostre famiglie. Viviamo bene. I comandanti ci danno qualsiasi arma vogliamo».

Jaweed parla del Jihad come della sua professione giornaliera e il suo passatempo: «Il nostro lavoro è 24 ore su 24. Mi sveglio e prego. Dopo aver fatto Ishraq (la preghiera dopo l’alba), studiato e letto il Corano, comincio il mio lavoro: il Jihad. I comandanti hanno bisogno di noi. Ancora dopo la preghiera serale, vediamo se i comandanti hanno bisogno di noi. Anche il venerdì». È guerra.

Si spazientisce presto. Vuole partire. È nervoso e ha paura che i suoi comandanti lo scoprano o peggio, che lo catturino i governativi. Si alza. Prima di partire, S. cerca di convincerlo a darmi la mano in segno di rispetto. Ma lui non vuole. Qais ritorna dopo averlo accompagnato e spiega la ragione: «Se ti avesse dato la mano, forse gli avresti lasciato un segno invisibile che i droni avrebbero intercettato e sarebbe stato un bersaglio». Una tecnica di guerra molto usata in Afghanistan. Non ci si può fidare di nessuno.

Non tutti però sono convinti come Jaweed. La povertà, la corruzione, la mancanza di un futuro e soprattutto la spregiudicatezza e le numerose morti civili che hanno causato le forze occidentali hanno portato molti afghani a perorare la causa di gruppi insorti o criminali. Tra le fila talebane o dell’Isk, oggi ci sono figli, padri e fratelli di civili innocenti rimasti uccisi che gridano vendetta.

Non è solo la morte. Anche la frustrazione e la mancanza lavoro data da un sistema corrotto. È così che Jamal comincia a raccontare la sua decisione di raggiungere le fila dell’Isk. Anche lui è cresciuto con Qais nel distretto di Deh Bala. Arriva dopo la partenza di Jaweed. Si presenta ancora più impaurito. Ha una mascherina che ricopre la faccia, per non mostrare la sua identità. Porta un cappellino blu e rosso e un vestito tradizionale grigio. Non sembra essere armato. «L’occupazione americana, l’uccisione di civili innocenti. Sono venuti nel nostro paese pacifico e hanno distrutto tutto. Hanno creato il loro governo. Io, dopo aver finito il liceo, ho provato a entrare nel governo per lavorare. Ma è tutto corrotto e non ho avuto altra scelta che difendere il mio paese».

Oggi vive nel distretto di Durbaba, altro distretto in mano all’Isk. Ha solo 23 anni e da un anno ha deciso di arruolarsi. Si capisce che non è convinto come il suo compagno dalle risposte. È meno estremo, anche se ammette che l’Isk è l’unico partito che «difende i valori santi dell’Islam nel mondo e può applicare la legge islamica», confermando anche le recenti perdite subite in battaglia durante l’assedio del governo.

«Sono una spia. Arruolo la gente per combattere. È un processo necessario se vuoi diventare un combattente. Ti devono studiare. Aprono un vero e proprio dossier. Vogliono sapere se si possono fidare. L’Isk mi da ciò di cui ho bisogno per vivere con la mia famiglia. E io ho due figli». Il test di entrata è arruolare o portare di fronte alla giustizia arbitraria persone sospette. Jaweed, prima di lui, lo spiegava fin troppo chiaramente: «Ci sono due tipi di persone. I veri afghani, amanti dell’Islam e del jihad, che raggiungono le file senza batter ciglio. Sono veri musulmani. Poi ci sono quelli che rifiutano, persone contro le quali bisogna combattere, far loro avere una brutta morte e spedirle all’inferno. Catturiamo chi si oppone e applichiamo la legge della Sharia’a. O li rilasciamo con garanzia che scappino o parlino, oppure, chi si oppone, viene ucciso».

Jamal lo spiega in modo meno crudo. «Alcune persone lavorano per i nemici e rappresentano un pericolo. La religione ci dice di combattere i pericoli non chiunque. Tu non sei un bersaglio perché non sei un pericolo. Non possiamo uccidere a caso. Ma visto che ci sono nemici dell’Islam che ci occupano, ne abbiamo il diritto. Vogliamo diventare Ghazi».

Alla fine Jamal si dilegua ancora più in fretta di Jaweed. La paura prevale fra tutti. Anche noi dobbiamo farlo. Il luogo è pericoloso e gli informatori potrebbero già sapere dell’incontro. Non abbiamo tempo. Percorriamo la stretta stradina sterrata e sconnessa che divide una serie di caseggiati colorati e di rara bellezza, affiancate da alberi mediterranei. Difficile immaginarsi il pericolo. Rientriamo sulla strada principale, dove il rischio diminuisce. Qais mi guarda. Spera che non gli succederà nulla. Conta su di noi. Quello che ha appena fatto potrebbe costare loro caro. Una sola informazione sbagliata e moriranno. Hanno garantito.

È la prova che lo stato islamico è ancora vivo, nel tessuto della società. Non è morto come dicono e potrebbe risorgere.