Tunisine, australiane, russe. Hanno seguito i loro uomini nel califfato. Oggi sono rinchiuse in un campo con i loro bambini. E chiedono di tornare a casa (Foto di Francesco Pistilli)

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«Ghalta omri, ghalta omri!», canta in dialetto tunisino Zeina, intonando la canzone che oggi più la rappresenta da sotto il suo niqab, il velo che le copre il volto interamente, esclusi gli occhi. «Ghalta omri… l’errore della vita, l’errore più grande della mia vita!», continua a ripetere il motivetto con lo sguardo verso il cielo, l’unico suo squarcio di libertà dentro al-Hol, il più grande campo-detenzione delle donne dell’Isis nella Siria del Nord-Est. Zeina ha 30 anni e 5 figli, del marito - tunisino come lei - non ha più notizie da quasi un anno. Potrebbe essere morto o potrebbe essere in una delle prigioni sotto il controllo delle Forze siriane democratiche (o Sdf), a guida curda. I figli invece sono con lei, stanno crescendo nel reparto del campo chiamato “The Annex”, quello riservato alle donne straniere.

Secondo le autorità del campo sono circa diecimila le donne e i bambini che abitano l’Annex di al-Hol, di quarantotto nazionalità diverse e tenute separate dalle donne e famiglie siriane e irachene che vivono nell’altra parte del campo e che costituiscono la maggioranza. Retto dall’Amministrazione autonoma dei curdi siriani, il campo si trova in mezzo al deserto, al confine con l’Iraq. «Voglio tornare a casa, vogliamo tornare in Tunisia. Mi manca la mia mamma, le voglio dare un bacio e chiederle di perdonarmi», si lascia andare Zeina, con in braccio un bimbo e un altro che le tiene la mano. «Sono venuta in Siria con mio marito per unirci allo Stato islamico, ma non credevamo fosse così. Ho vissuto a Raqqa solo venti giorni e ho visto tutti i crimini che venivano compiuti». Nella sua richiesta di ritorno a casa, Zeina lancia un messaggio: «Non sappiamo i nomi dei criminali, non vedevamo molti uomini. Che ci facciano tornare in Tunisia: non mi muoverò mai più, per nessun altro posto al mondo». Ma nessun giornalista tunisino o tantomeno diplomatico ha mai visitato il campo: Zeina non sa a chi appellarsi.
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Le stesse preoccupazioni di Zeina sono condivise dalle sue compagne, in comune hanno quel lungo vestito nero che col niqab addosso le rende tutte simili, se non fosse per il colore degli occhi e le lacrime che li rendono lucidi. «Tra di noi ci sono dottoresse e maestre, non vogliamo che i nostri figli crescano qua: alcuni di loro non sanno né leggere né scrivere», si lamenta Rahma di Ariana, quartiere nord della capitale tunisina. «Nella parte inferiore dell’Annex viviamo noi donne che abbiamo lasciato Daesh», continua accanto a lei Mariam, utilizzando l’acronimo arabo dispregiativo di “Stato islamico dell’Iraq e della Siria”, mentre nella parte superiore «ci sono ancora i fedeli». E nessuna di loro osa varcare quella soglia, così come raramente lo fanno le forze di sicurezza del campo: sono frequenti infatti proteste, con tende incendiate e attacchi ai soldati, nonché omicidi e punizioni per chi non rispetta le severe regole di abbigliamento e comportamento che vigevano sotto il Califfato.
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I tentativi di fuga sono costanti, soprattutto nella notte, quando si spengono le luci del campo. Rahma e Mariam vivono in Siria da cinque anni, hanno abitato nelle cittadine di Tabqa e Shaddadi sotto l’Isis, hanno scelto di vivere nei territori controllati dal loro presunto Califfato perché «da noi non potevamo portare liberamente il niqab». Con i loro figli - Rahma ne ha 5, Mariam ne ha 3 - hanno provato a uscire dai territori controllati da Daesh, come lo chiamano ora, a fuggire verso la Turchia per scappare. «Qadar Allah. Il destino voluto da Allah. Il trafficante che avevamo pagato per scappare ci ha tradite e consegnate alle forze curde. Ci hanno portato in prigione, ovvero in questo campo, un anno fa. Adesso non chiediamo nulla, aspettiamo il nostro cammino. Ma vorremmo essere giudicate in una Corte in Tunisia, non qua». Sono riuscite nei mesi scorsi a contattare le loro famiglie di origine tramite la Croce Rossa, ma non sempre hanno questa possibilità. La loro unica speranza è che i loro bimbi abbiano un futuro diverso: «i più piccoli sono cresciuti nell’ultimo anno in una tenda, non hanno idea di come sia la forma di una casa».

Mentre le mamme si mettono in fila per accedere all’ospedale da campo, i bambini giocano in mezzo alla polvere e alle barriere di filo spinato. Almeno, quelli che ce la fanno a stare in piedi, a correre, a giocare. Sì, perché nel corso del 2019 sono morti almeno 317 minori, molti neonati, e oltre 200 adulti, proprio per le condizioni proibitive del campo, la malnutrizione e la disidratazione: «Caldo infernale, tempesta di sabbia in estate; freddo gelido nelle notti d’inverno», raccontano tutte in coro. «E poi la pioggia, le inondazioni, il nostro peggiore nemico ad al-Hol», dicono.
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Qualche donna si fa strada tra la fila per raggiungere il minimarket dove si possono comprare beni di prima necessità. Il negozietto è tenuto da Hatem, un uomo sulla cinquantina di Hasake, la città più vicina da cui ogni giorno viene per gestire la sua attività insieme al nipote. «Abbiamo una buona relazione con le donne del campo, c’è amicizia e fiducia con alcune. Certo, se le rimpatriassero, sarei contento per loro», racconta mentre distribuisce alle clienti miele, pane, zucchero, noodles. «Le muhajirat, le migranti straniere, non possono andare al mercato del campo nella parte dei siriani e degli iracheni, vengono solo da me. Abbiamo tutto, trucchi, tinte per capelli… perfino sigarette, ma le diamo di nascosto». Hatem ridacchia: sostiene che l’Islam che praticano queste donne è tutta una farsa. «Solo parole. Fumano tutte. Hanno paura a dirlo, ma basta che siano sole, l’una distante dall’altra… e si mettono pure in canottiera!»

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Secondo Aylul, una donna curda originaria di Afrin che lavora per la sicurezza del campo dal marzo 2019, il campo di al-Hol ha origini lontane nel tempo. Nel 1986 era stato creato per i rifugiati palestinesi, già presenti in Siria in diverse regioni del paese, soprattutto nelle grandi città come Damasco e Aleppo. Nel 2003 era diventato un campo per i rifugiati iracheni, in fuga dalla situazione caotica che ha seguito l’invasione americana in Iraq. Quando nel 2016 gli sfollati interni siriani hanno cominciato ad abitarlo, non tutti erano appartenenti a Daesh. Ma questo è stato il suo destino finale. Adesso, infatti, è abitato sì da siriani (la metà dei residenti) che abitavano nei territori sotto il controllo dell’Isis, e da iracheni, ma anche dalle donne di tutto il mondo, appartenenti all’Isis, rimaste fino all’ultima battaglia.

Dal giugno del 2019 ad oggi sono state rimpatriate 1.430 donne straniere e oltre 4.000 siriane. Queste ultime vengono portate a casa, nei loro villaggi e cittadine di origine, grazie a degli accordi che le Forze siriane democratiche e l’Amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria stringono di volta in volta con i capi tribù locali. Gli accordi firmati sotto la garanzia degli sheikh religiosi vogliono favorire il processo di riconciliazione con chi ha militato nello Stato islamico, a patto che le zone di rimpatrio non siano in guerra o che le persone non siano ricercate dal regime di Assad: questo comporterebbe un rischio di imprigionamento ulteriore, se non la morte. Grazie a questi rimpatri, la popolazione del campo è diminuita, fermandosi attualmente a circa 66 mila persone. Le donne e i bambini stranieri invece dipendono totalmente dai governi dei propri paesi, la maggior parte dei quali soprattutto in Europa si è mostrata restia.

D’altro canto, non tutte le persone vogliono tornare nei paesi di origine. Come Fatima, 34 anni con i suoi due figli Saif di 11 e Khaled di 5. «Veniamo dalla regione del Caucaso in Russia. Preferisco restare in questo campo che tornare là dove mi aspetta la prigione», afferma decisa, ma anche molto delusa. «Abbiamo vissuto a Tabqa, in Siria, e poi in Iraq, ad Abu Kamal, ma non sono venuta con mio marito, sono partita con un gruppo dal Caucaso, tutti insieme per vivere con l’Isis. Su Internet sembrava tutto bello, sono iniziate partenze con viaggi organizzati. E invece, solo armi e aerei sopra di noi», conclude riferendosi ai jet della coalizione che hanno combattuto contro l’Isis in Iraq e in Siria dal 2016 al 2019, con la battaglia via terra portata avanti dalle Forze siriane democratiche fino a Baghuz, la roccaforte espugnata nel marzo 2019. Un’altra donna russa invece, Mazina, tiene in braccio la piccola Sophie di 14 mesi, nata a Mradjane, vicino a Baghuz: «È malata, ho paura mi muoia in braccio!» Lei sì che vuole tornare in Russia a qualsiasi costo: non solo per la bimba, ma per se stessa: dopo mesi e mesi, ha ancora paura delle bombe e non riesce a dormire.

Ancor più determinata è M., un’australiana di 28 anni che non vuole si scriva il suo nome. Viveva a Raqqa col marito libanese-australiano ed è lì che sono nati i suoi figli. «Abbiamo bisogno di cure, mediche e psichiatriche, non possiamo restare qua! Dobbiamo dare un’opportunità alla prossima generazione per le loro vite», dice in inglese. «L’Occidente lo sa benissimo: solo attraverso l’istruzione possono evitare un altro Stato islamico! Perché allora ci tengono qua? I governi sanno tutto su di noi, non è sufficiente per giudicarci nei nostri paesi?» Il padre di M. è venuto già due volte dall’Australia per farle visita e conoscere i nipotini. Ma anche degli amici sono andati a trovarla, sperando che torni a casa. «Al-Hol non è un posto sicuro dove stare, il rumore del vento non ti lascia mai e poi le tende si accasciano su di noi a causa della pioggia. Se non volete un altro Isis, portateci a casa», ammonisce decisa.
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Al di fuori dell’Annex, isolato dal resto del campo, la vita di al-Hol scorre con la vitalità del suo mercato di frutta, verdura e qualche altro negozio di elettronica o ferramenta. «Molte persone temono furti, così consegnano i loro risparmi all’amministrazione e ogni mese li chiedono per usarli. Al mercato c’è tutto, come in una città. Ci sono tre moschee, scuole gestite dalle organizzazioni umanitarie, ma non per i bimbi stranieri: troppe lingue diverse, non si può organizzare», spiega Ahmed dell’amministrazione, aggiungendo che almeno per loro hanno creato dei luoghi di ristoro ricreativo. Ma in questa strada di campo, le donne vestite di nero rispettano ancora un codice comportamentale che richiama le regole ferree del Califfato. E i bambini nel campo ti urlano: «Dove sono i nostri padri? In quale prigioni? Vogliamo i prigionieri liberi!» Poi scappano, correndo, quasi minacciosi, nonostante il sorriso da ragazzini: «Non si chiama Daesh. Si chiama Stato islamico. E tornerà!»

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