
Stephanie vive nella contea di Kent, in Michigan, l’area più repubblicana di questo Stato del Midwest, democratico per lunga tradizione bruscamente interrotta nel 2016 dall’imprevisto successo di Donald Trump (10.704 voti più di Hillary Clinton) che proprio al Michigan (con Wisconsin e Pennsylvania) deve la Casa Bianca.
Suo padre Robert, 52 anni, fiero conservatore che ama farsi intervistare dalla locali tv con una maglietta azzurra e uno slogan rituale (“Liberate My State, Make America Great Again”) è un ultras di The Donald. Per la terza volta (le prime due ha fallito) tenta di farsi eleggere al Congresso con un dettagliato programma di destra sovranista e radicale per poter rappresentare la «vera anima di questi luoghi».
Due ore e mezzo di auto a nord-ovest di Detroit, la contea di Kent è una cartina di tornasole delle fortune (e dei candidati) del Grand Old Party. Attraversata e segnata nei secoli dal Grand River, il grande fiume che finisce la sua corsa nel lago Michigan (lungo la cui sponda occidentale si possono ancora osservare i tumuli che nascondono i resti degli indiani Hopewell) venne colonizzata nei primi decenni dell’Ottocento da immigrati olandesi cristiani e puritani: che si arricchirono con il commercio di pellicce, fondarono Grand Rapids, la città che è ancora oggi simbolo e orgoglio della contea e plasmarono cultura e morale del luogo e dei suoi abitanti.
Seicentomila abitanti (76,1 per cento bianchi, 10,2 afro-americani, 9,7 ispanici, 2,4 asiatici), età media 32 anni, Kent è stata scelta da Nbc News tra le cinque contee che nei prossimi quattro mesi saranno messe sotto la lente di ingrandimento per prevedere chi sarà il vincitore della sfida del prossimo 3 novembre tra Donald Trump (presidente uscente) e Joe Biden (sfidante democratico).

L’importanza di questa contea è duplice. Perché è l’unica tra le dieci decisive del Michigan conquistate da Trump nel 2016 che dal 1964 ha sempre votato per il candidato repubblicano (unica eccezione Obama nel 2008, vittorioso di un soffio con lo 0,52 per cento) e dal 1884 solo quattro volte è andata ai democratici; perché la sua anima repubblicana è piuttosto moderata, tanto che Trump ha avuto cinque punti percentuali in meno rispetto a Mitt Romney nel 2012. Una delle aree più benestanti (reddito medio 5mila dollari mensili) e con il maggior numero di laureati di tutto il Michigan, Kent County è stata a lungo la residenza dell’ex presidente Gerald Ford, il vice di Nixon che prese il suo posto dopo lo scandalo Watergate. Ospita il museo che porta il suo nome ed ancora oggi è sede della “Chamber of Commerce”, l’organizzazione dei moderati repubblicani che una volta erano la più grande base elettorale del partito che fu di Abraham Lincoln e che oggi è di Donald Trump.
I moderati del Gop, in Michigan come altrove, quest’anno sembrano decisi ad abbandonare il partito che hanno sempre votato. Di fronte hanno due scelte, quella di non recarsi alle urne o quella di votare per il candidato democratico Joe Biden. La prima, l’astensione, rischia di favorire The Donald, la seconda è psicologicamente difficile da accettare per chi, da generazioni, ha sempre votato per il Grand Old Party: ma un numero sempre crescente sta optando per quest’ultima soluzione.
In questo imprevedibile anno elettorale, segnato dalla pandemia (130mila morti), da una disoccupazione che ricorda la Grande Depressione degli Anni Trenta (21 milioni senza lavoro) e da un movimento di protesta che non si vedeva dagli anni Sessanta, con il complicato sistema elettorale degli Stati Uniti - dove le regole sono ancora quelle stabilite dai Padri Fondatori due secoli e mezzo fa - a decidere chi sarà il “Commander in Chief” della principale superpotenza del pianeta Terra saranno i giovani, i neri, in parte le donne e loro: i repubblicani moderati delle contee dei “Battleground States”, gli Stati in bilico tra democratici e repubblicani.
Nella contea di Kent Trump vinse nel 2016 di soli 3 punti percentuali contro Hillary Clinton, circa 10mila voti che poi sarebbero risultati decisivi nella conquista del Michigan e della Casa Bianca. Oggi le cose per il presidente in carica vanno decisamente peggio. Già nel 2018, alle elezioni di Mid Term, i democratici avevano ribaltato il gap storico nei confronti dei repubblicani con l’attuale Governatrice, Gretchen Whitmer, che aveva sconfitto il rivale del Grand Old Party di quattro punti. Altro segnale lo scorso anno, quando il deputato conservatore Justin Amash, che rappresenta la contea al Congresso Usa, ha lasciato il partito repubblicano per diventare indipendente.
I dati di fine giugno ci dicono che se si votasse oggi il presidente sarebbe sconfitto e che Joe Biden potrebbe dormire sonni tranquilli. Secondo i sondaggi (25 giugno) del NewYorkTimes/Siena College (che rilevano le contee più significative) Trump ha perso un terreno significativo in 3 degli Stati in bilico che gli hanno dato la vittoria nel Collegio Elettorale quattro anni fa. Biden ha vantaggi a due cifre in Michigan (47 a 36), in Pennsylvania (50 a 40) e Wisconsin (49 a 38). Il vantaggio di The Donald tra gli elettori bianchi è quasi scomparso e tra i bianchi con una laurea l’ex vice di Obama è avanti di 21 punti.
Se guardiamo il sito electoral-vote.com che quotidianamente aggiorna la mappa degli Stati Uniti con i “voti elettorali” Stato per Stato (per conquistare la Casa Bianca ne occorrono 270) a fine giugno il vantaggio di Biden è indiscutibile. Perché di voti elettorali ne avrebbe oggi 368, perché viene dato in vantaggio anche in Stati tradizionalmente repubblicani come l’Arizona, perché sarebbe alla pari addirittura nel Texas che con i suoi 38 voti vale più di Michigan, Wisconsin e Pennsylvania messi assieme.
Sembrano numeri impossibili da ribaltare in soli quattro mesi, ma in un’elezione presidenziale degli Stati Uniti 120 giorni sono un’eternità. La storia di The Donald, le vicende - anche quelle più incredibili - che hanno caratterizzato i suoi (quasi) quattro anni di presidenza, ci dicono che con lui le previsioni sono un terno al lotto. Dal 3 febbraio 2017 quando la sua popolarità è iniziata a declinare (a soli due settimane dall’insediamento alla Casa Bianca) la percentuale di chi approva la sua politica ha oscillato tra il 36,5 e il 43,6 (quella negativa tra il 48,8 e il 55,2) A inizio anno era stato dato per spacciato, ma il 4 aprile - durante il picco della pandemia - ha raggiunto, a sorpresa, il suo record di popolarità (45,8) nonostante (o forse proprio a causa) i suoi tweet contraddittori, la negazione del coronavirus, le accuse senza prove ai cinesi e agli europei “untori del mondo”.
Poi è arrivato George Floyd, il video dell’uccisione per soffocamento per mano di un poliziotto bianco, le proteste, i saccheggi, le statue abbattute e The Donald ha deciso di giocare la carta ‘Law&Order’, i richiami a Nixon, le accuse ai “criminali” che vogliono distruggere gli Stati Uniti. C’erano tutte le condizioni - e molti opinionisti le davano per certe - perché il richiamo all’ordine, gli appelli al mondo dei bianchi per «fare di nuovo grande l’America» dessero un nuovo slancio alla sua popolarità. Ne era così convinto il presidente da postare su Twitter un video in cui un suo militante urla e inneggia al “White Power”, il potere ai bianchi, sfidando i dimostranti antirazzisti su un campo da golf della Florida. Un tweet accompagnato da queste parole: «La sinistra estrema e lazzarona appassirà in autunno. Il corrotto Joe è finito. A presto!».
Parole che sono musica per le orecchie di Robert Regan, il padre della ribelle Stephanie (anche l’altra figlia Natalie ora lo critica pubblicamente). Lui vuole ripristinare la milizia costituzionale del Michigan; vuol fare dell’inglese la lingua ufficiale dello Stato; di recente ha bruciato il suo absentee ballot (la scheda per votare via posta) per sostenere le denunce di Trump, secondo cui i voti “in assenza dai seggi” porteranno a brogli elettorali che lo faranno perdere; ha partecipato alla “Operation Gridlock”, la grande protesta, armi in pugno, contro il lockdown deciso dalla Governatrice Whitmer; pensa che le figlie siano state “plagiate” dal Black Lives Matter Movement e che il «privilegio dei bianchi non esiste nello stesso modo in cui non esiste il riscaldamento globale causato dall’uomo».
Nella Kent County quelli che gli hanno sempre dato ragione stanno diminuendo. I “suburbs”, le periferie del ceto medio di Grand Rapids e di altre città della contea si stanno diversificando, Kentwood è oggi quella con il sistema scolastico più progressista dell’intero Michigan. Molti bianchi del posto hanno confessato alla National Public Radio che per la prima volta si sono resi conto che esiste un problema razzismo negli Usa, in diversi si sono definiti “ex conservatori”. Tutti avevano votato per Trump nel 2016 e quasi nessuno lo rivoterà il 3 novembre. Lo stesso processo di allontanamento e di disillusione dal trumpismo avviene nelle altre contee-cavia dove l’attuale presidente aveva trionfato: Milwaukee County (Wisconsin), Beaver County, (Pennsylvania), Miami-Dade County (Florida), Maricopa County (Arizona). L’America “nascosta” questa volta potrebbe costare a The Donald la Casa Bianca.