Violenze della polizia e diritti umani calpestati. Impunità sui crimini del passato. E tra i giovani cresce la voglia di un tiranno. “Abbiamo bisogno di un dittatore”

Una sera di fine ottobre tra le strade del centro di Tunisi, tanta gente è ancora in giro a godersi l’aria tiepida dell’autunno mediterraneo. In un locale dove si radunano attivisti locali e cooperanti internazionali, uno dei pochi dove si può bere alcool, si discute di migrazioni, di povertà, di stato di diritto. Ci sono anche due ragazzi egiziani, amici di Patrick Zaki. Uno di loro racconta che non potrà più rientrare nel suo Paese; troppo pericoloso dopo avere usufruito di una borsa di studio in diritti umani in Europa. La Tunisia adesso è il suo limbo.

Subito fuori da lì siamo su avenue Bourgiba che dicono ricordi gli Champs-Élysées e in cui è ancora vivido il lascito coloniale del protettorato francese. Non sono nemmeno le 21 quando si sentono le grida di un ragazzo. Ci avviciniamo per vedere. Uno dei tantissimi poliziotti in borghese che si aggirano per la città lo ha afferrato per un braccio e lo trascina verso una strada laterale. Nel tragitto lo riempie di calci e colpi alla testa. L’attivista tunisino che è con noi prova a fermarlo e il massimo che riusciamo a ottenere, e solo perché siamo europei, è che non sia preso pure lui.

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Appena pochi giorni prima, del resto, il 21 ottobre, Badr Babou, presidente dell’associazione tunisina Damj che si occupa di giustizia ed eguaglianza, era stato selvaggiamente aggredito da altri due poliziotti, sempre in pieno centro, mentre rientrava a casa. In quell’occasione, 37 associazioni avevano diffuso le foto del suo viso tumefatto e un comunicato stampa, denunciando «le pratiche sistematiche della brutalità poliziesca» e «l’impunità degli agenti delle forze dell’ordine, rinnovata in particolare dopo il 25 luglio, giorno dell’instaurazione dello stato di eccezione da parte del presidente Kais Saied». Le associazioni affermavano la volontà di «salvaguardare e difendere le conquiste della rivoluzione, tra cui i diritti e le libertà fondamentali garantiti dalla Costituzione del 2014».

Non è un segreto che Saied, proprio nel nome dei valori della “primavera” del 2011, canalizzando il malessere sociale esploso da ultimo con le manifestazioni del gennaio 2021 che hanno portato a 968 arresti, abbia stretto un patto con le forze dell’ordine e militari del Paese, come prima di lui hanno fatto tutti quelli che sono stati al potere. Nessun 25 luglio sarebbe stato altrimenti possibile per un uomo senza partito o affiliazioni ideologiche o programma politico. Da allora la polizia è come rinvigorita, le pagine Facebook dei suoi cosiddetti «sindacati» sono piene di foto sbattute in rete di ogni ragazzino fermato dai poliziotti, di chiunque abbia avuto la sfortuna di imbattersi in loro.

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Non sono trascorsi nemmeno dieci anni dalla rivoluzione tunisina, e oggi c’è da chiedersi se sia stata davvero tale. «Una rivoluzione deve portare un progetto politico alternativo o è solo un’insurrezione». Sono le parole di Wahid Ferchichi, professore di Diritto pubblico all’università di Tunisi, che tanto ha lavorato per favorire il difficile passaggio tra la dittatura e la fragile democrazia tunisina. «Questo Paese la democrazia non l’aveva mai conosciuta e non le ha dato la chance di dimostrare cosa poteva portare. Adesso sta andando in un’altra direzione», mi dice.

Effettivamente, che la democrazia sia un valore in sé non sembra opinione condivisa tra le strade della Tunisia, e in pochi sembrano essere inquieti per il colpo di Stato di Saied, un salto nel buio e la probabile fine di ogni percorso democratico.

Nella parte più povera del Kram, banlieue nord di Tunisi a fortissimo rischio di radicalizzazione giovanile, una insegnante delle scuole medie dichiara senza esitazione che «con Ben Alì si stava meglio». Anche Amal, operatrice sociale di 35 anni che incontro nella sede della sua associazione, dice che riconosceva di più la «sua» Tunisia quando c’era Ben Alì: «Eravamo sotto dittatura? Può darsi, ma poi c’è stata la totale anarchia. Noi abbiamo bisogno di un dittatore».

Accanto a lei c’è Lamin, che nel 2011 aveva 15 anni, e oggi è una delle figure ponte tra gli operatori e i ragazzini del posto: «La mia opinione della rivoluzione è zero. Niente è cambiato nella mia vita, prima o dopo Ben Alì. Sono nato al Kram, non mi ascolterà mai nessuno. Perché dovrei avere paura di non potere più parlare?». Cammino per le strade del quartiere accompagnata da Olfa che ha 18 anni e della rivoluzione ricorda solo la confusione e la paura, ma ha le idee chiare e una lucidità che spiazza: «Non si conosce il valore di un cambiamento nel momento in cui avviene, ma solo dopo anni e qui c’è ancora tanto da lottare».

La interrompe un suo amico, ormai c’è un piccolo gruppo di ragazzi intorno a noi: «Ci sono ancora giovani che vogliono partecipare alla vita sociale e politica, e questo grazie alla rivoluzione, ma ci sono troppi uomini vecchi che impediscono il cambiamento. Prima c’era solo un dittatore, dopo il 2011 ce ne sono tanti». Un ragazzino ci saluta dicendo che non ha tempo per parlare, deve correre al porto de La Goulette per cercare di imbarcarsi clandestinamente su uno dei traghetti per l’Italia: «Nella vita voglio fare tante cose, anche se ancora non le conosco e l’unico modo è lasciare la Tunisia». Ha visto su Internet che Milano è una bella città.

«Oggi nel Paese serpeggia la voglia di ancien régime. Non c’è memoria, non si è voluto preservarla». Khayem Chemli, di Avocats sans frontières Tunisie, è stanco ma non arreso mentre ricostruisce la storia complessa della giustizia di transizione in Tunisia; quel processo che, nella teoria, dovrebbe curare le società dopo traumi come dittature e genocidi, portando alla verità sugli abusi, alla riparazione per le vittime, alla non ripetizione delle violazioni e gettare le basi per un futuro di pace e diritti.

Le cause che qui lo hanno ostacolato sono molteplici, ed è quasi un miracolo che l’Istanza verità e dignità (Ivd), incaricata di indagare le violazioni dei diritti commesse dal 1955 al 2013, e che ha ricevuto più di 60 mila dossier, sia riuscita almeno a pubblicare il suo Rapporto finale e a inviare più di 200 casi, di cui 49 per corruzione, alle camere specializzate. Ma alle udienze gli imputati non si sono quasi mai presentati, sotto ordine del ministero dell’Interno e della polizia, in un clima politico segnato, dopo il 2014, da un’aperta ostilità contro la giustizia di transizione che si è tradotta in una continua denigrazione ad opera dei principali media.

Inoltre, come spiega Khayem, leggi ad hoc hanno coperto i reati amministrativi dei colletti bianchi, molti dossier riguardano funzionari e poliziotti ancora in carica che nessuno toccherà, mentre le procedure delle camere specializzate sono talmente farraginose, a partire dalla turnazione obbligatoria dei giudici, sempre più spaventati del loro ruolo, da bloccare i lavori ciclicamente, per mesi.

«L’impunità è la regola che definisce la frontiera tra il bene e il male», mi dice Sihem Ben Sedrine, che è stata presidente dell’Ivd dopo una storia di attivismo per i diritti umani che l’ha portata a numerose incarcerazioni sotto il regime. «La giustizia è un momento prezioso, indispensabile al cambiamento. Abbiamo cercato di agire oltre la logica della vendetta, per costruire il futuro, ma troppi ostacoli sono stati frapposti prima all’emanazione e poi all’applicazione della legge 53 del 2013 che ha istituito il processo della giustizia di transizione», e il cui progetto, in un tempo che sembra adesso lontanissimo, era stato elaborato in un anno di assemblee con la società civile svolte in ogni area del Paese.

Le elezioni del 2014, del resto, avevano già riportato al potere tanti pezzi dell’ancien régime con l’ascesa del partito Nidaa Tounes, paradossalmente alleato con gli islamici moderati di Ennahda, che aveva invece vinto da sola le prime elezioni democratiche del 2011. E oggi molti dei colpevoli identificati dall’Ivd sono ancora o nuovamente al potere. «La giustizia di transizione è stata venduta da Ennahda al vecchio regime, per paura», dice ancora Ben Sedrine, strumentalmente accusata da tanti, con nessuna argomentazione, di avere fatto il gioco proprio di quel partito, «mentre la più importante delle riparazioni sarebbe stata assicurare diritti economici e sociali a una società vittima della corruzione di decenni, e questo non è ancora avvenuto. Il risultato è che le vittime stesse si sono divise, quelle islamiche contro quelle di sinistra, mentre tutte sono state marginalizzate e oggi troppi giovani cercano di abbandonare questo Paese, o il sentimento di ingiustizia può spingerli verso la radicalizzazione».

Semir Dilou, ex ministro della giustizia di transizione proprio con Ennahda, non ha un’opinione così diversa: «Serviva una classe politica pronta a sacrificarsi e noi non siamo riusciti a farlo. La giustizia di transizione dipende dai rapporti di forza. Poi con gli attacchi terroristici, gli omicidi politici tutto si è rallentato. Ma non ci può essere transizione democratica senza giustizia di transizione. E la gente oggi si chiede cosa abbia guadagnato dalla rivoluzione».

Nessuna riforma della polizia, né della giustizia, mentre la Tunisia è ancora sprovvista di una Corte costituzionale che avrebbe potuto arginare le manovre di Saied, o inquadrarle all’interno dello Stato di diritto. La povertà non ha fatto che aumentare, la pandemia ha dato il colpo di grazia, e tutto il peggio sembra adesso possibile. Una parte della società civile prova a resistere, resta in piedi tutta la notte dopo il pestaggio di Badr, convoca conferenze stampa, reclama diritti e trasparenza, crede ancora che la verità abbia un valore e la giustizia possa realizzarsi. Ma la diffamazione di Ben Sedrine ha trascinato con sé l’intero processo, la maggior parte della gente pensa che la giustizia di transizione sia stata «solo uno strumento degli islamici», e nemmeno il rinnovato strapotere poliziesco sembra preoccupare più di tanto.

Ridha Barakati, il cui fratello Nabil è stato torturato a morte nel 1987, è l’ultima persona che incontro prima di lasciare Tunisi. Giornalista e oppositore politico che ne ha viste tante, profondo conoscitore della storia del suo Paese, e non solo, mi parla della reazione al fascismo nell’Italia degli anni Quaranta, dell’amore per la Costituzione, per la democrazia come obiettivo irrinunciabile, che ha unito tutti gli italiani nell’abolizione del regime. Mi dice che in Tunisia tutto questo non c’è mai veramente stato. Non gli dico che anche da noi, ultimamente, l’antifascismo non gode di ottima salute.

«Nessun presidente o ministro, nel nome dell’istituzione che rappresenta, ha chiesto scusa in questi lunghi dieci anni»: la voce di Ridha è ora quasi un sussurro. Il caso di Nabil è il primo che dovrebbe arrivare a giudizio presso una camera specializzata. Gli chiedo cosa si aspetti dalla sentenza: «Non sono disposto a perdonare chi non chiederà mai perdono, ma più che la prigione per i responsabili vorrei ora la memoria per poter guardare al futuro, perché, come ha scritto Gramsci, ci troviamo in quel chiaroscuro tra il vecchio e il nuovo mondo in cui nascono i mostri».

Nei quartieri ricchi di Sidi Bou Said, di Gammarth e della Marsa, nel frattempo, si continua a vivere come in una dimensione parallela. In tutti gli altri si aspetta che l’uomo forte rimetta a posto le cose, o si pensa solo a prendere il mare, a diventare un “harraga”, uno che brucia la frontiera, a qualunque costo. L’inquietudine cresce lasciando la capitale e spostandosi verso il Sud più povero, fino a Sfax e poi ancora oltre, lungo la costa da cui partono la maggior parte delle imbarcazioni precarie verso l’Italia. E quando nel porto di Zarzis mi accorgo delle motovedette italiane che il nostro governo ha regalato alla Tunisia per riprendere in mare i profughi subsahariani in fuga dalla Libia e riportare anche loro in questo limbo, più di 20 mila negli ultimi 10 mesi, ogni cosa sembra ancora più paradossale.