Lo scorso febbraio Tobias Rathjen uccise nove “stranieri”. E oggi parenti delle vittime e sopravvissuti ripetono: «Poteva essere fermato prima» (Foto di Fabian Ritter)

Il corpo della ragazza era infilato in un sacco, aperto fino al petto. Era sua figlia, Mercedes. «Avevo la sensazione che mi parlasse: Papà, non volevo morire qui, diceva. Mi dispiace d’essere sdraiata qui, è venuto un terrorista e mi ha ammazzata». È Filip Goman a raccontarlo. Prima faceva il venditore di tappeti, ora dipende dall’assistenza sociale. È di etnia rom, ha 57 anni. A Hanau, cittadina nel bel mezzo dell’Assia che dette i natali ai Fratelli Grimm, ci arrivò appena nato. «Qui sono sepolti i miei genitori e qui è sepolta mia figlia Mercedes. Mio nonno venne ucciso ad Auschwitz, ma io credevo che la mia famiglia ora vivesse in sicurezza in Germania».

 

Mercedes, 35 anni, era andata al chiosco vicino all’Arena Bar per comprare la pizza ai suoi due bambini. È una delle vittime della strage di Hanau: il 19 febbraio 2020, un anno fa, un uomo di 43 anni di nome Tobias Rathjen aveva raggiunto il centro della cittadina per uccidere «gli stranieri». Tutti, ossia a caso. Non che fosse difficile: qui vivono persone provenienti da 120 Paesi, circa la metà dei 100 mila abitanti di Hanau non ha origini tedesche. C’è chi è arrivato da poco, e c’è chi ha messo qui radici da molti anni. Rathjen lo sapeva bene, perché anche lui era di qui. Sapeva dove stanno «gli stranieri»: i turchi, i curdi, gli afgani, i bosniaci, i romeni, i bulgari, i rom.

 

Quella sera, poco prima delle 22, Tobias è salito sulla sua Bmw e si è diretto verso la strada dell’Heumarkt, nel centro di Hanau. Quel che è segue pare la scena di un film d’azione americano, quelli dove il killer abbatte le persone come i birilli. Una tripla strage, in realtà, di cui si conoscerà la dinamica al secondo, almeno nelle sue prime due parti. Alle 21.56 Rathjen entra al Bar La Votre, dove uccide prima il barista, Kaloyan Velkov, 33 anni, e subito dopo Fatih Saracoglu, 34 anni, che di mestiere faceva il disinfestatore e che era solo di passaggio dopo il lavoro. Poi Tobias arriva all’altezza del Midnight, un “shisha bar”. Spara dalla strada, uccidendo il titolare, Sedat Gurbutz, 29 anni.

 

Non è finita, assolutamente. Mentre corre di nuovo verso la sua macchina, Tobias apre ancora il fuoco: sette colpi all’indirizzo di una Mercedes color argento condotta dal romeno Vili Viorel Paun, che in quel momento sta parcheggiando. Lo manca, tanto che Paun – che di mestiere fa l’autista – decide di lanciarsi al suo inseguimento. Fino a Kesselstadt, che è il sobborgo in cui il tedesco vive, insieme ai genitori. Qui la strage conosce il suo secondo tempo: arrivato al Kurt Schumacher Platz, Tobias scende dalla macchina, spara di nuovo a Paun, questa volta uccidendolo, poi si dirige verso il chiosco di rivendita che sta aperto fino a notte fonda. In esattamente nove secondi (come determinato dalle telecamere di sorveglianza) ammazza prima il venditore, Gokhan Gueltikin, 37 anni, poi punta l’arma su Mercedes Kierpacz, una cameriera di 35 anni, ed un altro cliente, Ferhat Unvar, 23 anni, di mestiere idraulico.

Dopodiché il killer raggiunge l’Arena Bar & Café collegato al chiosco, dove un gruppo di amici sta seguendo una partita di Champions League, Tottenham Hotspur contro RB Lipsia. In venti secondi uccide Hamza Kurtovic, magazziniere di 22 anni, e Nasar Haschemi, 21 anni, macchinista. Gli altri, i sopravvissuti, racconteranno che non c’era scampo possibile: l’uscita d’emergenza era chiusa da anni, e tutti lo sapevano. Un testimone narra che la decisione era stata presa su suggerimento della polizia, per impedire che qualcuno se la desse a gambe quando gli agenti effettuavano uno dei loro continui controlli. Le forze dell’ordine dell’Assia smentiscono, ma i familiari delle vittime hanno presentato denuncia. Altri testimoni raccontano che moltissime chiamate al numero d’emergenza rimasero senza risposta, tra cui quelle di Vili Paun.

 

Fatto sta che quando la polizia arriva sul posto, Tobias è già sulla via per tornare a casa dei genitori. Qui le teste di cuoio ci arriveranno alle tre di notte, troveranno il padre di Rathjen, vivo, e due cadaveri ancora caldi. Quello della madre di Tobias, una signora di 72 anni malata di Parkinson, e quello e dello stesso Tobias. Aveva ucciso lei prima di rivolgere l’arma contro se stesso.

 

Gli agenti trovano anche tre armi: una Ceska Shadow II, presa in prestito presso un rivenditore, poi una Sig Sauer e una Walther, di sua proprietà, rinvenuta vicino al corpo. I vicini di casa descrivono Rathjen come una persona «del tutto normale», uno che non si faceva notare. Né si ricorda che avesse messo in atto comportamenti di natura razzista o anche solo offensiva. Le forze dell’ordine proprio non ne avevano mai sentito parlare: la sua fedina era pulita, né era iscritto a qualche formazione estremista. L’unica cosa che si sa è che praticava lo sport del tiro a segno. Alla madre faceva fare le passeggiate nel quartiere: lei in carrozzina, lui a spingerla.

Eppure è certo che l’unico movente del massacro fosse l’odio. Un odio senza senso, delirante. Cinque giorni prima di salire in macchina alla volta dell’Heumarkt, Rathjen aveva postato su YouTube un video nel quale rivolge, in perfetto inglese, un suo «personale messaggio agli americani» ed espone teorie cospirazioniste su presunte strutture militari «sotterranee» in cui «vengono uccisi bambini». Poi c’è il suo “manifesto”, un po’ come quello dello stragista delle moschee di Christchurch: una lettera di 24 pagine, questa volta indirizzata al popolo tedesco, nella quale Tobias parla della necessità di «eliminare alcune popolazioni», dato che non c’è più possibilità di «espellerle» dalla Germania.

 

Manie di persecuzione, spiegano gli esperti: Rathjen scrive addirittura che non meglio specificati servizi segreti sarebbero in grado di «leggergli nel pensiero». Uno psichiatra stabilisce che si tratta di «schizofrenia paranoide» e di «fantasie malate», modulate attraverso «un fanatismo politico-ideologico» con elementi fortemente «xenofobi e razzisti». Il Paese di Goethe, Beethoven e Hegel è sconvolto: «Il razzismo è veleno, l’odio è veleno, colpevole di troppi crimini», scandisce Angela Merkel. In almeno cinquanta città vengono organizzate veglie in ricordo delle vittime e per protestare contro il terrorismo di destra. Partecipano a migliaia alle manifestazioni. Una si svolge sotto la Porta di Brandeburgo a Berlino, dove centinaia di persone depongono fiori e si tengono per mano a lume di candela.

 

Ma per chi è rimasto, per chi c’era in quell’ora di terrore a Hanau, per i sopravvissuti e i familiari, tutto ciò appare lontanissimo. A un anno dalla strage i media raccolgono i loro racconti. «Ferhat scriveva anche piccole poesie. Questa, per esempio: “Smetti di piangere / asciugati le lacrime / Lo so da me qual è il sapore amaro di questa vita”».

 

Ucciso pochi secondi dopo Mercedes, Ferhat era il figlio di Serpil Unvar, 45 anni, arrivata a Hanau dalla Turchia nel 1995. Prima della strage lavorava per un giornale curdo. Dopo ha fondato due associazioni, per tenere viva la memoria delle vittime e contro il razzismo. «Voglio che mio figlio non venga dimenticato. Facciamo informazione sul razzismo nelle scuole e nei centri giovanili. È importante che i giovani non si sentano estranei, ma parte di qualcosa. Voglio restare qui a combattere», ha spiegato al magazine illustrato della Zeit.

 

C’è una domanda che tutti loro si fanno e che non li lascia mai: si poteva capire prima quanto fosse pericoloso Tobias? La polizia avrebbe potuto reagire prima? È quel chi si chiede ogni giorno Niculescu Paun, il padre di Vili. Aveva chiamato molte volte il 110, il numero d’emergenza, prima che il killer gli sparasse alla testa e al petto. Nessuno gli aveva detto di non inseguire il killer, di tenere le distanze, a nessuno Vili poté dire dove si trovava il killer, o dove fosse diretto. «La colpa è della polizia, è del numero d’emergenza», dice tra le lacrime Niculescu alla trasmissione Monitor del primo canale pubblico Ard.

Un’altra storia è quella di Cetin Gultekin, falegname. «Dal balcone di casa nostra si vede l’Arena Bar ed il chiosco dove è stato ucciso mio fratello Gokhan». L’unica scelta possibile è stata quella di lasciare Kesselstadt. Invece Mustafa Tunc, 50 anni, pensa che Tobias l’abbia risparmiato solo perché è biondo e ha gli occhi azzurri. Gli aveva puntato addosso la pistola, ma non tirò il grilletto. «Da quel 19 febbraio la mia vita è andata a precipizio», confessa sempre alla Zeit. «Di notte non riesco quasi a dormire, solo un po’ con la luce accesa. Non ho ferite, ma da quando ha premuto la sua arma contro il mio petto lo sento freddo e pesante».

 

Anche Piter Minneman si trovava nell’Arena Bar quando Rathjen è entrato facendo fuoco. Illeso: per un caso, e perché ad un certo punto al killer erano finite le munizioni. Ha 20 anni, la sua famiglia è originaria del Camerun. Prima lavorava per una ditta di security, ma dal giorno del massacro non si sente più in grado di farlo. Oggi ha la data del 19 febbraio 2020 tatuata sul petto.

 

Le cicatrici di quel giorno ci sono dappertutto a Hanau: alle finestre del palazzo che ospita la sede della “Iniziativa 19 febbraio” all’Heumarkt sono appesi i ritratti delle nove vittime. Le stesse foto si vedono anche vicino al municipio, davanti al monumento dedicato a Fratelli Grimm, circondato da fiori e candele, a dirci che questa non è una favola, e che se lo fosse sarebbe la favola più nera di questo scorcio di secolo.