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Il Paese celebra i dieci anni dall’inizio della rivoluzione che ha deposto Gheddafi. Ma il nuovo esecutivo di mediazione è nato debole
di Francesca Mannocchi
Il 17 febbraio dello scorso anno, poche settimane prima che la diffusione del Covid-19 diventasse globale, alla periferia di Tripoli si combatteva ancora mentre a Piazza dei Martiri, un tempo la Piazza Verde di Gheddafi, migliaia di libici si erano riuniti dalle prime ore del pomeriggio a celebrare l’anniversario della rivoluzione.
Hurria, hurria, gridavano, Libertà, libertà.
Non c’erano immagini di uomini politici, né di Fayez al Sarraj, né del nemico Khalifa Haftar.
«La rivoluzione non è della Tripolitania né della Cirenaica» gridavano uomini, donne, bambini, e giovani magari feriti, magari appena tornati dal fronte. «La rivoluzione appartiene al popolo libico».
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In piazza, lo scorso 17 febbraio le uniche foto presenti erano quelle dei martiri.
Quelli del 2011 e quelli della guerra di Tripoli, l’ultimo conflitto – ormai concluso – che ha attraversato il paese nordafricano.
L’ultimo tra i conflitti armati che, sui saliscendi degli ultimi dieci anni, si sono dati il cambio con le crisi diplomatiche, le chiusure dei pozzi di petrolio e delle raffinerie, la perdita di ricchezza: le altre guerre, quelle a bassa intensità.
Oggi la Libia celebra il 17 febbraio, il decennale dell’inizio della rivoluzione, alla luce dell’ultimo tentativo di negoziazione, lo scorso 5 febbraio a Ginevra.
All’inizio di febbraio settantaquattro membri del LPDF, il Libyan Political Dialogue Forum guidato e sostenuto dalle Nazioni Unite si sono riuniti in Svizzera per cinque giorni per eleggere il Consiglio di Presidenza di tre membri che avrà lo scopo di formare un governo di unità nazionale (GNU) e possa guidare il paese verso le elezioni del prossimo dicembre, condurre le forze militari a un cessate il fuoco prolungato e finalmente ridefinire un equilibrio dei poteri tra est e ovest.
I candidati vincitori - con grande sorpresa di tutti i presenti e degli analisti che seguono gli eventi libici – sono Mohamed al-Menfi e Abdelhamid Dabeiba, con il 53% dei voti. Il primo nella veste di Presidente e il secondo in quella di Primo Ministro.
Entrambi hanno ricoperto vari ruoli e incarichi pubblici e hanno dei profili controversi.
Il primo ministro Dabeida è un ingegnere e influente uomo d’affari che ha accumulato ricchezze sotto il regime di Gheddafi e ha usato questa ricchezza per finanziare milizie armate nella città d’origine, Misurata.
Al-Menfi, il capo del nuovo Consiglio di Presidenza, viene dalla Cirenaica e ha ricoperto il ruolo di ambasciatore libico in Grecia fino al 2019, anno in cui fu espulso dal Paese, dopo che il governo di accordo nazionale di Sarraj firmò due memorandum con la Turchia di Erdogan: il primo militare, il secondo un accordo bilaterale che ridefiniva i confini marittimi nell’area del Mediterraneo orientale.
Menfi discende dalla tribù dell’eroe nazionale Omar al Mukhtar, è stato un politico attendista, non ha preso posizione nella contesa orientale tra il generale Haftar e il suo nemico interno Aguila Saleh.
Era proprio il tandem formato dall’ex ministro dell’interno di Sarraj, Fathi Bashaga e Aguila Salah, Presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, il grande favorito del forum svizzero.
Saleh in questi anni si è proposto come l’uomo della mediazione, pronto a difendere gli interessi dell’alleato egiziano al Sisi e a proporsi, una volta sconfitto militarmente ed eliminato dalla scena pubblica Haftar, come l’uomo forte, l’uomo dell’ordine, l’uomo – in sintesi – della restaurazione. Ha tentato di accreditarsi anche con i governi europei, e tuttavia ha appoggiato l’offensiva militare di Haftar su Tripoli.
Unirsi in una lista con Fathi Bashaga, ministro degli interni di Tripoli, sostenuto dai turchi e dal Qatar, misuratino e potentissimo, sembrava un’astuta garanzia di vittoria.
Eppure, il Forum ginevrino ha avuto un altro esito. Escono più forti gli sconfitti – per paradosso – che i vincitori.
Bashaga era osteggiato dalle milizie di Tripoli e dai potentati del traffico di uomini di Zawhia, ecco dunque una delle ragioni della vittoria insolita di Dabeida e Menfi. I delegati volevano garantire la sconfitta di Bashaga e Saleh, non tutelare la vittoria degli altri.
Negoziazione zoppa, una volta ancora, dunque.
Come hanno scritto lo scorso 8 febbraio, a commento del summit di Ginervra, Emadeddin Badi e Wolfram Lacher per il Carnegie Endowment for International peace: «I negoziati hanno evitato tutti i disaccordi tra le parti in conflitto della Libia, come la questione di chi dovrebbe guidare un esercito unificato o come garantire la responsabilità per i crimini commessi durante le guerre degli anni passati. Invece di forgiare un consenso politico come base per un governo unificato, il processo si è basato sul voto a maggioranza tra i settantaquattro membri del forum. Di conseguenza, nessuna visione politica comune unisce le quattro persone che sono state elette per guidare il nuovo esecutivo».
Dabeida ora deve presentare una lista dei ministri, e le élite politiche del paese devono capire se appoggiare, influenzare o osteggiare la lista dei vincitori.
A cantare vittoria, una volta ancora, Erdogan. La prima dichiarazione rilasciata da Dabeida è stata all’agenzia di stampa turca Anadolu. Dabeida è di Misurata, città storicamente ostile ad Haftar, che ha grandi relazioni commerciali con la Turchia. Da Primo Ministro ha annunciato di voler riconfermare Bashaga – anche lui misuratino – nel nuovo governo, lasciando intendere che gli interessi economici di Ankara non verranno minati. Menfi, d’altro canto, è stato cacciato dalla Grecia proprio perché gli accordi marittimi favorivano la Turchia, a scapito delle trivellazioni greche. Dunque, nel processo di spartizione di influenze, tra Erdogan e Putin, la compagine che esce da Ginevra senza dubbio tranquillizza la Turchia.
C’è da capire, ora, la strategia di Haftar e come si muoveranno le milizie per proteggere i loro interessi.
Se il processo negoziale del nuovo governo fallisce, è facile ipotizzare che Haftar torni a minacciare di usare la forza militare. Molto dipenderà dai suoi sostenitori esteri, la Russia, appunto, e gli Emirati Arabi. Questi ultimi riluttanti da mesi ad accettare il cessate il fuoco.
Durante le mediazioni dello scorso ottobre, le Nazioni Unite avevano chiesto che i circa ventimila mercenari stimati e supportati da Turchia, Egitto, Russia, Emirati Arabi Uniti e Qatar, lasciassero il paese. I tre mesi sono scaduti e, non solo i combattenti stranieri sono ancora nel paese, ma le due potenze che si contendono le aree di influenza – Turchia e Russia – stanno stabilendo basi militari permanenti.
Dalla forza, dalla rappresentanza e dalla tenacia del nuovo governo di transizione dipenderà non solo l’effettivo svolgimento delle elezioni di dicembre, ma la vulnerabilità del paese che rischia di esporsi ancora di più alle agende di chi in Libia ormai da anni combatte per procura. Ne va della transizione democratica dunque ma anche della spartizione delle ricchezze, si legga il controllo di gas e petrolio.
Ecco perché i profili di Dabeida e Menfi non preoccupano ma non convincono: troppo deboli, troppo – una volta ancora – espressione delle élite e non figure di rottura, e troppo poco influenti.
Tripoli oggi scenderà di nuovo in piazza, come lo scorso anno, prima del Covid e come ogni anno dal 2011. Le celebrazioni saranno sincere, come sempre, e tuttavia saranno – possiamo immaginare – stanche. Un po’ più dello scorso anno, molto più di quello prima.
Sanno – i libici – che le Nazioni Unite hanno stabilito un governo. Ma conoscono, anche, i limiti di quello precedente, del governo di Sarraj, che era arrivato al potere quattro anni e mezzo fa sostenuto dalla comunità internazionale. Non è bastato a evitare le guerre, non è bastato a ricompattare il paese.
Né è bastato a proteggere la Libia dall’influenza di attori esterni. Sempre di più, sempre più avidi.