La rivoluzione non ha mantenuto le promesse: la disuguaglianza è cresciuta e la nuova generazione non spera più in un cambiamento, ma cerca solo di emigrare in Europa (Foto di Alessio Romenzi per L'Espresso)

«Da dove vieni?», gli hanno chiesto i poliziotti dopo averlo fermato in avenue Bourguiba, in centro a Tunisi, durante un corteo di protesta. Firas ha risposto: Ettadhamen. «E poi hanno riso di me, mi hanno detto: e che ci fai qui?».

Ettadhamen è uno dei quartieri più poveri di Tunisi, zona popolare distante dodici chilometri dalla città. Firas è un ragazzo, disoccupato, come la metà dei giovani che abitano le zone popolari. E quella frase, “Che ci fai qui?”, racconta lo stigma della sua povertà e anche la doppia anima delle proteste tunisine. Quelle di città, e quelle degli emarginati dei confini.

Firas ha vent’anni, è minuto, magrissimo. Ha il viso scavato e gli occhi inquieti in cui si mischiano ostilità e rassegnazione, noia e rabbia, sentimenti che a Ettadhamen compongono la mappa che porta dritta alle proteste delle scorse settimane.

La sua tana è una stanza di pochi metri quadrati illuminata da neon intermittenti. Firas è un rapper e quelle luci lo ispirano, dice, quando si chiude dentro con gli amici del quartiere e scrive la collera di chi non sa che parole associare all’idea di futuro.

Quando gli chiedi di raccontare la vita a Ettadhamen, Firas accende il telefono, lascia partire la base del suo rap. Che stia per cantare si capisce dall’oscillazione delle sue gambe e delle sue braccia, gli occhi chiusi a concentrarsi, la voce che si schiarisce.

 

«La mia mente è stanca/perché il mio cuore è buono/sorrido per nascondere la tristezza/ma è così, la vita è un orologio e le persone sono scorpioni». Firas canta la sua forza e la sua stanchezza. «La mia energia è grande/ma il mio cuore è esausto/non so dove andare/ se incontri la mia fortuna dille di tornare da me».
Firas vive con i suoi genitori e le sue due sorelle in un appartamento umido e malridotto. L’unica a lavorare è la madre, per poco più di 300 dinari tunisini al mese, un centinaio di euro.

Il padre dorme di giorno e beve di notte, per non pensare alla disoccupazione.

Quando è sveglio maledice il governo e la polizia, rappa con suo figlio e nutre il suo risentimento.

Nel 2011 Firas aveva dieci anni e di quei giorni ricorda suo padre in strada, già disoccupato, gli zii, i familiari lontani arrivati dalla campagna perché «tutti avevano qualcosa per cui valeva la pena combattere».

Il resto è un racconto di vite appese ai margini. E giorni tutti uguali fatti di niente.

Walid Kasssraoui, ferito alla gamba durante la "primavera" del 2011

Per spiegare la distanza tra il 2011 e oggi, Firas dice che la rivoluzione non ha mantenuto le promesse. E lo dice con l’ingenuità - finalmente apparsa sul suo viso - di un bambino cui sia stato negato il regalo di Natale tanto desiderato. E ha ragione, perché il riscatto delle periferie, a Ettadhamen, come in altre zone ad alta tensione sociale, non è mai arrivato.

Lo stigma qui equivale all’immobilità. «Ci sono ragazzi che non possono lasciare il quartiere perché non hanno soldi per spostarsi, c’è gente che ha vent’anni come me e non ha mai superato i confini di Ettadhamen. Non puoi uscire, non puoi fare nulla, vivi pensando che tutto dipenda dai soldi e quando non ne puoi più te la prendi con chi non ti fa uscire dal quartiere. Picchi duro sul confine».

I confini sono due. Uno è geografico e un altro porta l’uniforme nera delle forze dell’ordine. Lo scorso 26 gennaio le forze di polizia erano schierate al confine nord del quartiere per impedire che i giovani raggiungessero il Bardo, sede del Parlamento, e si unissero alle proteste “cittadine”, al corteo che arrivava dal centro di Tunisi.

E lo stigma non vale solo per le proteste, vale anche se cerchi lavoro. «Dichiari che arrivi da Ettadhamen e nemmeno ti considerano. Troppa droga, dicono, troppi pochi mezzi di trasporto, troppa ignoranza».
Così la vita trascorre nei bar. Gli angoli dei vicoli presidiati da chi controlla lo spaccio.

Sulla strada principale i segni delle proteste della notte: pneumatici dati alle fiamme. Qualche vetrina scheggiata. 

Firas ha passato la notte di protesta in strada con suo padre. A guardarli dall’esterno i ruoli sono ribaltati. Il padre inveisce e Firas spiega.

Il padre grida e rivendica la violenza: «Certo che spacchiamo i bancomat, perché portano qui i bancomat che tanto non abbiamo soldi», e il figlio la spiega: «Non ci sono soldi in banca, qui, ma ci sono soldi ovunque, perché c’è lo spaccio. Dicono che rubiamo, rapiniamo, saccheggiamo. È solo un pezzo piccolo della verità. Quello grande è che ci hanno lasciati soli, quaggiù dove non c’è niente da fare e niente da sperare».

 

Il 14 gennaio scorso, anniversario della rivoluzione, il primo ministro Hichem Mechichi ha annunciato un rigoroso lockdown di quattro giorni, formalmente per arginare il contagio dovuto all’epidemia di Covid-19. La decisione è stata, però, percepita come un blocco politico per evitare le manifestazioni di piazza, una strategia per far sì che i cittadini non protestassero per le mancate riforme, l’ennesima crisi governativa, la mancanza di aiuti economici. E quando il giorno successivo un video ha mostrato un agente di polizia nell’atto di aggredire un pastore a Siliana, regione nord occidentale del paese, la rabbia è esplosa nelle strade e a due settimane di distanza le proteste continuano in tutto il paese.

Sono passati dieci anni da quando Mohammed Bouazizi, un giovane fruttivendolo di Sidi Bou Zid, si è dato fuoco per protestare contro gli abusi della polizia che aveva confiscato la sua carriola. Gesto simbolo delle condizioni di vita delle aree rurali e periferiche che ha spalancato la vista sulle disuguaglianze sociali, l’oppressione dei regimi, e aperto la strada al “thawrat al-karama”, la rivoluzione della dignità.

In questi dieci anni la Tunisia ha sostituito la parola rivoluzione con la locuzione transizione democratica, e ha sostituito anche i governi, undici volte, una media di uno ogni dodici mesi. Nessuno però ha avuto una strategia convincente per rispondere alla questione centrale del mercato del lavoro.

 

Quello che non è cambiato, o almeno che non è cambiato ancora, è il destino di isolamento di chi vive ai margini della società. I numeri parlano chiaro: lo scorso anno, secondo l’agenzia di rating Fitch, l’economia tunisina ha subito una contrazione di circa l’8 per cento, il calo più significativo dalla dichiarazione di indipendenza del 1956. Fitch prevede anche che il debito pubblico tunisino raggiungerà l’anno prossimo quasi il 90 per cento del prodotto interno lordo, con un aumento del 20 per cento rispetto a due anni fa. A questo si aggiungono i numeri della disoccupazione: il 36 per cento dei giovani è senza lavoro e la situazione rischia di peggiorare. Secondo il governo e le organizzazioni internazionali la pandemia ha decimato l’industria turistica del paese e tagliato le esportazioni verso l’Europa, il principale partner commerciale della Tunisia, provocando la chiusura di migliaia di aziende. Nel 2020 le entrate legate al turismo sono crollate del 65 per cento e a seguito della crisi sanitaria, e secondo un recente rapporto dell’International Finance Corporation, il 5 per cento delle aziende tunisine ha chiuso definitivamente.

È senz’altro vero che la nuova Tunisia post-rivoluzionaria abbia ereditato il debito di quella precedente di Abidine Ben Ali (il 43 per cento delle leggi approvate durante il primo parlamento - novembre 2014-agosto 2019 - riguardava contratti di prestito esterno, alcuni destinati a finanziare il rimborso del debito contratto dal regime di Ben Ali), ma è altrettanto vero che le città che erano emarginate nell’inverno del 2010-2011, lo sono ancora. E sono ancora, proprio per questo, i governatorati più colpiti dalle proteste: la regione del centro orientale che comprende i governatorati di Kairouan e di Sidi Bou Zid e Kasserine (entrambe culle della rivoluzione) che ha ancora i tassi di povertà più alti del Paese, con una media del 29,3 pe cento, rispetto al 6,1 per cento di Tunisi e appunto le zone popolari della capitale, Kram e Ettadhamne, Kabaria dove i giovani non studiano e non sperano.

Olfa Lamloum è una politologa, direttore dell’ufficio di Tunisi di Alert International, si occupa da anni delle zone più svantaggiate della Tunisia e insieme all’antropologo Michel Tabet ha diretto un documentario dal titolo “Feel What’s Happening”, un’indagine sui quartieri popolari a dieci anni di distanza dalla rivoluzione, sulla giovinezza sacrificata che li anima, sulla mancanza di risorse messe in campo per colmare il divario tra i quartieri periferici e la città privilegiata. Il documentario racconta i giovani delle periferie e indaga i numeri: nel 2019 i fondi destinati allo sport a Ettadhamen sono stati pari a 10 mila euro, a fronte dei 150 mila di La Marsa, cittadina residenziale a nord est di Tunisi, meta delle vacanze dei benestanti della capitale. C’è un solo autobus che serve un quartiere di 150 mila abitanti, un ospedale e due sole cliniche di base, una casa della cultura che ha un budget annuale di 9.000 dinari, tremila euro.

Quanto alle scuole, ci sono ma non servono. In quartieri come questo il tasso di abbandono scolastico cresce di anno in anno. Sono giovani cresciuti qui che riempiono le strade oggi, e anche le prigioni dopo gli arresti.

 

Romdhane Ben Amor del Forum tunisino per i diritti sociali ed economici denuncia che non ci sono cifre esatte del Ministero dell’Interno ma la stima è che nelle ultime settimane ci siano stati circa 1.400 arrestati, e dal 30 al 35 per cento di chi è finito in prigione è minorenne. «È una repressione che si combina alla stigmatizzazione delle periferie», dice nel suo ufficio di Tunisi Ben Amor. «Molti ragazzi abbandonano la scuola dopo la primaria, in Tunisia ogni anno 100 mila ragazzi lasciano gli studi e questo corrisponde a un reclutamento nel commercio informale, nella criminalità e molti ragazzi finiscono per vedere nell’immigrazione illegale l’unico tentativo per cambiare le loro vite perché nessuno investe per integrarli nel tessuto sociale».

 

Le parole chiave delle proteste di oggi, le proteste cittadine almeno, non sono diverse da quelle di dieci anni fa. Lavoro, dignità, libertà. Le parole cambiano nella stanza di Firas, la stanza che diventa mondo. Quando prova a definire cosa sia per lui la democrazia, sorride. Dice che la sola cosa che sa della democrazia l’ha letta un giorno su un libro di scuola. Ma a scuola ha smesso di andare a tredici anni. Quando prova a definire il futuro invece, allarga le braccia come a dire: è tutto qui, è la mia stanza, fuori non c’è niente. «Questo è il passato, questo è il presente e questo è il futuro».

 

La sola cosa che lo fa sorridere è il rap, il solo bus che non è affollato, il solo mezzo per uscire dal luogo in cui sei costretto a vivere, «la sola cosa che mi fa essere paziente».

Tre dei suoi amici sono finiti in prigione, catturati dalla polizia nelle notti di Ettadhamen. Due sono minorenni e ancora in carcere. «I soldi per l’esercito non mancano mai», dice.

Durante le proteste Avenue Bourguiba era piena di mezzi della polizia antisommossa, furgoni blindati Arquus appena consegnati dalla Francia nel pacchetto dei sessanta mezzi acquistati. «Lo Stato spende in sicurezza e non fa niente per risolvere la crisi economica e far fronte all’epidemia», gridava la piazza di Tunisi, solo una settimana fa.

Il suo vicino di casa e amico, Amir, vent’anni anche lui, ha provato due volte a imbarcarsi per l’Italia e due volte è stato riportato indietro dalla guardia costiera tunisina. Vuole provarci ancora.

A volerla guardare superficialmente l’equazione è presto fatta. Sono gli emarginati a pr endere la via del Mediterraneo per raggiungere l’Europa e questo spiega gli arrivi del 2020. Dodicimila a fronte dei poco più di duemila dell’anno precedente. La crisi economica, certo, aggravata dalla pandemia. Eppure c’è un pezzo del racconto che manca e coinvolge le politiche di contenimento delle migrazioni, l’approccio europeo verso i paesi partner nel Nordafrica.

 

«L’Unione Europea sta adottando con la Tunisia, come con altri paesi dell’area, un approccio di aiuti funzionali e condizionati dal contenimento e riassorbimento dei migranti», dice Clara Capelli, economista dello sviluppo ed esperta di Nordafrica che ha lavorato dal 2014 al 2017 per la Banca Africana di Sviluppo a Tunisi. «I modelli di sviluppo proposti in questi anni sono stati sbagliati. Le infrastrutture rendono possibile lo sviluppo ma non lo creano e in Tunisia non esistono ancora tavoli di ragionamento sulle politiche industriali. E i fondi per le politiche securitarie creano un circolo vizioso, perché la sicurezza è un settore economico polarizzante. C’è tanta bassa manovalanza ma i proventi vanno a pochi».

Significa che gli investimenti europei, anziché contribuire allo sviluppo, continuano a vincolarlo al controllo delle frontiere, bloccando le politiche di redistribuzione delle risorse. Tanti soldi a pochi individui. Tanti fondi a poche istituzioni.

Fattori che continuano a promuovere il disagio sociale e dunque le proteste e dunque il tentativo di migliaia di giovani di cercare fortuna in altri Paesi, giovani stanchi di sperare che arrivi lavoro in un Paese in cui il controllo dei rimpatri vincola lo sviluppo economico. Questo favorisce, inevitabilmente, la fortuna di politici che si propongono come lo strumento più fidato per garantire le politiche che i governi europei vogliono, gestire arrivi e sbarchi, più che politiche industriali e riforme.

Come Abir Moussi, parlamentare dal 2019, ex funzionaria del partito di Ben Ali, che cavalca ormai da mesi l’onda lunga della frustrazione dei giovani per le mancate risposte dei governi democraticamente eletti e si fa rappresentante della nostalgia per il regime. Nega la rivoluzione, Moussi, si schiera contro il partito islamista Ennahda e chiede una presidenza e un apparato di sicurezza solido.

In sostanza il ritorno dell’uomo forte.

Firas ricorda poco del regime, subiva l’eco delle ingiustizie da ragazzino e subisce l’eco della nostalgia oggi.

 

Quando gli chiedi cos’è Ben Ali per un ventenne di Ettadhamen a dieci anni dalla rivoluzione risponde che era un dittatore, certo, e che la rivoluzione è stata giusta e almeno oggi tutti possono protestare. «Ma è secondario, vedi, prima non avevamo fame e stavamo zitti per paura del regime. Oggi possiamo parlare ma abbiamo la pancia vuota. Capisci la differenza?».