Dialogo con Margrethe Vestager, la potente vicepresidente della Commissione europea con delega al digitale per la nuova newsletter dell’Espresso: Voci da Bruxelles

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER GRATUITA "VOCI DA BRUXELLES"

 

È stata definita la nemesi del Big Tech, la nemica dei GAFA. Margrethe Vestager, che fa un punto di indossare sempre e solo vestiti per sottolineare che potere e femminilità ben si coniugano, a differenza di quanto pensino alcuni intellettuali italiani, è la potente vicepresidente della Commissione europea con delega al digitale, che nel suo precedente ruolo di Commissaria alla Competizione aveva posto tutta una serie di paletti alle attività europee dei campioni dell'online Usa, da Apple a Amazon.

 

Oggi che il mondo intero comincia a domandarsi come contenere la loro sproporzionata influenza non solo sull'economia ma anche sui nostri sistemi politici, lei non ha dubbi. «Questo è il momento per la democrazia di mettersi alla pari con la tecnologia», dice a Voci da Bruxelles in una video intervista: «Abbiamo avuto una rivoluzione tecnologica ma la democrazia europea sembra non essersene accorta. Adesso la questione è diventata urgente».

 

Come si muove l'Europa?

«Noi come Commissione abbiamo presentato due proposte legislative. La prima, il Digital Service Act, permetterà di disfarsi di contenuti illegali online e di tutelare la democrazia , nel rispetto completo della libertà di espressione. La seconda, il Digital market act, invece mira a impedire il dominio assoluto di pochi operatori. Con il successo cresce la responsabilità. E dunque se tu sei un'azienda che ha avuto molto successo dovrai ottemperare a una serie di richieste visto che controlli i dati, fonte di ricchezza, di chi si serve del servizio che fornisci. Le condizioni devono essere giuste e uguali per tutti. Chi offre un servizio non può approfittare delle conoscenze ottenute per fare concorrenza diretta a chi ospita. È compito della Commissione aprire lo spazio del mercato digitale, uno spazio ancora troppo chiuso, a tutti coloro che vogliono entrarvi».

 

L'Europa si muove in anticipo sugli altri Paesi?

«L'Europa ha già dato l'esempio con la GDPR, la legislazione sulla privacy europea varata tre anni fa e che è ormai diventata lo standard mondiale. Adesso siamo ancora in anticipo rispetto agli altri ma non di così tanto. La discussione mondiale sull'argomento è cambiata, e non solo negli Usa ma anche in Corea del Sud, in Sud Africa e in Giappone. La democrazia si deve aggiornare. E deve farlo in fretta. Per questo spero che anche le nostre proposte vengano approvate presto, se non in primavera almeno prima della fine dell'estate».

 

E L'Italia cosa dovrebbe fare per accelerare la rivoluzione digitale con i fondi del Recovery?

«Deve concentrarsi sulla riduzione del divario digitale tra chi è connesso e chi non. E poi dovrebbe formare tutti coloro che cercano lavoro ma a cui mancano le nuove capacità digitali. Tutti dovrebbero sentirsi capaci di svolgere un dato mestiere, indipendentemente dalla loro età. Il settore pubblico dovrebbe essere il motore della trasformazione digitale e lavorare per il beneficio dei cittadini. A quel punto la salute, l'istruzione e la mobilità potrebbero diventare lo strumento con cui rilanciare le piccole e medie imprese».

 

L'istruzione?

«Sembra un fattore soft ma è invece cruciale per fare avanzare l'Europa. A livello nazionale ogni stato dovrebbe avere un piano per potenziare il proprio sistema educativo e per lavorare con tutte le università europee, cosa che la digitalizzazione ah reso molto più facile di una volta. Perfino ora, in piena emergenza, ci sono centinaia di migliaia di lavori disponibili per chi sa utilizzare il digitale. Basta mettere davanti a qualsiasi lavoro la parola digitale e si spalancano universi. Per questo gli stati europei dovrebbero aggiornare i propri sistemi di formazione dei cittadini e metterli al passo con i tempi. Credo sia urgente».

 

Questi lunghi periodi di lockdown o semi-lockdown ci hanno insegnato nulla?

«La cosa più importante che abbiamo appreso è che si può essere produttivi anche lavorando da casa. Prima i capi pensavano che se uno chiedeva di lavorare da remoto in realtà non volesse lavorare. Ma è anche vero che non tutto si può fare da casa, certo non una negoziazione. Dobbiamo avere dei momenti in cui ci troviamo insieme per scambiarci conoscenze e impressioni. La nuova cultura lavorativa sarà ibrida. Si tratta di un cambiamento per cui senza pandemia ci sarebbero voluti anni».

 

Quali pericoli intravede nella trasformazione digitale dell'Europa?

«Quello di un lobbying eccessivo. Il mercato oggi è molto più aperto per le grandi imprese che per le medio-piccole e non va bene. Ci sono delle cose che non devono e non potranno fare. E se noi le ascoltiamo sempre e valutiamo le loro proposte alcune volte dobbiamo dire “Grazie no!"».