Ad aprire il cancelletto di legno è Jaylin, 4 anni e lunghi capelli biondi che incorniciano il viso furbetto. Il piccolo cortile in cemento della sua casa di Almere, un villaggio che pare impigliato sul bordo di un canale alla periferia di Amsterdam, è invaso dai giochi. C’è perfino un tappeto elastico. «È il suo asilo», dice la madre, Sharon Lagcher, 30 anni, sospirando: «A quello vero non possiamo mandarla. Senza contributi pubblici non possiamo permettercelo. Per stare con lei io lavoro solo di notte».
Infermiera, Lagcher è una delle oltre 30mila persone vittime di un errore fiscale pluriennale da parte del ministero delle Finanze olandese. Un errore talmente colossale che ha costretto il governo del primo ministro liberale Mark Rutte a dimettersi lo scorso 15 gennaio, due mesi prima delle elezioni nazionali del 17 marzo. A stare ai sondaggi, otterrà un terzo mandato con la stessa coalizione perché la maggioranza dei 17 partiti politici olandesi riscuote percentuali di consenso a una cifra. L’unica alternativa sarebbe quella di un’alleanza con gli estremisti xenofobi del Partito della libertà di Geert Wilders, il secondo più votato da oltre dieci anni, complice la forte retorica mediatica contro stranieri e Europa del Sud.
«È la cosa che fa più male», dice Lagcher: «Di tutti questi dieci anni di sofferenza Rutte è stata la sola costante. Eppure è ancora lì. Sarà ancora lì con i suoi alleati. Non riesco a credere che gli olandesi lo scelgano ancora».
Lagcher è stata bollata dieci anni fa dal ministero delle Finanze come «fraudolenta», un’ignominia che impedisce ad un individuo di avere accesso a tutta quella serie di sussidi che permettono di pagare le rette degli asili, che partono da 1.800 euro al mese, l’assicurazione che consente l’accesso alle cure sanitarie e l’affitto di casa. Anche trovare lavoro è complicato perché nessuno vuole assumere qualcuno che ha commesso una frode. Per non parlare del chiedere un prestito. L’errore di Lagcher - una figlia a 17 anni, una madre psichicamente instabile, un padre in prigione, tre anni di vita per strada - è stato quello di non avere comunicato nel 2011 un indirizzo di casa (che al tempo non aveva) alle autorità fiscali che, da allora, hanno stabilito che lei avesse percepito ingiustamente oltre 60mila euro di sussidi per la scuola materna della figlia Destiny, oggi tredicenne, e che ora le chiedono la restituzione di tutto. Anche dei soldi che non sono mai arrivati sul suo conto corrente.
È dal 2011, quando si è rifatta una vita col nuovo marito, che tenta di sistemare la sua posizione. Senza successo. Ancora non può possedere nulla a suo nome perché l’ufficio delle tasse glielo toglierebbe immediatamente. E non ci pensa proprio a chiedere nuovi aiuti economici per la scuola della seconda figlia, in un Paese in cui le materne pubbliche non esistono.
«Adesso sappiamo che non è sola», spiega Orlando Kadir, il suo avvocato e quello di altre 750 persone nella stessa situazione, tutte con un reddito e un livello di istruzione basso, quasi tutte con un cognome straniero o che sembra straniero: «È il modello di business di Rutte: togliere ai cittadini per dare alle multinazionali. Creare surplus di bilancio rovinando la vita di migliaia di famiglie fragili e di disabili».
È dal 2008, quando alcuni bulgari la truffarono per un totale di tre milioni di euro, che l’Agenzia delle Entrate, con l’ausilio di software “intelligenti” ha messo nel mirino migliaia di contribuenti perché non si ripetessero altre truffe. Ma, per dare una lezione chiara a tutti, ha finito per colpire migliaia di innocenti. La coalizione di governo ne è al corrente dal 2019 ma non è mai corsa ai ripari per cambiare il sistema. «La questione non interessa alla maggioranza del Paese, convinta che qualcosa di sbagliato questa gente debba avere fatto se si sono mosse le istituzioni che - non è un caso, il tribunale lo ha accertato - colpiscono soprattutto gli immigrati», dice Kadir.
Ad accorgersi per prima che qualcosa non tornava è stata un’avvocatessa sociale spagnola, Eva Gonzales, specializzata nella difesa di malati psichiatrici che non vogliono essere internati. Sei anni fa molte delle famiglie che inviavano i figli all’asilo gestito dal marito di origine turca si erano viste togliere i sussidi con cui pagarlo. «Cominciai a citare in giudizio l’Agenzia delle entrate perché gli uffici amministrativi si rifiutavano di correggere gli errori», racconta lei, occhi nocciola e voce sicura: «Vincevo sempre ma non cambiava nulla. Nessun rimborso. Solo coinvolgendo i media e la politica nel 2017 qualcosa ha finalmente cominciato a muoversi».
A prendere a cuore la situazione sono stati due parlamentari, la socialista Renske Leijten e il democristiano Pieter Omtzigt, che nonostante sia tra i politici più celebri d’Olanda - un suo libro appena uscito si intitola “Un nuovo contratto sociale” - si dichiara stanco e demoralizzato. «Il governo di cui anche il mio partito fa parte ha mentito per anni», racconta in un buon italiano il politico che ha definito l’Olanda «la Monarchia delle Banane»: «Ho fatto la lotta al mio stesso governo perché ho visto famiglie sfasciate, bambini senza casa, tanto dolore a causa di errori gravi da parte del Fisco che ha mentito anche di fronte al giudice, nascondendo documenti favorevoli ai ricorrenti in giudizio per non doverli risarcire». Negli stessi mesi Omtzigt combatteva anche per far uscire la verità sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia a Malta e per fare condannare per corruzione Luca Volonté per il suo ruolo nell’annacquare le violazioni democratiche dell’Azerbaigian registrate dal Consiglio d’Europa. «Ma la battaglia principale è stata a casa: le cose devono cambiare in Olanda perché il legame tra Stato e cittadini si è davvero rotto. Occorre una profonda riforma del diritto amministrativo, con commissioni ispettive non controllate dal governo e l’istituzione di una Corte costituzionale non influenzata dalla politica. Le nostre istituzioni devono diventare più forti del governo e tutelare tutti, non solo i più forti».
Popolare tra i cittadini, soprattutto a sinistra, Omtzigt è però considerato la pecora nera della Democrazia cristiana olandese: prima dell’avvento dell’era Rutte è stato il partito di governo per decenni, poi è caduto sotto il peso degli scandali e di un’opinione pubblica meno religiosa. Oggi è guidato da Wopke Hoekstra, l’attuale ministro delle Finanze, colui che la scorsa primavera ha accusato i Paesi del Sud di volere approfittare dei risparmi dei cittadini del Nord con lo strumento del Recovery fund. Alleato di governo di Rutte, Hoekstra ne è contemporaneamente il principale avversario e l’erede nazionale, «il figlio ideale», come lo definiscono in Olanda: abbastanza giovane, con i suoi 45 anni, bello e serio. E dunque resta immobile: cerca di non farsi coinvolgere dallo scandalo e di non rompere i delicati equilibri di coalizione. «Non è detto che in questo momento di turbamento il Partito cristiano democratico non riesca a marzo nell’impresa di superare Wilders e diventare il secondo del Paese dopo i liberali del Vvd», dice Tom-Jan Meeus, editorialista politico del quotidiano Handelsblad. Anche perché, a tre settimane dalle elezioni, di immigrazione non parla più nessuno e i soldi del Recovery fund non sono stati ancora elargiti. In mancanza di nemici esterni la destra ha dovuto far convergere attacchi e retorica sul tema del coronavirus e dei vaccini.
Ma sulla gestione della crisi, di qualsiasi crisi, è difficile andare contro Mark Rutte. «Lo chiamano Mark Teflon per la sua capacità di gestire gli imprevisti e restare al potere», dice Kadir. Negli occhi dei cittadini la sua reputazione personale supera di gran lunga quella del suo partito, come nel caso di Omtzigt. A contare non è tanto la bontà delle sue capacità manageriali – a guardare i numeri l’Olanda è tra i Paesi europei più indietro nella distribuzione dei vaccini. È il carattere. Rutte è considerato umile e coerente. È andato a porre le sue dimissioni nelle mani del re Guglielmo Alessandro in bicicletta, mangiando una mela. Quando l’anno scorso, con settimane di ritardo rispetto al resto dell’Europa centrale, la pandemia ha preso a infestare anche queste terre nordiche e l’accesso alle case di riposo è stato proibito a tutti i familiari, il premier si è attenuto alle regole scrupolosamente. Avvertito che la madre, 92 anni, da tempo in un istituto, stava morendo, non si è recato a darle l’ultimo saluto. Come tutti gli altri cittadini.
Qualcosa però si sta muovendo in Olanda, anche se forse non in tempo per queste elezioni. E non solo con Omtzigt - il suo libro è accolto come il manifesto per la creazione di un nuovo partito. Anche a sinistra. Kati Piri, l’europarlamentare socialista olandese di origini ungheresi, in prima linea in Europa per la difesa dei diritti umani, sarà candidata a marzo con i laburisti, e ha la certezza di essere eletta. «Dopo tanti anni a Bruxelles è ora di tornare a casa e porre rimedio a un’ondata liberale che è andata troppo oltre», dice: «Abbiamo poche multinazionali e qualche centinaio di famiglie che accumulano miliardi ma la maggioranza della popolazione non guadagna abbastanza. Dovrebbero essere tutti i cittadini a beneficiare del vivere in una democrazia. E invece è solo il grande business».
Il reddito disponibile pro-capite in Olanda è di 24mila euro, più basso della media Ocse pari a 27mila euro. Ma il divario tra i più ricchi e i più poveri è molto marcato: il 20 per cento più ricco della popolazione guadagna oltre quattro volte il 20 per cento più povero. «Non è che gli olandesi non vogliano un cambiamento, uno spostamento più a sinistra della politica», dice Piri: «Ma se lo aspettano da Rutte». Ad aiutare il primo ministro nei consensi sono state le dimensioni del pacchetto dei ristori e delle agevolazioni fiscali per le attività toccate dal coronavirus e dai conseguenti lockdown. «Ha messo in campo un aiuto pubblico straordinario per tutta la società e ora in tantissimi gli sono grati», continua Piri. Un’occasione per lui, liberale convinto, per rivendicare la bontà delle sue politiche, a casa come a Bruxelles: «Capite adesso perché è così importante risparmiare e accumulare surplus?».