Pubblicità
Mondo
aprile, 2021

È morto Jovan Divjak, il generale serbo che difese Sarajevo

L’ufficiale che amava definirsi jugoslavo aveva 84 anni. I diritti umani erano la sua ossessione, “giusto” il suo appellativo

Quando chiedevano al generale Jovan Divjak, morto ieri all'età di 84 anni, perché lui, serbo, si fosse schierato a difesa di Sarajevo e contro i serbi che la stavano assediando nella guerra degli Anni 90, lui non si capacitava della domanda. “Voi pensate che io sia un eroe, in realtà per me non c'era altra scelta”.

Non c'era scelta per l'ufficiale, già comandato alla protezione personale del presidente Tito, cresciuto con alcuni principi elementari e non negoziabili per cui non esistono distinzioni etniche e si è tutti uguali su questa terra. Gli stava stretta quell'attribuzione, “serbo”, amava definirsi piuttosto jugoslavo e se in questo inclinava un po' alla nostalgia il sostrato profondo alludeva a un'identità più larga perciò imparentata con tutti i cittadini del mondo. I diritti umani erano l'ossessione di un soldato che si era aggiudicato sul campo l'appellativo di giusto.

Nei tempi della divisione fratricida era diventato una spina nel fianco per i serbi, un intollerabile “traditore”. Durante le frequenti e infruttuose trattative di pace nei quattro anni del conflitto si rifiutavano di sedersi al tavolo in sua presenza. Ed è rimasta proverbiale la risposta che diede al generale Guero, un suo ex commilitone, quando minacciò di rompere i colloqui se lui fosse rimasto nella stanza. Ribatté: “Io parlerò col generale Guero quando finalmente scenderà dagli alberi con il suo casco di banane”. Ed era uno spinta accusa al tribalismo imperante tra chi, alla fine del Ventesimo secolo, aveva cinto un assedio medievale alle città, ordinando di sparare sulla popolazione civile inerme.

Era amato dalle truppe, dai suoi sottoposti. Ogni sera, dopo il coprifuoco ispezionava le posizioni in prima linea della capitale assediata, portando grappa, sigarette, cioccolato a coloro cui toccavano i turni più duri e pericolosi. Il generale strisciava fin dentro i palazzi che erano fronte e dove la divisione era una semplice parete. Era un messaggio: “il vostro generale è con voi”.

Non altrettanto era ben visto dalla leadership musulmana al potere che sfruttava la sua immagine al cospetto dei media planetari per suffragare l'idea di una Bosnia che difendeva una multietnicità di fatto erosa dai lutti e dalla storia ormai indirizzata verso il sovranismo. Sapeva che lo stavano usando come biglietto da visita. E tuttavia non era un suo problema: stava facendo ciò che gli sembrava giusto.

La prima volta che lo incontrai, erano i primi giorni dell'assedio lui già un'icona, e gli chiesi l'età mi rispose: “Ne ho 55, ma...”. E si mise a fare una verticale a due mani sulla scrivania, rappresentazione di una forma fisica e di una forza d'animo che non era venuta meno anche se era passata la sua stagione migliore.

Amava la vita e sapeva ridere, il generale Jovan Divjak. Memore dei suoi soggiorni parigini per frequentare la Scuola superiore degli ufficiali, cantava con buona intonazione le canzoni in voga nella dolce Francia, in particolare l' Yves Montand di “Les grands boulevards”, un inno all'urbanità che coincideva, nel suo pensiero, con la parola civiltà.

Finita la guerra il partito musulmano lo mise ai margini per fare largo ai propri generali. Non se ne crucciò. Fondò l'associazione “L'istruzione costruisce la Bosnia” che distribuiva e distribuisce ancora borse di studio agli orfani. Era convinto che solo attraverso le nuove generazioni sarebbe stato possibile ricostruire il tessuto connettivo del Paese che fu prima che l'odio etnico prendesse il sopravvento.

Ha scritto alcuni libri, tra cui “Sarajevo mon amour”, pubblicato anche in Italia. Ha avuto un ruolo nel film “Venuto al mondo” di Sergio Castellitto, piccola concessione a una vanità stretta parente del suo desiderio di cultura. Uomo d'armi, certo. Ma anche di buone letture, di passione per le arti.

E' morto Jovan, sempre troppo presto. Non il suo esempio. Una stella polare anche quando la notte era più buia.

 

 

 

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità