Bielorussia
Migliaia di ragazzi entrano ed escono di prigione perché manifestano il proprio dissenso in piazza o via social. Tra la voglia di combattere e il sogno di espatriare
di Federica Bianchi
Quando Julya ripensa alle sue notti in carcere ha freddo. Il pavimento su cui ha condiviso il sonno con altre 18 ragazze, in una cella fatta per cinque, era gelato. E sporco. Ma l’odore che le è rimasto appiccicato sulla pelle, e che non va via, nemmeno a mesi di distanza, e anzi ha preso a macchiarle i pensieri, è quello della paura. «Devo andarmene, non posso più restare qui», ripete su Telegram, il social media diventato unico canale di comunicazione con il mondo esterno per l’opposizione bielorussa: «Se mi rimettono dentro ci rimarrò almeno due anni».
Sono migliaia i ragazzi e le ragazze che, diventati adulti sulle autostrade della Rete, la vita tranquilla in una palazzina grigia alla periferia di Minsk non la vogliono più. «Così non possiamo più vivere», spiega Julya, 31 anni, che per sei ha lavorato come modella e ha viaggiato in Europa: «Ho visto molte vite diverse e so che anche la nostra può essere migliore di quella ad acqua e patate che i vecchi chiamano “stabilità”». Le nuove generazioni vogliono libertà e salari decenti «perché 100 euro al mese non lo sono», e soprattutto, vogliono prendere in mano il proprio futuro.
Avevano votato lo scorso agosto perché se ne andasse il dittatore Alexander Lukashenko, dopo 26 anni di pugno duro. Ma lui non ne ha voluto sapere. Nemmeno le gigantesche proteste in strada lo hanno smosso, forte dell’appoggio di Vladimir Putin e del suo desiderio di riannettere la Bielorussia alla Russia. Così loro, ventenni e trentenni soprattutto, sono mesi che entrano ed escono di prigione. Alcuni il cielo non lo vedranno più. Tra loro anche meno giovani. Come il dissidente Vitold Ashurak, 50 anni, membro di quella che gli studenti definiscono “la vecchia opposizione”, restituito alla moglie in un sacco, con la testa completamente fasciata. Sfasciata. Attacco cardiaco, le hanno detto. E nessuno sa chi sarà la prossima vittima. Perché la giustizia in Bielorussia è diventata un tiro di dadi. «Puoi essere arrestato in qualsiasi momento, magari dopo essere stato notato qualche giorno prima», dice su Telegram Sophia, un’insegnante di fisica e matematica di 20 anni che in prigione ci è stata già due volte per avere partecipato alle manifestazioni del sindacato degli studenti: «Ma all’università non ci vado più», aggiunge: una situazione condivisa da centinaia di colleghi e colleghe. «Dopo il primo arresto sono entrata in una forte depressione e non riuscivo più a fare esami». Due settimane senza mai lavarsi. Obbligata a dormire per terra perché prigioniera politica. «Almeno adesso che non studio più, ho il tempo di aiutare chi ha bisogno, di spiegare su Telegram cosa succede a chi ancora non se ne rende conto, di scrivere lettere a chi è in carcere, cercando di sollevare il morale». La lotta continua anche tra le pareti di casa, nella più grande incertezza: non sempre lettere o pacchi arrivano al destinatario. A volte mettono in pericolo chi le invia. «Tutti gli arresti sono falsi, i documenti sono falsi, gli avvocati non servono a nulla e nemmeno la Costituzione», sottolinea Julya: «Arrestano chi vogliono, quando vogliono». Per un mese, dopo che è uscita dal carcere, è rimasta a fissare le pareti di casa, ad ascoltare i rumori delle scale, le voci dei vicini. Aspettando che tornassero a prenderla. Il marito Sergei dai poliziotti era stato picchiato a sangue. Due amici violentati dai bastoni della polizia. Il carcere come roulette russa. Puoi vincere un giro per perdere tutto il successivo.
Margot, presidente di una ong di studenti
La società di costruzioni per cui Julya lavorava, la Diana Holdings, legata a doppio filo al regime, l’aveva licenziata un anno fa, prima delle elezioni, in seguito a un suo post su Instagram in cui chiedeva misure contro il Covid-19, scioccata dal numero degli ammalati intorno a lei e dall’indifferenza del regime. Era stato per sopravvivere che lei aveva iniziato a intrecciare braccialetti rossi e bianchi da vendere ad amici e conoscenti durante la campagna elettorale di Sviatlana Tsikhanouskaya, la donna diventata leader dell’opposizione e simbolo della rivolta dopo l’incarcerazione del marito Sergei Tikhanovsky la scorsa primavera, quando il regime aveva capito che avrebbe potuto essere una minaccia concreta al suo potere assoluto.
C’era grande entusiasmo allora. Forte era la speranza di rovesciare Lukashenko nelle urne o almeno con le manifestazioni di piazza. Con quel turbinio di rosso e bianco, i colori della bandiera repubblicana. Di quella repubblica sopravvissuta solo pochi mesi nel 1918, prima dell’occupazione tedesca, poi di quella sovietica e infine della dittatura. Il rosso e il bianco: i colori della libertà. Per un paio di calzini rossi e bianchi però oggi si finisce in carcere. Per una sciarpa bianca su cappotto rosso si può morire. I simboli hanno un peso, e Lukashenko lo sa.
Liudmila con suo figlio. Più volte la sua casa è stata perquisita dopo aver partecipato alle manifestazioni
È stata presa, Julya, mentre vendeva uno di quei suoi braccialetti. Colta in flagrante. «Volevano che spiassi per loro», racconta del suo interrogatorio: «Non ho voluto e per questo sono finita in prigione. “Per avere il tempo di riflettere”, mi hanno detto». Ormai ha smesso di fare braccialetti e studia invece le vie di fuga. Come decine di migliaia di compatrioti, che si sono riversati alla ricerca di asilo politico in Lituania, in Polonia e anche in Ucraina, dove la diaspora aiuta i dissidenti più esposti. «E io sono davvero nei guai».
Ma non è più così facile partire. Non solo perché servono soldi, e i poliziotti hanno rubato dalla casa di Julya i 500 dollari che aveva messo da parte per le emergenze: Lukashenko ha impedito a tutti i suoi cittadini di lasciare il Paese. Da qualche giorno poi, lo ha vietato persino a chi ha un permesso di residenza di lungo periodo in uno altro Stato. Teme l’emorragia dei cittadini più istruiti, gli informatici e i medici, soprattutto, che costituiscono l’ossatura professionale di una popolazione ancora fortemente dipendente dai sussidi pubblici. La situazione è ulteriormente precipitata con il dirottamento su Minsk del volo di linea Ryanair in volo tra Atene e Vilnius lo scorso 24 maggio, ad opera dei servizi segreti bielorussi. Giustificato con un inesistente allarme bomba ad opera di Hamas, l’obiettivo è stata la cattura su suolo bielorusso del giornalista 26enne Roman Protasevich, ideatore del canale Telegram Nexta Live, che da mesi informa e organizza l’opposizione in luoghi pubblici e, sempre più, privati. Per evitare che potesse prendere il posto del fidanzato questa volta hanno arrestato anche la sua fidanzata, Sofia Sapega. Un’azione da film sulla Guerra Fredda, insieme surreale e tragica.
Per una volta la reazione di Bruxelles non si è fatta attendere: nel giro di due giorni ha vietato l’atterraggio dei voli bielorussi sul territorio europeo e ha chiesto alle sue aerolinee di evitare il sorvolo della Bielorussia, oltre che di esporre in ogni aeroporto del Continente la fotografia di Protasevich. «Se prima la repressione era una questione interna adesso è un problema europeo perché tocca la sicurezza dell’Unione», sorride amaramente Valentin Stefanovich, vicepresidente della Ong per la difesa dei diritti umani Viasna. Ma la chiusura degli aeroporti ha l’inconveniente di precludere anche le vie di fuga aeree a chi teme la persecuzione del regime. «È il male minore», taglia corto Julya: «Adesso aspettiamo le sanzioni europee contro il regime. Speriamo severissime. Devono strangolare l’élite». La Commissione europea fa sapere che saranno non solo contro esponenti politici ma anche contro manager delle aziende pubbliche, che da sole rappresentano il 75 per cento del Pil del Paese. In alcuni settori o contro alcuni individui potrebbero essere concordate anche con gli Stati Uniti per amplificarne l’effetto. È questione di giorni per le sanzioni contro persone fisiche o giuridiche: il 21 giugno il Consiglio dei ministri degli Esteri dovrebbe approvarle all’unanimità, Ungheria permettendo. Si tratterà di qualche settimana in più per quelle contro interi settori economici. «Con le sanzioni e l’aiuto dell’Europa andremo fino in fondo», dice Margot, 19 anni, impiegata informatica presso Paralect, una società di ingegneria digitale con clienti in Europa e negli Usa: «Lukashenko è in panico. Dice che la nostra crisi economica è dovuta al tradimento europeo. Chiede aiuto a Mosca. Ma non potrà andare avanti per sempre. A un certo punto Putin chiederà l’annessione e la situazione precipiterà ulteriormente».
L’Unione europea ci scommette. Ha appena annunciato un pacchetto di tre miliardi di euro come sostegno alla transizione democratica. Il messaggio è chiaro: la Bielorussia libera potrà contare sui programmi di ricostruzione politica ed economica finanziati dalla Banca europea degli investimenti e da quella per la Ricostruzione e lo Sviluppo, sotto lo sguardo benevolo del Fondo monetario internazionale.
Ma il problema è convincere Lukashenko che non ha un futuro: la gente per paura non scende più in strada, al massimo tenta la fuga. Eppure i più giovani non demordono: «Il movimento è meno visibile rispetto a prima ma non meno attivo, anzi è più inclusivo perché sta raggiungendo anche quel 20 per cento di popolazione che vive nelle campagne», dice Margot: «Credo che i giorni di Lukashenko siano contati».