Da Bergamo a Bari, la pandemia ha fatto crollare le iscrizioni. Dovrebbero riaprire il primo luglio, ma in molti rischiano di non farcela

Vuoto il campo da bocce, spente luci e tv, le sedie ancora rovesciate sui tavoli a gambe all’aria. È metà mattina ma in tutto questo silenzio passa anche la voglia di un caffè, anche se «si potrebbe già somministrare, tecnicamente», e in bacheca pare invecchiato male pure lo slogan dell’ultima campagna di tesseramento prima del Covid, stagione 2019-20: “Insieme per passione”. «Insieme», in fondo, è vero che «qui non si sta già più da un bel po’», dicono senza sorridere i gestori del circolo Arci di Grumello del Monte, 6mila anime nel cuore della Bergamasca. Dei 250, 300 soci stabili «dei tempi di pace», li chiamano da queste parti, «quelli lasciati vivi dalla pandemia rimangono ancora in casa, ci si saluta da lontano». E la fotografia spenta dei suoi saloni chiusi è quella di un intero settore che rischia di rimanere travolto dalla crisi.

 

Oltre 10 mila tra circoli ricreativi e culturali del terzo settore, luoghi di aggregazione e bianchetti al bancone, partite a carte e politica, presidi di socialità in periferie, entroterra e centri storici, che nell’Italia disordinata delle riaperture saranno gli ultimi a ripartire. Con il rischio «di neanche arrivarci, a riaprire», - è il grido di dolore di quelli che resistono - e insieme di spegnere via via territori, comunità, un pezzo portante di Paese.

 

Tra i tanti mondi sconvolti dalla pandemia, del resto, quello dell’associazionismo di promozione sociale e culturale è uno di quelli ancora in piena emergenza. Dall’arrivo del Covid, i circoli sono stati aperti neanche tre mesi su 15. «Una finestra tra maggio e luglio, nel 2020, un’altra tra settembre e ottobre, nel 2021 ancora nulla», fanno notare dalla sedi romane di Arci e Acli, le due associazioni del terzo settore più presenti sul territorio, circa un milione di soci ciascuna fino alla scorsa primavera. Una lunga notte che il nuovo decreto riaperture, a metà maggio, ha di fatto prolungato fino al prossimo primo luglio. Dopo le ripartenze di centri commerciali, palestre, parchi tematici, persino fiere e congressi, e proprio nel periodo in cui, normalmente, si chiude. «Una discriminazione», viene definita, «che rischia di affossare definitivamente migliaia di realtà associative in tutta Italia», non solo la filiera Arci e Acli ma anche Endas, Auser, Aics. E in qualche modo - è l’accusa, più o meno esplicita - che tradisce una certa mancanza di attenzione verso l’intera categoria.

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«Fa male capire quanto poco contiamo, ed è paradossale che alle stesse condizioni di adempimento delle norme igienico-sanitarie, con soci vaccinati e tracciati, non si possa svolgere attività identiche o analoghe a quelle di altri», prova a spiegare Luca Cantelli, 33 anni, tra i gestori del Mercato Sonato, il centro culturale giovanile di San Donato, appena fuori dalle mura di Bologna. «Sta ripartendo tutto, e a noi tocca stare a guardare. A marzo c’è stato il via libera alla somministrazione dei bar interni ai centri, ma aprire i bar senza le attività è un controsenso. E aprire a luglio è come non aprire».

 

In estate le città si svuotano, le attività si sospendono, «noi aspetteremo settembre, quando avrà senso proporre festival e rassegne». Nel frattempo però «sono crollate le sottoscrizioni, dalle 8.500 pre-Covid alle 2mila attuali», rimangono a zero le entrate, continuano a pesare i costi fissi. «Noi terremo botta, ma chissà quanti altri neanche ci arrivano, a settembre». A scorrere i numeri del crollo, soprattutto quelli di Arci, la più rappresentativa delle associazioni del terzo settore, l’emergenza prende corpo e dimensioni ancora più chiare. Le sottoscrizioni sono scese dalle 830mila dell’ultimo anno pre-pandemia alle 258mila del 2021.

 

È sceso di quasi 500 unità anche il numero dei circoli affiliati, dai 3.905 del 2019-20 ai 3.466 del 2020-21: un conto che comprende anche i (pochi) che hanno deciso di sospendere solo temporaneamente l’attività, qualche raro passaggio ad altre sigle, ma soprattutto chiusure. E picchi in Emilia Romagna (240 circoli affiliati in meno, 90 a rischio, 155mila tessere in meno), Lombardia (-119 circoli e -152mila tessere, passate da 149mila a neanche 40mila), Toscana (da 1.015 a 731 le affiliazioni, -75mila tessere), Piemonte (passato da 78mila a 22mila tessere in un anno), Lazio (-60mila soci). Un disastro condiviso in particolare con Acli (il presidente nazionale, Emiliano Manfredonia, parla di «metà dei nostri circoli a rischio chiusura») davanti al quale potrebbero fare tanto ma non fanno, per ora, i 170 milioni promessi dal decreto Ristori bis, ancora bloccati al Mef per la mancanza di criteri concordati di distribuzione.

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Stanziati per l’associazionismo di promozione sociale, tre mesi dopo i fondi destinati ai circoli rimangono incagliati nell’eterno rapporto complicato tra Stato e Regioni. Sarebbero infatti gli enti regionali, a dover distribuire i soldi, ma è la macchina statale a non aver ancora elaborato i criteri generali di ripartizione tra una Regione e l’altra. Tra i circoli c’è così chi è «riuscito a galleggiare solo grazie ai risparmi di anni», ammettono ad esempio Francesco Brunetti, presidente del circolo Acli di Orciatico, provincia di Pisa, e Marco Tarantino, 50 anni, del Tavola tonda Arci di Palermo, una mecca per il mondo della musica in Sicilia che nell’ultimo anno ha perso 800 soci su 1.400 e più di metà del fatturato.

 

C’è chi ha chiuso definitivamente, come Ritmo lento, a Bologna, costretto a chiudere «per mancanza di risorse», dice uno dei gestori, Valerio Tucella, 25 anni: «Perché senza strumenti di autofinanziamento certi i soldi che avevamo investito sono finiti». E chi sta resistendo come il Zona Franka, circolo giovanile del quartiere popolare della Madonnella, a Bari, 100 soci rimasti su 300», racconta Carolina Velati, 27 anni, «salvo anche e soprattutto «per senso di responsabilità, per poter garantire il doposcuola e altri servizi a chi ne ha bisogno».

 

Ancora prima che economico, però, «il problema è sociale», sostiene Matteo Giusti, 32 anni, presidente del circolo Arci di Bottegone, 10mila abitanti e una manciata di chilometri da Pistoia. Oltre all’associazione in sofferenza e ai posti di lavori a rischio, «stiamo parlando di presidi di aggregazione che si perdono nel nulla, lasciando sole le persone», fa notare dalla storica casa del popolo del paese, costruita con «i risparmi e il sudore dei compagni» a inizio anni Cinquanta. «Un’istituzione» che prima del Covid ospitava ballo liscio e cineforum, tombole e teatro, burraco e ginnastica dolce per anziani, e oggi «resiste come può anche alle beffe di questo periodo: com’è possibile che possano aprire le palestre a centro metri da noi, e noi no? Perché ci hanno fatto sanificare i locali per poi farci rimanere chiusi fino a luglio? Lo sanno a Roma il ruolo di prossimità che ricopriamo?».

 

Nella regione più anziana d’Italia, la Liguria, il problema è forse ancora più evidente. In casa Arci l’anno della pandemia si è portato via 70 circoli, e i soci sono passati da essere 50mila a neanche 17mila. Una «mazzata», la definisce il presidente regionale dell’associazione, Walter Massa, 50 anni, «per la struttura ma soprattutto per quei 15mila soci anziani che senza il circolo aperto sotto casa, spesso l’unico presidio di socialità in interi territori, sono persi». «In Italia ci sono paesi fatti di cento abitanti, la piazza, il circolo e a volte neanche il campanile: i centri del terzo settore avrebbero dovuto riaprire per primi - insiste Massa - e invece non siamo attività commerciali, ci hanno trattato come le sale da bingo, e siamo finiti in fondo alla lista. Con il risultato che decenni di lavoro di comunità e radicamento territoriale finiranno spazzati via anche per colpa di una politica che dimostra di non avere contezza del valore della rete di partecipazione che rappresentiamo. O peggio, ci usa per dimostrare di saper usare anche la mano forte, ma solo sui più deboli» .

A ncora nel pieno della tempesta, però, tra chi prova a resistere, c’è anche chi giudica il momento «un’occasione da cogliere». «In un momento in cui le persone sono ancora più isolate, le famiglie più povere, ci sarà ancora più bisogno di circoli, di spazi aperti, di ragionare sul ruolo da sostenere nelle nostre comunità», riflette Rossella Vigneri, 38 anni, presidente di Arci Bologna. Ecco perché al Bottegone di Pistoia, ad esempio, si sta «lavorando a qualcosa di nuovo: da settembre corsi di computer per over 60, doposcuola per bambini, speriamo il cineforum». O a Grumello del Monte, Bergamo ad un passo, nel circolo di over 60 in cui Angelo Manenti è presidente da vent’anni c’è già in mente «un progetto di rilancio: il riallestimento degli spazi in modo da ospitare anche il liscio e la tombola, così verranno anche le pensionate, che in questo dopo lavoro tutto maschile sono sempre passate di rado».

 

«Dopo un anno siamo con l’acqua alla gola, i costi fissi sono intorno agli 8mila euro, le entrate ancora a zero», racconta Manenti, 65 anni, dal circolo chiuso: «Siamo rimasti in piedi grazie ai soci che si sono autotassati, ma continuare a vederli vagare come zombie per il Paese orfani del loro circolo di casa fa tristezza. Dopo l’estate apriamo alle donne perché non possiamo passare la vita a guardare solo le partite dell’Atalanta, c’è bisogno di futuro. Il mondo cambia, quello che non deve cambiare è lo spirito. Questo circolo l’hanno costruito insieme socialisti e comunisti per dare un dopolavoro agli operai che andavano a lavorare a Milano, ha resistito agli anni di piombo, alle trasformazioni del Paese e della sinistra, sopravviverà anche a questa stagione».